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Gli Uomini. L'abisso di un mistero
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E-book517 pagine8 ore

Gli Uomini. L'abisso di un mistero

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Info su questo ebook

il romanzo affronta il tema del rapporto uom- donna con una descrizione dettagliata del carattere di alcuni uomini costruita sull'esempio di molteplici esperienze di donne diverse, condensate in una unica storia di una donna comune.
LinguaItaliano
Data di uscita3 dic 2020
ISBN9791220305914
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    Anteprima del libro

    Gli Uomini. L'abisso di un mistero - Ester Eroli

    633/1941.

    CAPITOLO PRIMO: L’INGENUITA’

    Il cordone ombelicale era stato reciso ma c’era qualcosa che ancora mi univa a mia madre. Era una sensazione strana, ma sapevo, intuivo che lei era parte di me, era con me, era dalla mia parte. Con lei ci sarebbe stata complicità, condivisione. Con lei c’erano delle affinità, dei punti di contatto. Ero convinta che con lei avrei stabilito un rapporto duraturo. Sentivo nell’aria un sentore di mistero. La maternità era un mistero ed io piccola nella culla di tulle sperimentavo gli aspetti salienti di quel mistero. Ignoravo i sacrifici, le rinunce, le lotte che c’erano dietro quel fenomeno. Ero nata e mi bastavano le attenzioni dei nonni, degli zii. Subito dovevo comprendere che si nasce in un certa famiglia per puro caso. Non ero stata io a scegliermi il contesto familiare. Io dovevo solo prendere atto di quella nascita e accettare passiva la situazione attuale. Il cognome stesso di mio padre era un marchio indelebile, come il nome di battesimo. Mi sentivo avvolta nell’irrealtà, fluttuavo in una dimensione nuova. Mia madre era una donna femminile, incredibilmente bella, con un viso fresco, fuori dal tempo. Lo sguardo era stranamente limpido e sapiente. Lei era piena di volontà, mi trattava con ogni riguardo. Esercitava su di me un enorme fascino. In avvenire non avrei avuto paura accanto a lei. Mio padre mi era sembrato subito un uomo severo, serio quasi burbero, più grande di mia madre di età, con i capelli brizzolati e lo sguardo duro. Le sue parole erano legge, le sue risposte ferme. Ogni tanto rimproverava mia madre di comprare troppi vestitini per me e la criticava per ogni sua eccessiva manifestazione di affetto nei miei riguardi. Lui era del parere che i bambini non andavano presi in braccio quando piangevano per non viziarli, era del parere di non sprecare soldi per corredini e vestiti del battesimo. Avevo subito giudicato mio padre dal suo tono di voce. Mi arrivavano sovente le sue sfuriate, il suo tono di voce alto, minaccioso, di rimprovero. Durante la gravidanza mi madre era stata sovente malmenata da lui, sospinta. Spesso era caduta in terra. Era stata battuta e sul volto portava i segni di quelle percosse, e sulle braccia c’erano i lividi. Mia madre si era dovuta subito scontrare con la sua famiglia, chiusa e ostile, impenetrabile. Era una famiglia superba, amante del suo buon nome, conosciuta per la sua altezzosità. Tutti i membri di quella 30eletti. Le prime impressioni su mio padre furono quelle di un uomo retto ma troppo rigido. A tavola imponeva il silenzio, su tutte le questioni imponeva le sue decisioni. Era alto e possente e incuteva timore. Nei primi tempi era quasi invisibile. Non aiutava mia madre minimante e passava il tempo al bar con gli amici o in moto. Era un uomo senza religione, di sani principi morali, ma miscredente. Voleva imporre la sua decisione di non farmi battezzare. La religione per lui era una fandonia, una invenzione. Nessuno era obbligato a battezzare i propri figli. Non credeva nei santi, al demonio, alla verginità di Maria. Il suo ateismo si manifestava con discorsi contro la chiesa e la morale cattolica. Erano discorsi veementi, passionali, aggressivi. Le prime liti in famiglia avvennero proprio per il mio