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1984: Ediz. integrale
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1984: Ediz. integrale

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About this ebook

EDIZIONE REVISIONATA 07/11/2023.

"1984" (tit. orig. "Nineteen Eighty-Four") è il più celebre romanzo di George Orwell ed è stato scritto nel 1948. Una guerra devastante ha suddiviso il pianeta in tre super-potenze, in lotta fra loro e governate da regimi totalitari: Oceania, Eurasia ed Estasia. È nella prima che Winston vive e lavora da uomo qualunque. Nell'animo, però, sembra l'unico a rifiutare la società voluta dal Partito e la filosofia imposta, che non permette tanto l'amore quanto il libero pensiero. La sua ribellione è interiore, ma col tempo si concretizza in azioni sempre più pericolose. La sua vita viene stravolta quando incontra Julia, una ragazza che solo in apparenza sembra calata nelle logiche del sistema... "1984" è un romanzo di grande importanza e attualità. Ammonisce contro ogni forma di totalitarismo, di falsificazione della realtà e della storia, corrotta dai mezzi d'informazione, e contro l'annullamento dell'identità individuale. Significativa è la traduzione italiana di "Big Brother" (fratello maggiore) che ormai è rimasta nel nostro immaginario come quella di "Grande Fratello".
LanguageItaliano
PublisherCrescere
Release dateDec 17, 2020
ISBN9788883378737
1984: Ediz. integrale
Author

George Orwell

Eric Arthur Blair (George Orwell) was born in 1903 in India where his father was a civil servant. After studying at Eton, he served with the Indian Imperial Police in Burma for several years which inspired his first novel, Burmese Days. After two years in Paris, he returned to England to work as a teacher and then in a bookshop. In 1936 he travelled to Spain to fight for the Republicans in the Spanish Civil War, where he was badly wounded. During the Second World War he worked for the BBC. A prolific journalist and essayist, Orwell wrote some of the most influential books in English literature, including the dystopian Nineteen Eighty-Four and his political allegory Animal Farm. He died from tuberculosis in 1950.

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    1984 - George Orwell

    George Orwell

    image 1

    1984

    Edizione integrale

    © 2023 CRESCERE LIBRERIA EDITRICE S.r.l.

    CRESCERE Edizioni fa parte di

    Gruppo editoriale Crescere

    http://www.edizionicrescere.it

    Tutti i diritti di pubblicazione e riproduzione anche parziali sono riservati

    Per approfondire: Opera ed Autore - Link Wikipedia - Wikimedia Foundation Inc.

    A cura di Alberto Büchi : ALBERTO BÜCHI LIBRI (Facebook)

    Edizione cartacea disponibile isbn - 9788883379079

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    Indice

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    SECONDA PARTE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    TERZA PARTE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    APPENDICE

    Note

    PRIMA

    PARTE

    Capitolo 1

    Prima parte

    Era una luminosa e fredda giornata d’aprile, e gli orologi segnavano le tredici. Winston Smith, con il mento premuto contro il petto nel tentativo di evitare le forti raffiche di vento, scivolò veloce dietro le porte di vetro degli Appartamenti della Vittoria: non abbastanza veloce, però, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.

    All’ingresso c’era un terribile odore di cavolo bollito e di tappeti vecchi e logori. Da una parte, sul fondo, era stato attaccato un manifesto a colori, troppo grande per essere affisso all’interno. Sopra era raffigurato un volto molto grande, largo più di un metro: il volto di un uomo sui quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti severi ma non brutti. Winston andò verso le scale. Era inutile, infatti, provare con l’ascensore. Funzionava raramente perfino nei giorni migliori e in quel periodo la corrente elettrica durante il giorno veniva tolta. Faceva parte della campagna economica in preparazione della Settimana dell’Odio. L’appartamento si trovava al settimo piano e Winston, che aveva trentanove anni e un’ulcera varicosa alla caviglia destra, saliva lentamente, fermandosi ogni tanto a rifiatare. Ad ogni pianerottolo, proprio di fronte al vano dell’ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo che gli occhi vi seguano quando vi muovete. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA , diceva la scritta messa sotto.

