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Il richiamo di Alma
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Il richiamo di Alma

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«Il fatto era che, dalla comparsa di Alma, sentivo un bisogno di muovermi mai provato, i nostri incontri erano più che altro pause: non avevo pace, giravo in continuazione, come intorno a me stesso, senza una meta.» La chiave, come scrisse Bruno Maier, è nel labirinto: quello delle strade di Trieste, che si dipana come una geografia precisa e misteriosa ordinata dai movimenti di Alma, una visione sfuggente e insieme corporea, presente. E il labirinto interiore del protagonista, che dalla prima apparizione della donna non può fare a meno di sentirsene attratto, guidato da confusi sentimenti di devozione e inquietudine. Esiste davvero Alma, o è solo il riflesso di una vita pensata, di un’identità ancora da inseguire? O forse, più che comprenderla e decifrarla, è importante seguirne il richiamo, come per la vita. Pubblicato per la prima volta nel 1980 da Adelphi, Il richiamo di Alma è considerata tra le maggiori opere di Mattioni, in cui l’elemento fantastico intreccia l’evidenza del reale e ne scalfisce i confini, mostrando quanto il senso di un’esistenza si annidi nel non detto, nelle suggestioni, nell’istinto di perdersi.
Prefazione di C. Mattioni. Postfazione di G. Franchi.
LanguageItaliano
PublisherCliquot
Release dateDec 9, 2020
ISBN9788899729363
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    Il richiamo di Alma - Stelio Mattioni

    Biblioteca

    9

    Stelio Mattioni

    Il richiamo di Alma

    Prefazione di Chiara Mattioni

    Postfazione di Gianfranco Franchi

    Titolo: Il richiamo di Alma (1980)

    Autore: Stelio Mattioni

    Progetto grafico di Cristina Barone

    Illustrazione di copertina di Riccardo Fabiani

    ISBN: 9788899729363

    Prima edizione: dicembre 2020

    © 2019 Cliquot edizioni srl – Roma

    www.cliquot.it

    cliquot@cliquot.it

    Prefazione

    In vita Stelio Mattioni non ha mai raggiunto una grande popolarità, destino peraltro a lungo comune ad altri autori suoi concittadini sui quali ha inciso in qualche misura la periferica collocazione geografica: Trieste, «in fondo all’Adriatico selvaggio», città che tuttavia, per la fisionomia così forte e decisa, non può non influire su chi vi nasce e vive. Apprezzato da Calvino che di lui scrive «ha un mondo fantastico proprio e di grande forza», Mattioni a più di vent’anni dalla morte è ancora poco conosciuto e poco letto nonostante l’esordio prestigioso e il fatto che sia uno dei pochi nomi di rilievo nel panorama della letteratura fantastica italiana del Novecento. Dove per fantastica, accogliendo la definizione di Todorov, intendiamo la scrittura di storie che narrano fatti e circostanze verisimili, con premesse ordinarie e coerenti, in cui all’improvviso irrompe un fatto imprevisto e sconcertante che spariglia le carte. E chi vi si trova davanti può credere che si tratti di un’illusione oppure di un fatto reale, ma allora questa realtà obbedisce a leggi a noi ignote.

    Mattioni incomincia a scrivere nel modo più classico per uno scrittore italiano del xx secolo, facendo poesia e poi passando dai racconti brevi a quelli lunghi e infine al romanzo. Scoperto come romanziere negli anni Sessanta da Roberto Bazlen, allora lettore per alcune delle maggiori case editrici italiane e in procinto di fondare Adelphi, ottiene immediato riscontro di pubblico e critica con il primo romanzo Il re ne comanda una (Adelphi 1968, poi ristampato da Cliquot nel 2019), che entra nella cinquina di finalisti del premio Campiello. La seconda volta al Campiello è con Il richiamo di Alma (Adelphi 1980), considerato dalla critica il suo capolavoro. Ecco perché quanto mai opportuna giunge la ristampa di questa opera, ancora misconosciuta. Entrambi i romanzi, a partire da vicende della più banale quotidianità, spalancano la porta su un altro mondo dove c’è un’altra vita, più vera di quella che crediamo di vivere. Una convinzione che nasce dall’intuizione che la vita così come la viviamo giorno per giorno non basta, ce ne deve essere necessariamente un’altra che si interseca senza sovrapporsi. Uno sconfinamento cui l’uomo tende e aspira perché giocoforza insoddisfatto del mondo oggettivo, senza tuttavia potervi mai accedere, pena proprio la perdita del suo essere uomo. I personaggi di Mattioni appartengono al vortice rarefatto ma allo stesso tempo tangibile del quotidiano da cui scaturisce il malessere, non nel senso di male di vivere ma di urgenza di una catarsi che deborda la realtà. Siamo nel solco della tradizione letteraria triestina alimentata da tutte quelle culture incrociate che per anni hanno fatto di questa città uno dei poli culturali europei più vivi. Le storie di Mattioni sono un cammino dal particolare all’universale, somigliano alla realtà – e al suo dolore – ma nello stesso tempo moltiplicano e deformano l’immagine che vogliono rappresentare, mettono un libro nel vissuto di ciascuno. Il richiamo di Alma è forse il suo romanzo più vero, più sentito, più palpitante, più vicino alla vita. «Alla fine il lettore scopre di avere letto una favola ma al tempo stesso sente che questa favola è la storia di ogni destino umano» scrive infatti il recensore Michele Prisco.