corredino, che per lui doveva essere sobrio, semplice ridotto all’essenziale e per il mio battesimo. I vestiti che mi venivano regalati gli sembravano inutili e superflui. Per il battesimo la nonna mi aveva regalato un vestitino in pizzo e tulle bianco un po’ lungo rifinito di raso. Aveva anche una graziosa cuffietta con ricami e brillantini. I miei genitori non si erano sposati in chiesa perché lui era fermamente contrario. L’atteggiamento di mio padre arrogante, presuntuoso, maligno si accordava perfettamente con il suo mondo interiore. Un mondo concreto libero da pregiudizi, da fedi . Il vestito del battesimo venne regalato in chiesa perché mio padre si opponeva al suo utilizzo come si opponeva al rito. Il suo viso tirato esprimeva perfettamente la sua disapprovazione. Compresi subito che era difficile venire al mondo, era difficile farsi accettare. Mio padre avrebbe voluto un maschio, un ragazzino vispo che perpetuasse la sua stirpe. Io invece ero una femmina, persino poco vivace. Passavo tutto il tempo a dormire, come se avessi già capito che solo nel sonno si poteva trovare ristoro ai dispiaceri della vita. Dormivo persino all’ora del pasto, mi addormentavo innocente sul seno di mia madre. Rispondevo alle asprezze del mondo, alle sue spigolosità con un sonoro sbadiglio. Dormendo dimenticavo la crudezza delle parole di mio padre, che non capivo ma sentivo che ferivano, la superficialità dei parenti, le loro rivalità, l’indifferenza dei vicini, la superiorità manifesta del potere, la altezzosità delle donne, la rabbia dei poveri, la tracotanza dei ricchi. Il sonno aveva il suo fascino malvagio. Nel sonno sognavo laghi di pura luce, baci ardenti, fiori colorati che mi consolavano, in lui il mio spirito volava , si librava nell’aria, inseguiva la fantasia. Nel sogno nessuno poteva trattenere la mia anima. Nel sogno ero libera, lieta non addolorata. Era perché ero una femmina che mio padre non mi guardava estasiato, non mi sorrideva mai, non approvava il mio essere . A tre anni un giorno di primavera avrei voluto andare con lui a una riunione di amici ma lui non mi volle portare, disse che se ero un maschio l’avrebbe fatto. Io invece mi sentivo carne della sua carne anche se imprigionata in un corpo di femmina. L’unico sorriso sincero era quello di mia madre. Lei non faceva per fortuna distinzioni di sesso. Fui battezzata di nascosto senza una festa solenne in un tardo pomeriggio cupo di pioggia. Madrina di eccezione era mia nonna. Non c’erano invitati, confetti, musica e allegria. Mio padre non si fidava della fede, dava poco valore alla religione. Con me aveva un atteggiamento da padrone, come se io fossi di sua proprietà. Intuivo già il carattere degli uomini, possessivo, austero, prepotente. Le discussioni in famiglia erano sempre più frequenti. Mia madre sopportava rassegnata, accettava il suo destino senza batter ciglio. Intanto il suo sguardo era sempre più smarrito e vacuo. Mio padre nel frattempo, quando la situazione in casa si faceva incandescente, usciva e raggiungeva gli amici. Nel suo lavoro di impiegato di stato aveva conosciuto una ragazza giovane che lo lusingava con la sua premura. La sua collega era una giovane donna provocante, con gli occhi di fuoco e le gambe snelle. Era nata una amicizia, un sodalizio lavorativo che presto si sarebbe trasformato in qualcosa di più. Lo spirito libertino di mio padre lo spingeva a corteggiare altre donne anche in presenza di mia madre. Faceva il galante come niente fosse, incurante dei presenti. Per le vie inseguiva con lo sguardo morboso le ragazze più procaci. Mia madre si sentiva umiliata e mortificata. Ogni volta piangeva di nascosto ed io la sorprendevo con il volto rigato di lacrime. Mia madre aveva perso il gusto della vita, io avevo perso la mia infanzia. Mio padre le proibiva di salutare i vicini di casa, di andare sola con i mezzi pubblici, di telefonare senza di lui, di vestire con abiti scollati, di portare lo smalto, le scarpe