    All’interno dell’appartamento una voce dolciastra leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio opaco, situata sulla parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò di molto, anche se le parole si potevano ancora udire. Il volume dell’apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato ma non c’era modo di spegnerlo completamente. Winston si avvicinò alla finestra: era una figura piccola, fragile, la magrezza del corpo appena accentuata dalla tuta azzurra, l’uniforme del Partito. Aveva i capelli biondi, il colorito del volto sanguigno, la pelle resa ruvida dal sapone grezzo, dalle lamette smussate e dal freddo dell’inverno appena terminato.

    All’esterno, perfino attraverso i vetri chiusi della finestra, il mondo appariva freddo. Giù in strada piccoli mulinelli di vento creavano spirali di polvere e cartacce e, nonostante splendesse il sole e il cielo fosse di un azzurro intenso, sembrava che nulla avesse colore, a parte i manifesti incollati ovunque. Il volto con i baffi neri guardava fisso da ogni angolo. Ce n’era uno proprio sulla facciata della casa di fronte. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA , diceva la scritta, mentre gli occhi scuri fissavano quelli di Winston. Più giù, a livello della strada, un altro manifesto, strappato a uno degli angoli, sbatteva al vento in modo irregolare, coprendo e scoprendo una singola parola: SOCING . In lontananza, un elicottero volava basso tra i tetti, si librò un istante come un moscone, poi saettò con una curva in un’altra direzione. Si trattava di una pattuglia della polizia, che spiava attraverso le finestre. Ma le pattuglie non erano poi così importanti. Solo la Psicopolizia contava.

    Alle spalle di Winston, la voce del teleschermo continuava a farfugliare qualcosa a proposito della ghisa grezza e dell’ormai prossimo completamento del Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualunque suono che Winston avesse emesso, appena più forte di un bisbiglio, sarebbe stato colto; inoltre, fino a quando fosse rimasto nella porzione di spazio controllata dalla placca metallica, avrebbe potuto essere sia visto che sentito. Ovviamente, non era possibile sapere se e quando si era osservati. Con quale frequenza, o in quale modo, la Psicopolizia si collegasse ai singoli apparecchi era pura congettura. Si poteva persino supporre che osservasse tutti in continuazione. In ogni caso, si poteva collegare al vostro apparecchio quando voleva. Si doveva vivere (e così accadeva, secondo un’abitudine che diventava presto istinto) con l’idea che qualsiasi suono venisse sentito e che, a meno di non trovarsi al buio, qualsiasi movimento sarebbe stato attentamente osservato.

    Winston dava le spalle al teleschermo. Era il modo più sicuro, nonostante perfino una schiena, come sapeva benissimo, poteva essere rivelatrice. A circa un chilometro [¹] di distanza, il Ministero della Verità, il posto dove lavorava, si ergeva vasto e cupo nel panorama. E questa, considerò con una certa repulsione, questa è Londra, la principale città di Pista Uno, che a sua volta era la terza provincia più popolata dell’Oceania. Si sforzò di recuperare dai ricordi dell’infanzia qualche indizio che gli dicesse se Londra fosse sempre stata così. C’erano sempre state tutte quelle case ottocentesche in rovina, con i fianchi tenuti su da travi di legno, le finestre rabberciate col cartone, con i tetti ricoperti da fogli dalla lamiera ondulata e i muri dei giardini che rischiavano di crollare piegandosi da tutte le parti? E le aree colpite dalle bombe, dove la polvere d’intonaco turbinava nell’aria e le erbacce crescevano sparse sulle macerie? E le altre zone dove le bombe avevano raso al suolo ogni cosa, lasciando che disgraziate colonie di catapecchie di legno spuntassero dal nulla simili a tanti pollai? Ma era inutile, non riusciva a ricordare. Della sua infanzia non rimaneva altro che una serie di immagini che rimanevano perlopiù indecifrabili e prive di uno sfondo su cui distinguersi.