    La quotidianità di uno studente qualunque viene sconvolta da un’apparizione: in un tramonto estivo in cui l’azzurro del cielo trascolora, contemplato dal parapetto di un giardino sospeso sull’altura di Montuzza, una figura di donna circonfusa di luce in una fluttuante tunica bianca cambierà per sempre il senso dell’esistenza del protagonista perché gli farà intuire il senso della vita. L’irruzione dell’imprevisto è distinto con certezza: «A un tratto, non saprei dire in che modo, avvertii una presenza estranea che non riguardava il resto circostante, riguardava unicamente me. Alzai gli occhi, e il cielo era arancione». L’invasione del fantastico è sottolineata dall’aggettivo estraneo e dal colore inusuale del cielo, oltre che dallo stupore del protagonista. Ritrovare quella figura evanescente diventerà per lui un’ossessione, con inseguimenti tra le luci e le ombre della Trieste più segreta e nascosta, la città vecchia, su cui aleggia un’atmosfera leggendaria e tragica. Via dei Colombi che evoca tra le sue strette mura la leggenda cui è legata; via della Bora dove la strega del Carso dà sfogo al suo estro con i refoli di bora, o più su, verso la cattedrale di San Giusto, la piazzetta di San Cipriano, testimone secolare delle preghiere delle suore benedettine e salita della cattedrale dove si spargeva il profumo della lavanda nella Trieste rinascimentale. Fino alla sommità del colle, dove si compì l’ultimo atto della tragica storia d’amore di Francesco Cappello e Marinella. Scenari magici sulle tracce di Alma – anima – che rappresenta anche l’amore per la vita; Se ti ami, amami sarà infatti la sua epigrafe.

    Alma è sfuggente, non è mai la stessa, nelle sue numerose apparizioni muta età, tratti somatici, abiti, atteggiamenti, diventando così imprevedibile e facendo nascere nel giovane che la insegue stati d’animo contrastanti che sfociano in colloqui immaginari e sogni. Alma angelo, Alma bambina, Alma donna sofisticata con fiocco e coda di cavallo, diversa eppure sempre riconoscibile. Creatura fantastica ed effimera che vive in una dimensione rarefatta, entrando solo a tratti in contatto con la realtà. Infatti il protagonista a un certo punto si chiede: «Ma fino a che punto era stato un sogno, o realtà?» e ancora «Chi era? Perché era entrata, senza veramente entrare, nella mia vita?». L’incertezza diventa tanto maggiore quanto più si stringe il cerchio e quanto più il protagonista s’illude di poterla avvicinare e conoscere. Il fulcro del romanzo è proprio lo studente – voce narrante perché è lui che sente i messaggi che lei gli invia, è lui che continua a cercarla e inseguirla traendone di volta in volta motivo di felicità, di esaltazione, di commozione e di amore. Perché la storia di Alma è soprattutto la storia della ricerca del proprio sé profondo. Ci suggerisce che il senso e il mistero della vita non si esauriscono in ciò che ricade sotto i nostri cinque sensi ma occorre abbandonarsi. Alma è una figura noumenica, trascendente, irraggiungibile, inconoscibile. Sia che la si voglia interpretare come un’epifania religiosa dovuta a un’esigenza spirituale, sia che si tratti dell’istanza di dare una risposta – impossibile – all’indecifrabile che tormenta da sempre l’umanità nel tentativo di svelare il mistero dell’esistenza; sia che si tratti della rievocazione, tra ricordo e sogno, di un amore giovanile ideale. Il mistero rimane sempre mistero. E il tentativo di svelarlo, come l’inseguimento di Alma, si conclude con un fallimento. «Che significato possono avere le metamorfosi di Alma? A cosa può alludere un simbolo così multiforme? Probabilmente alla vita stessa» scrive Carlo Sgorlon nel 1980. È una storia che nasce dal disagio esistenziale, dall’anelito a una libertà irraggiungibile, dal bisogno di trovare un altrove più soddisfacente. Alma è sirena e ancora di salvezza, è illusione e delusione che sono due facce della stessa medaglia, è metafora della condizione umana che conviene non perdere mai di vista, pur senza precludersi la speranza. Ci fa balenare che la vita vera non è questa che conosciamo ma quella che è al di fuori di noi e che qualche volta, raramente, crediamo di sognare. E si sa che coloro che non sanno concepire un’altra vita non possono che considerare matto chi riesce solo a immaginarla. «Il girovagare, l’affannoso inseguimento in cui il protagonista sembra cercare sé stesso, a prescindere dal significato che gli si voglia attribuire, conduce a un mondo che va oltre la realtà. Varcare tale soglia è concesso solo di tanto in tanto al testimone di questa vicenda parallela che essendo consapevole della ricchezza di questo mondo altro, si prende anche il rischio di esporsi e di non essere creduto» scrive Marianna Deganutti nel saggio per l’Università di Oxford La donna inafferrabile. Tracce di Andric e Svevo in Stelio Mattioni.