con il tacco. Intuivo la tirannia che c’era dietro quelle proibizioni. Ogni giorno sotto i miei occhi increduli avvenivano scontri e scaramucce. Mia madre aveva sentito il profumo dell’altra donna e ogni volta minacciava la separazione. Lui negava la relazione, negava l’evidenza. Sul suo cappotto c’erano tracce di lunghi capelli biondi, di rossetto color fuxia. Un giorno aveva notato una macchia di rossetto fuxia sulla sua candida camicia bianca. Quel tradimento esibito apertamente mi dava il disgusto. Era un comportamento sfacciato, balordo, insensato. Avevo vomitato nel bagno piangendo a singhiozzi. Avevo appena cinque anni e già avevo assaporato il senso di umiliazione che solo un uomo vero ti può imprimere nella carne. Era quello un comportamento scorretto, maleducato. Le amanti potevano benissimo essere nascoste, non esibite palesemente. Quando mi veniva a prendere all’asilo, ma le sue apparizioni erano rare, lo sorprendevo all’uscita sempre a chiacchierare sorridente con una giovane donna, madre o maestra. Con loro aveva una voce di miele diversa da quella aspra che usava in casa. Era un tono di voce diverso, un timbro completamente nuovo per le mie orecchie abituate ai rimbrotti. Una voce suadente, sensuale forse la stessa che aveva usato al principio per sedurre mia madre. Con le donne ci sapeva fare, si lasciava andare a conversazioni piccanti, a osservazioni attente. Parlava con calma, effondeva sicurezza. Si può dire che emanava calma. Era rassicurante. Le donne cadevano come mosche, sentendo il fascino della sua persona. Era un affabulatore nato, un gatto sornione, un uomo invadente. Nessuna donna lo respingeva, anzi veniva lentamente sopraffatta dal suo fascino strano. Ogni donna carina, piacente si adattava alla perfezione al suo corteggiamento serrato. Ogni donna era una possibile terra di conquista, una preda. Davanti a ogni donna, amica di mia madre alzava le antenne e si tuffava in una conversazione sciolta. Mia madre ogni volta subiva delle umiliazioni, era perfidamente sconfitta. Con ogni donna esercitava il suo sex appeal. Stringeva le mani con simpatia, sorrideva con occhi luminosi, sfiorava il corpo con mani fatate. Il contatto con le donne lo rendeva allegro. La conquista di una donna era la sua meta. Si metteva sulle tracce di certe donne come un cercatore d’oro. Mia madre guardava le sue rivali, spesso altezzose e fanatiche, con un senso di invidia. Aveva nostalgia del periodo del fidanzamento quando lui era affettuoso e l’amore sembrava infinito. A quel tempo lui la proteggeva, le sussurrava dolci parole. Rammentava i suoi regali, i suoi fiori. Ora l’amore era diventato un miraggio, era diventato vulnerabile. Il comportamento di mio padre era divenuto subdolo e maldestro. Non si poteva tradurre a parole quello che provava mia madre. Lei intanto non aveva nessuna libertà, a lei era richiesta massima fedeltà e rispetto. Lui poteva tutto, criticare, guardare altre donne, offendere a lei era dato solo di obbedire. Io ero un anima innocente e certe cose non le capivo. Pensavo che per me ci fossero future possibilità. Il mio futuro non doveva essere necessariamente come quello di mia madre. Mia madre portava impresse sul volto i segni dell’insoddisfazione. Non poteva truccarsi, usare il rossetto ma lui le donne con il rossetto rosso le guardava. Solo per mia madre c’era la reclusione, il ripudio, l’insulto. Lui spesso criticava le sue unghie, i suoi capelli troppo lunghi, le sue gonne lunghe. Se mia madre però indossava una minigonna andava su tutte le furie. C’era una contraddizione evidente, da un lato gli piacevano le donne curate dall’altro impediva alla sua donna di essere tale. Era una politica di repressione, soffocamento che sarebbe continuata con me. Nonostante la separazione lui avrebbe continuato a infliggermi le sue regole, ad affliggermi con la sua persecuzione. Gli stessi miei viaggi di studio erano predisposti da mio padre. A cinque anni ero già stata