    Il Ministero della Verità (Miniver, in neolingua [²] ) era sorprendentemente diverso da qualsiasi altro oggetto nel panorama. Si trattava di un’enorme struttura a piramide di cemento bianco lucente che si erigeva, terrazza dopo terrazza, fino a trecento metri di altezza. Dal punto in cui si trovava Winston era possibile leggere, tratteggiati sulla facciata bianca in caratteri molto eleganti, i tre slogan del Partito:

    LA GUERRA È PACE

    LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ

    L’IGNORANZA È FORZA

    Si diceva che il Ministero della Verità avesse tremila stanze sopra il livello della strada e altrettante ramificazioni al di sotto. Sparsi per Londra c’erano altri tre edifici simili per aspetto e dimensioni. Rendevano le costruzioni circostanti talmente minuscole che dal tetto degli Appartamenti Vittoria li si poteva vedere tutti e quattro contemporaneamente. Erano le sedi dei quattro Ministeri fra i quali era distribuito l’intero apparato governativo: il Ministero della Verità, che si occupava dell’informazione, dei divertimenti, dell’istruzione e delle arti; il Ministero della Pace, che si occupava della guerra; il Ministero dell’Amore, che manteneva l’ordine e faceva rispettare la legge; il Ministero dell’Abbondanza, responsabile per gli affari economici. In neolingua questi erano i loro nomi: Miniver, Minipax, Miniamor e Miniabb.

    Il Ministero dell’Amore era quello che tra tutti incuteva un vero e proprio terrore. Era completamente privo di finestre. Winston non c’era mai stato, anzi non ci si era mai nemmeno avvicinato più di cinquecento metri. Accedervi era impossibile, se non per ragioni ufficiali, e anche in quel caso si doveva procedere attraverso un labirinto di filo spinato, porte d’acciaio e nidi nascosti di mitragliatrici. Persino le strade che portavano ai recinti esterni erano pattugliate da guardie con facce da gorilla, in uniformi nere e armate di pesanti manganelli.

    Winston si voltò di scatto. I suoi lineamenti composero un’espressione di tranquillo ottimismo che era opportuno mostrare quando ci si trovava di fronte al teleschermo. Attraversò la stanza ed entrò nella piccolissima cucina. Uscendo dal Ministero a quell’ora, aveva rinunciato al pasto alla mensa ma sapeva bene che in cucina c’era solo un pezzo di pane nero da conservare per la colazione del giorno dopo. Prese dalla mensola una bottiglia che conteneva un liquido incolore con una semplice etichetta bianca e la scritta Gin Vittoria . Emanava un odore nauseante e oleoso, simile all’alcol di riso cinese. Winston se ne versò la quantità di una mezza tazza da tè, si preparò allo schiaffo e poi lo mandò giù come fosse una medicina.

    La faccia gli diventò subito rossa e gocce d’acqua gli uscirono dagli occhi. Quella roba sapeva di acido nitrico e in più, ingoiandola in quel modo, era come se qualcuno lo colpisse da dietro con uno sfollagente. In ogni caso, un attimo dopo, il bruciore allo stomaco passò e il mondo cominciò a sembrargli meno cupo. Da un pacchetto sgualcito con la scritta Sigarette Vittoria estrasse una sigaretta ma per sbaglio la tenne dritta verso il basso, e allora tutto il tabacco gli cadde per terra. Fu più attento con la successiva. Tornò nel soggiorno e si sedette a uno scrittoio sistemato alla sinistra del teleschermo. Tirò fuori dal cassetto un portapenne, una boccetta d’inchiostro e uno spesso quaderno di grosso formato, ancora intonso, con la costa rossa e la copertina marmorizzata.

    Per qualche strano motivo, il teleschermo nel soggiorno si trovava in una posizione singolare: anziché sulla parete di fondo, come accadeva di solito, da dove avrebbe potuto controllare tutta la stanza, era stato installato sulla parete più lunga, di fronte alla finestra. A uno dei suoi lati si trovava una specie di piccola rientranza, dove si era seduto Winston. Le intenzioni di chi aveva a suo tempo costruito gli appartamenti erano forse quelle di permettere di ospitare in quel punto una libreria. Sedendo in questa rientranza, con le spalle attaccate al muro, Winston poteva restare fuori dal campo visivo del teleschermo. Poteva sempre essere udito, ovviamente, ma se non cambiava posizione, era impossibile vederlo e, forse, proprio la particolare conformazione della stanza gli aveva fatto venire in mente ciò che ora stava per fare.