    Per quanto riguarda l’ambientazione del romanzo, l’autore contrappone un paesaggio reale e particolareggiato alle apparizioni di Alma per dare credibilità alla storia. Trieste è lo sfondo costante dei suoi romanzi. A volte allusa ma perfettamente riconoscibile, a volte, come in questo caso, minuziosamente descritta. La Trieste di Mattioni è una città interiore, un labirinto di viuzze e edifici in cui ci si perde e che, nell’assenza di vie di uscita, sembra rappresentare la condizione umana. Del resto, in una lettera al direttore di una rivista che gli aveva chiesto un testo su Trieste, Mattioni scriveva che Trieste «è una città che non esiste perché non è una città ma è un moto dell’anima, un suggerimento, un punto esclamativo, un continuo sbattere di qua e di là (a Trieste c’è la bora) per cogliere uno scorcio, un lembo in uno specchio, l’approdo mai raggiungibile di una domanda nata dal bisogno, irraggiungibile perché la soddisfazione sta nell’indeterminato».

    E ancora: «Alma sarebbe la città, e non ti dico altro, basta il nome che le ho dato, il resto dovresti leggerlo». Alma è la vita o Trieste? Forse Mattioni voleva dire che la vita è come Trieste, inafferrabile, un’illusione. Sogno o realtà? Poco importa, inutile avere la pretesa che la vita non ci ha dato quello che meritavamo, la vita è.

    Chiara Mattioni

    Stelio Mattioni

    Il richiamo di Alma

    A Chiara

    I

    Scrivo questa storia dopo aver compreso che non esiste alcun motivo per conservarla segreta nella memoria. Non ho mai tenuto un diario. Se mi accingo a raccontare le vicende abbastanza straordinarie di un breve periodo della mia vita, non è per far risaltare la mia persona ma, al contrario, perché credo che un’esperienza del genere possa essere per altri molto più illuminante di quello che è stata per me.

    Dovrei spiegarvi chi sono, ma in verità non c’è molto da dire: sono uno qualsiasi, con la sua brava carriera impiegatizia alle spalle, e che forse, con una laurea in tasca, avrebbe dovuto cercare di realizzarsi meglio, in un’attività meno anonima, ma così non è stato e in fondo questo non ha importanza. Pretendere di non aver avuto dalla vita quello che ci meritavamo è un nonsenso: la vita è, e noi vi partecipiamo senza poterle chiedere nulla, perché ben poco abbiamo da darle.

    L’inizio della mia storia risale a parecchio tempo fa, quand’ero ancora studente universitario. Lo studio non mi occupava molto. Sono il più piccolo di tre fratelli. Carlo, il maggiore, fa l’avvocato qui e Nerina, mia sorella, abita a Roma, moglie di un uomo di colore, sempre ubriaco, che lavora in non so quale istituto di ricerche di fisica nucleare. Mio padre è dirigente d’azienda e mia madre, ora come allora, è occupata in mille faccende estranee alla famiglia, così da non aver assolutamente tempo né per noi né per la casa.

    In quegli anni andavo a mangiare da zia Francesca, che viveva sola. Sapevo che era sposata, ma che di suo marito era meglio non chiederle neanche se era vivo o morto, perché doveva essere stato un uomo che con lei si era comportato molto male. Zia Francesca viveva di rendita, di qualcosa di suo, ma sostanzialmente era povera, di una povertà che lei non faceva nulla per attenuare, mentre noi eravamo ricchi e, tranne me, di quei ricchi che cercano continuamente di aumentare le loro entrate. Mio padre, oltre che dirigente d’azienda, era membro di vari consigli di amministrazione, non trascurava ente o società in cui, entrando, si potessero avere dei gettoni di presenza, e inoltre esercitava un’attività commerciale sotto altro nome, che gli rendeva bene perché svolta nel giro delle società e degli enti di cui per diverse ragioni faceva parte. Di mia madre, per quanto riguarda questo aspetto, non so di preciso, ma suppongo che non facesse niente per niente, dato che nemmeno con noi riusciva a essere disinteressata almeno quel tanto che avrebbe dovuto per salvare le apparenze. Di mio fratello, infine, sarebbe meglio non parlare. Come avvocato, di una causa da poco cercava di creare ogni volta un caso nazionale, convinto, credo seriamente, che compito di un buon professionista, in qualsiasi campo, sia quello di esaltare la propria professione, piegando la natura umana a essa, piuttosto che viceversa. Sono certo che per lui la verità coincide con l’opinione personale, quando questa si è affermata su quella degli altri, e che la giustizia è un fatto di pura prevalenza.

    Zia Francesca abitava sola, in un appartamentino al primo piano di una casa di via del Monte. Era un appartamentino nel vero senso della parola, di pochissime stanze e anche queste

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