    Gliel’aveva fatta venire in mente anche il quaderno che aveva appena estratto dal cassetto. Si trattava di un quaderno di rara bellezza, con la carta liscia e vellutata, un poco ingiallita dal tempo, di una qualità che almeno da quarant’anni non si produceva. Winston immaginava, comunque, che il quaderno fosse anche più antico. L’aveva notato nella vetrina di una sudicia bottega di robivecchi in uno dei quartieri più squallidi della città, non ricordava bene quale, ed era stato subito colto dall’irresistibile desiderio di averlo. Ai membri del Partito, in realtà, non era permesso entrare nei negozi normali (fare acquisti sul libero mercato, così era definita un’azione del genere), ma il divieto non veniva rispettato in modo rigoroso perché c’erano molti oggetti, come per esempio le stringhe per le scarpe e le lamette da barba, che non si sapeva mai dove trovare. Winston aveva dato un’occhiata veloce a entrambi i lati della strada, poi era entrato quasi di nascosto nella bottega e aveva comprato il quaderno per due dollari e cinquanta. In quel momento non sapeva neanche per quale motivo lo desiderasse tanto. L’aveva messo nella cartella con un senso di colpa e se l’era portato a casa. Anche se non c’era scritto niente, si trattava comunque di un oggetto compromettente.

    Quello che stava per fare era di iniziare un diario. Non una cosa di per sé illegale (nulla era illegale, dal momento che non c’era più alcuna legge), ma era ragionevole supporre che, se lo avessero scoperto, l’avrebbero punito con la morte oppure, nella migliore delle ipotesi, con venticinque anni di lavori forzati. Winston infilò un pennino nella cannuccia e lo succhiò per pulirlo. La penna, e in particolare questo tipo di penna, era uno strumento antiquato che si usava raramente, non lo si usava nemmeno più per firmare; lui se n’era procurata una di nascosto (e con una certa difficoltà) solo perché sentiva che quella bella carta color crema meritava che ci si scrivesse sopra con un vero pennino, e non che fosse graffiata da una penna qualunque. In effetti, non era abituato a scrivere a mano. Tranne che per qualche brevissimo appunto, dettava tutto al parlascrivi , che non era proprio il caso di usare in quella circostanza. Intinse la penna nell’inchiostro e subito dopo ebbe un attimo di esitazione. Tremava fin dentro le viscere. Lasciare un segno su quella carta era un atto cruciale. Con lettere piccole e goffe, scrisse: 4 aprile 1984 .

    Appoggiò la schiena alla sedia. Un senso di completa impotenza s’era impadronito di lui. Tanto per cominciare, non sapeva nemmeno con certezza se fosse davvero il 1984. La data doveva essere più o meno quella, perché era sicuro di avere trentanove anni, di essere nato nel 1944 o nel 1945, ma di quei tempi era possibile fissare una data solo con l’approssimazione di uno o due anni.

    Tutto d’un tratto si domandò per chi stesse scrivendo quel diario. Per il futuro? Per esseri umani non ancora nati? Per un attimo indugiò ancora su quella dubbia data segnata sulla pagina bianca, e poi sbatté contro la parola in neolingua bipensiero . Solo in quel momento si rese davvero conto della grandezza di ciò che aveva cominciato a fare. Come avrebbe potuto comunicare col futuro? Era una cosa già per sua natura impossibile. O il futuro sarebbe stato del tutto simile al presente, nel qual caso non l’avrebbe ascoltato, oppure sarebbe stato diverso, e allora la sua testimonianza sarebbe stata priva di significato.

    Per qualche minuto rimase intontito a fissare la pagina, mentre dal teleschermo proveniva una stridula marcetta militare. Era già curioso come avesse quasi dimenticato come esprimersi, ma lo era anche come non sapesse nemmeno più che cosa aveva intenzione di scrivere. Erano settimane che si preparava a questo momento, e aveva sempre pensato che avesse solo bisogno del coraggio sufficiente. La scrittura in sé sarebbe stata facile. Non avrebbe dovuto fare altro che trasferire sulla carta quel monologo incessante e inquieto che da anni, nel vero senso della parola, gli passava per la mente. Ora, però, anch’esso s’era esaurito. E in più l’ulcera varicosa aveva ripreso a prudergli in modo insopportabile. Non osava grattarsela perché, se l’avesse fatto, si sarebbe sicuramente infiammata. I minuti passavano. Le uniche cose che aveva ben presente erano soltanto la pagina vuota davanti a sé, il prurito della pelle sulla caviglia, lo strepitio della musica e una lieve sonnolenza indotta dal gin.

    All’improvviso cominciò a scrivere, in preda al panico, solo in parte consapevole di quello che stava buttando giù. La sua calligrafia piccola ma infantile si srotolava su e giù per la pagina, scordandosi all’inizio le maiuscole, poi anche i punti fermi.

    4 aprile 1984. Ieri sera al cinema. Solo film di guerra. Uno molto buono di una nave piena di rifugiati bombardata da qualche parte nel Mediterraneo. il pubblico molto divertito dalla scena di un grassone che cercava di sfuggire a un elicottero che lo inseguiva, prima lo si vedeva galleggiare nell’acqua come una focena, poi lo si vedeva attraverso i congegni di puntamento dell’elicottero, dopodiché era pieno di buchi e il mare attorno a lui diventava rosa ed lui affondava subito come se l’acqua fosse entrata dai buchi. il pubblico si lasciò andare a grasse risate quando l’uomo affondò del tutto. poi si vedeva una scialuppa piena di bambini con un elicottero che le volteggiava sopra. c’era una donna di mezz’età forse ebrea seduta a prua con un bambino di circa tre anni tra le braccia. bambino urlava dalla paura e nascondeva la testa fra i seni della madre come se volesse scavarsi un rifugio dentro il suo corpo e la donna se lo stringeva tra le braccia e lo confortava anche se era pure lei in preda al terrore, e lo copriva tutto con le braccia come se pensasse che in quel modo avrebbe potuto proteggerlo dai proiettili. poi l’elicottero sganciò sopra una bomba da 20 chili un terribile bagliore poi la barca saltò in mille pezzi. poi una bellissima inquadratura del braccio di un bambino che andava su su su sempre più su nell’aria doveva averlo seguito un elicottero con una macchina da presa sul davanti e uno scroscio di applausi si levò dai posti riservati ai membri del Partito ma una donna nel settore prolet cominciò a fare una scenata gridando che non dovevano far vedere queste cose ai bambini no non avrebbero dovuto davanti ai bambini finché la polizia non l’ha buttata fuori, l’ha buttata, credo che non le sia successo nulla nessuno bada a quello che dicono i prolet tipica reazione dei prolet loro non…

    Winston smise di scrivere, anche perché gli era venuto un crampo alla mano. Davvero non sapeva che cosa lo avesse spinto a buttar giù quelle stupidaggini, ma il fatto strano era che, mentre scriveva, gli era tornato in mente un fatto molto diverso, in modo così preciso che quasi sentiva di poterlo descrivere con precisione. Anzi, si era appena reso conto che era stato proprio quel fatto a spingerlo a tornare a casa prima del solito e a cominciare il suo diario.

    Era successo quella stessa mattina al Ministero, sempre che qualcosa di così confuso si potesse dire che fosse realmente accaduto.

    Erano quasi le undici e nell’Archivio dove lavorava Winston avevano appena tirato fuori le sedie dai cubicoli e le stavano raggruppando al centro della sala, di fronte al grande teleschermo, per la preparazione dei Due Minuti d’Odio. Winston stava giusto per accomodarsi in una delle file centrali, quando all’improvviso due persone che lui conosceva solo di vista, alle quali non aveva mai rivolto la parola, erano entrate. Una era una ragazza che aveva spesso incrociato per i corridoi. Non ne conosceva il nome, ma sapeva che lavorava al Reparto Finzione. Era probabile (poiché l’aveva vista qualche volta con le mani sporche di grasso e una chiave inglese) che avesse qualche incarico tecnico relativo a una delle macchine scriviromanzi. Era una ragazza dall’aria decisa, sui ventisette anni, folti capelli neri, un volto pieno di lentiggini e movimenti rapidi, atletici. Una sottile fascia rossa, distintivo della Lega Giovanile Antisesso, le avvolgeva più volte la vita, abbastanza stretta da mettere in risalto la forma dei suoi fianchi. Winston l’aveva detestata dal primo momento in cui l’aveva vista, e sapeva bene la ragione. Si trattava di quella sua aria da campi di hockey, da bagni freddi, gite di gruppo e soprattutto quell’aria di rigore morale che emanava la sua persona. Non sopportava quasi tutte le donne, in particolar modo quelle giovani e carine. Erano, infatti, le donne, specialmente le più giovani, a dare al Partito i seguaci più bigotti, pronte com’erano ad assimilare ogni slogan, a prestarsi a fare le spie principianti e le scopritrici dei comportamenti non ortodossi. Questa ragazza, in particolare, gli dava l’impressione di essere più pericolosa delle altre. Una volta, mentre passavano per il corridoio, gli aveva lanciato una rapida occhiata sinistra, che sembrava volesse passarlo da parte a parte, e per un momento si era sentito prendere dal terrore. Aveva perfino pensato che fosse un’agente della Psicopolizia, anche se la cosa era molto improbabile. In ogni caso, ogni volta che la ragazza si trovava nelle vicinanze, lui si trovava a disagio, un misto di paura e ostilità.

    L’altra persona era un uomo di nome O’Brien, membro del Partito Interno e responsabile di un qualche incarico tanto importante e inarrivabile che Winston se ne poteva fare solo una vaga idea. Per un attimo, vedendo l’uniforme nera di un membro del Partito Interno che si avvicinava, un mormorio percorse le file degli impiegati che si davano da fare attorno alle sedie. O’Brien era un uomo grosso, tarchiato, con il collo largo e il volto rozzo e brutale, ma non privo di una certa arguzia. Malgrado l’aspetto che incuteva timore, i suoi modi erano garbati. Era solito riaggiustarsi in continuazione gli occhiali sul naso, in un modo indefinibile che, per qualche strano motivo, si poteva associare a una persona perbene. Un gesto che, se fosse stato possibile ragionare in questi termini, avrebbe potuto ricordare un gentiluomo del Settecento che offrisse una presa dalla sua tabacchiera. Winston lo aveva visto più o meno una dozzina di volte in altrettanti anni. Si sentiva profondamente attratto da lui, e non solo per il contrasto tra i suoi modi educati e il suo fisico da lottatore. Molto più lo rapiva la segreta convinzione (forse più una speranza che una convinzione) che l’ortodossia politica di O’Brien non fosse perfetta. Qualcosa sul suo volto lo suggeriva in maniera irresistibile. Oppure non era tanto l’eterodossia ciò che gli si leggeva in faccia ma, forse, soltanto intelligenza. Ad ogni modo, sembrava una di quelle persone con cui è possibile discutere, posto che si riuscisse a eludere il teleschermo e trovarsi faccia a faccia con lui. Winston non aveva mai fatto il minimo tentativo di verificare la veridicità della sua impressione e in ogni caso non ce n’era neanche il modo. In quel momento, O’Brien guardò il suo orologio, vide che erano quasi le undici ed evidentemente decise di trattenersi nell’Archivio fino alla fine dei Due Minuti d’Odio. Si sedette nella stessa fila di Winston, a un paio di posti da lui. Li divideva una donna minuta, dai capelli color sabbia, che lavorava nel cubicolo accanto a quello di Winston. La ragazza dai capelli neri era seduta proprio dietro di loro.

    Un attimo dopo ci fu uno stridore lacerante proveniente dal teleschermo in fondo alla sala, terribile, come se a produrlo fosse stata una qualche mostruosa macchina dagli ingranaggi non lubrificati, un rumore che faceva irrigidire i lineamenti e drizzare i capelli in testa. L’Odio era cominciato.

    Come al solito, era apparso sullo schermo il volto di Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo. Qualcuno dal pubblico fischiò. La donna dai capelli color sabbia emise una specie di gemito che univa paura e disgusto. Goldstein era il rinnegato, il traditore che tanto, tanto tempo fa (nessuno riusciva a ricordare quanto) era stato una personalità fra le più importanti del Partito, addirittura quasi allo stesso livello del Grande Fratello, ma che in seguito si era impegnato in attività controrivoluzionarie ed era stato condannato a morte. Dopodiché era evaso e scomparso in circostanze misteriose. Il programma dei Due Minuti d’Odio variava ogni giorno, ma Goldstein ne era sempre il protagonista. Era il traditore originario , il primo ad aver contaminato la purezza del Partito. Tutti i crimini commessi in seguito contro il Partito, tutti i tradimenti, i sabotaggi, le eresie, le deviazioni, nascevano direttamente dai suoi insegnamenti. Egli era ancora vivo da qualche parte nel mondo e stava macchinando le sue cospirazioni. Forse si trovava in qualche Paese al di là del mare, al soldo e sotto la protezione dei suoi padroni stranieri. Forse, si diceva anche questo, se ne stava nascosto nella stessa Oceania.

    Winston avvertì una stretta al diaframma. Non riusciva a guardare la faccia di Goldstein senza provare un miscuglio di emozioni che gli causava sofferenza. Goldstein aveva un ossuto volto da ebreo, con una grossa aureola di capelli bianchi e crespi e una barbetta da capra: un volto intelligente ma in qualche modo spregevole, al quale il naso lungo e sottile, su cui poggiava un paio di occhiali, conferiva una certa aria di demenza senile. Sembrava la faccia di una pecora, e persino la voce somigliava a un belato. In quel momento Goldstein stava rivolgendo il solito velenoso attacco alle dottrine del Partito, un attacco così esagerato e perverso che nemmeno un bambino ci avrebbe creduto, eppure abbastanza plausibile da trasmettere l’allarmante sensazione che potesse far presa su persone meno intelligenti e ingenue. Insultava il Grande Fratello, denunciava la dittatura del Partito, chiedeva la rottura immediata della pace con l’Eurasia, reclamava a gran voce libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero; urlava in modo isterico che la Rivoluzione era stata tradita, e tutto questo in un rapido discorso polisillabico che sembrava una specie di parodia del modo di parlare dei membri del Partito e che conteneva, addirittura, qualche parola in neolingua. In realtà, ne conteneva più di quante un membro del Partito ne avrebbe usate normalmente. Per tutto il tempo, sul teleschermo alle sue spalle, in modo da togliere ogni dubbio sui fini reconditi del suo ingannevole sermone, marciavano le infinite colonne dell’esercito eurasiatico: una fila dopo l’altra di uomini massicci, con volti asiatici privi d’espressione, che passavano sullo schermo e poi svanivano, solo per essere rimpiazzati da altri uomini identici ai precedenti. Il suono ritmico e monotono degli stivali dei soldati faceva da sottofondo sonoro alla voce belante di Goldstein.

    L’Odio era iniziato da meno di trenta secondi che già una buona metà dei presenti si era lasciata andare a manifestazioni di collera. Quell’arrogante faccia da pecora sul teleschermo e la terrificante potenza dell’esercito eurasiatico alle sue spalle erano davvero troppo per essere tollerati. In più, la vista di Goldstein, o addirittura il solo pensare a lui, provocavano in automatico sentimenti di paura e di rabbia. Goldstein era costante oggetto d’odio, anche più dell’Eurasia o dell’Estasia, considerato che quando l’Oceania era in guerra con una di queste potenze, di solito era in pace con l’altra. In ogni caso era strano che, nonostante Goldstein fosse il bersaglio dell’odio e del disprezzo di tutti, sebbene ogni giorno e per migliaia di volte, dall’alto di un podio o da un teleschermo, in libri o giornali, le sue teorie venissero contestate, fatte a pezzi, ridicolizzate ed esposte alla derisione pubblica, considerata nient’altro che spazzatura, malgrado tutto ciò, la sua influenza non sembrava mai diminuire. C’erano sempre nuovi imbecilli che aspettavano solo di esser sedotti da lui e non passava giorno senza che la Psicopolizia scoprisse spie e sabotatori che operavano sotto i suoi ordini. Era il comandante in capo di un vasto esercito ombra, di una rete sotterranea di cospiratori che si dedicavano completamente al sovvertimento dello Stato. Pare si facesse chiamare la Confraternita. Si mormorava anche dell’esistenza di un libro terribile, che costituiva il compendio di tutte quelle eresie; scritto da Goldstein, ne circolavano solo alcune copie clandestine. Non aveva un titolo. Per la gente si trattava semplicemente de il libro . In ogni caso erano soltanto delle confuse dicerie e, a meno che non si fosse proprio costretti a parlarne, sia la Confraternita che il libro erano argomenti che nessun membro ordinario del Partito avrebbe mai menzionato di sua iniziativa.

    Nel secondo minuto, l’Odio raggiunse l’apice. I presenti si sedevano e saltavano in piedi in continuazione, urlando con tutte le loro forze cercando di coprire l’esasperante belato che proveniva dal teleschermo; la donna dai capelli color sabbia era diventata rossa in faccia, apriva e chiudeva la bocca come un pesce tirato fuori dall’acqua. Perfino il rozzo volto di O’Brien si era infiammato. Era dritto sulla sedia, col petto robusto che si gonfiava come se dovesse reggere l’impatto di un’onda. La ragazza dai capelli neri seduta dietro a Winston aveva cominciato a urlare: «Porco! Porco! Porco!» All’improvviso, proprio lei prese un pesante dizionario di neolingua e lo lanciò contro lo schermo: il volume centrò il naso di Goldstein, poi rimbalzò via, mentre la voce continuava implacabile a farsi sentire. In un momento di lucidità Winston si accorse che stava gridando proprio come tutti gli altri, battendo con forza il tallone contro il piolo della sedia. La cosa più terribile dei Due Minuti d’Odio era che nessuno era obbligato a prendervi parte ma, allo stesso tempo, era anche impossibile non farsi coinvolgere. Un’estasi orrenda, provocata dalla paura, da un sordo rancore, dal desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come elettricità tutte le persone lì riunite. Trasformava il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante con il volto contorto. Eppure, la rabbia che ognuno provava non era altro che un’emozione astratta, indiretta, che era possibile dirigere da un oggetto all’altro come fosse una fiamma ossidrica. E così, un attimo dopo, l’odio di Winston non era più diretto verso Goldstein, ma verso il Grande Fratello, il Partito e la Psicopolizia. In momenti come quello le sue simpatie andavano a quell’eretico sullo schermo, deriso e solitario, unico paladino della verità e della sanità mentale in un mondo di menzogne. L’istante successivo, però, Winston si ritrovava ancora d’accordo con tutta quella gente attorno a lui e tutto ciò che si affermava su Goldstein gli sembrava veritiero. In tale momento il suo disprezzo per il Grande Fratello si tramutava in adorazione, e il Grande Fratello stesso sembrava innalzarsi verso l’alto, come impavido protettore, saldo come uno scoglio contro le orde dell’Asia, e Goldstein, nonostante il suo isolamento, la sua impotenza e i dubbi che circondavano la sua stessa esistenza, diventava come un sinistro incantatore, in grado di demolire con la sola forza della voce le fondamenta della civiltà.

    Era perfino possibile, in certi momenti, dirigere il proprio odio da una parte all’altra, con un semplice atto di volontà. All’improvviso, col medesimo sforzo con cui si alza la testa dal cuscino per uscire da un incubo, Winston poté spostare il suo odio dal volto sullo schermo alla ragazza dai capelli neri seduta dietro di lui. Vivide, affascinanti e morbose allucinazioni gli attraversarono la mente. In esse la percuoteva a morte a colpi di manganello; la legava nuda a un palo e la trafiggeva con una moltitudine di frecce, come accadde a san Sebastiano; la violentava e poi le tagliava la gola nel momento dell’orgasmo. In casi del genere capiva anche perché la odiava. La odiava perché era giovane, bella e rifiutava le pulsioni sessuali; la odiava perché bramava andare a letto con lei, anche se questo non sarebbe mai stato possibile, poiché attorno alla sua vita dolce e morbida, che sembrava chiedere di essere abbracciata, era avvolta quell’odiosa fascia scarlatta, simbolo di una castità aggressiva.

    L’Odio raggiunse il culmine. La voce di Goldstein era diventata un vero e proprio belato e, per un istante, la sua faccia si trasformò in quella di una pecora, che a sua volta si trasformò nella sagoma di un soldato eurasiatico che avanzava verso il pubblico, enorme e terribile, con la mitragliatrice che sparava raffiche in continuazione. Sembrava che il soldato stesse per sbucare dallo schermo, tanto che qualcuno nelle prime file balzò indietro sulle sedie. In quel preciso momento, però, facendo tirare a tutti un sospiro di sollievo, la figura ostile si tramutò nel volto del Grande Fratello, coi suoi capelli e baffi neri, un’immagine che sprigionava somma forza e misteriosa calma, e così grande che quasi riempiva lo schermo. Nessuno udì quello che il Grande Fratello stava dicendo. Erano soltanto poche parole d’incoraggiamento, di quelle che

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