iniziata ai segreti del cuore dell’uomo. Gli uomini mi apparivano già egoisti. Mi sforzavo di stare calma ma dentro ribollivo di rabbia repressa. Imparai presto ad essere accorta e saggia. Le sofferenze mi avevano resa matura prima del tempo. Avevo imparato, davanti alle sfuriate violente di mio padre, in cui venivano distrutti anche oggetti, a stare in silenzio, immobile, con gli occhi vitrei, ad apparire quasi idiota. Il mio viso non faceva trapelare sentimenti, disappunto, odio o rancore. Davanti alla mia indifferenza si acquietava. Infatti ogni volta che mia madre aveva reagito era stata malmenata, presa per il collo, soffocata con una mano, costretta ad andare in giro con i lividi. Lui voleva sempre vincere, avere la meglio o con le buone o con le cattive. Voleva assaporare il gusto del successo. Chi pensava diversamente da lui, chi si opponeva alle sue scelte veniva penalizzato, bloccato, insultato, deriso, preso a schiaffi. Non capiva che il successo assoluto non esiste, non lo si può ottenere sempre. La vita è fatta anche e soprattutto di compromessi. Per lui non c’erano mezze misure, compromessi di nessun genere. Non veniva incontro in altre parole alle esigenze degli altri, che non venivano mai prese in considerazione. Se qualcuno opponeva resistenza veniva afferrato per un braccio, strattonato. Era capace di balzare sulla gente come una iena si tuffa affamata sulla preda. Per lui esistevano solo i suoi traguardi, raggiunti anche passando sul cadavere dei propri figli. Se si metteva in testa di andare a piedi in America lui vi andava senza pensare ai disagi immensi che procurava alla sua famiglia. La moglie era una specie di donna delle pulizie, tuttofare, che doveva solo ubbidire, un pacco postale da spedire in giro a proprio piacimento. Ogni volta coglieva l’occasione per ribadire il suo ruolo di capofamiglia, di assoluto padrone della esistenza degli altri componenti, che erano burattini nelle sue mani. Lentamente avevo imparato a tacere, a non lottare, a non fare troppe domande. Se per varie ragioni, ad esempio una mia improvvisa febbre, non poteva realizzare i suoi progetti, come ad empio raggiungere la sua tenuta, diventava scorbutico, intrattabile, aggressivo. Ricordo che durante le mie prime malattie mia madre doveva chiamare una vicina per farsi aiutare e lasciarmi con lei quando lei usciva per delle compere. Lui anche se era libero dal lavoro passava il tempo al bar con gli amici e qualche volta rincasava persino a notte fonda alticcio e ribelle. Le sue assenze erano frequenti, assidue, costanti. C’era sempre una sedia vuota, un buco nel mio cuore desideroso di affetto e comprensione. Un vuoto che mi strappava l’anima, che mi generava un languore malinconico. Un vuoto ghiacciato, gelido, assordante. L’ultimo dell’anno era sempre impegnato con il lavoro e non si poteva mai prenotare in un locale, invitare degli amici. Io passavo il 31 dicembre in casa, accanto all’albero di Natale acceso, o sulle ginocchia di mia nonna che mi consolava raccontandomi delle favole. Non sopportavo la favola della piccola fiammiferaia, perché la sua solitudine estrema, il freddo che sentiva mi ricordavano il mio stato d’animo, il gelo del mio cuore. Per il 31 dicembre io sognavo feste luminose, musica da ballo, confusione e regali, coriandoli e dolci. Nel tempo poi avrei imparato il carattere dispettoso degli uomini, capaci di rovinarti tutte le feste, tutti i doni più belli della vita . Per dispetto un uomo era capace di ostacolare il tuo cammino, i tuoi progetti, per rabbia, odio, rancore era capace di impedire ogni tua azione, ogni tuo svago anche il più innocente. Così mio padre avrebbe ostacolato indirettamente, con delle scuse, le mie uscite con gli amici, le mie gite fuori porta. Poi sarebbe stato assente anche alla prima festa di san Silvestro organizzata con il primo ragazzo e persino alla mia festa di laurea. Assenze che si ripetevano ossessive, maniacali. Mio padre era assente quando dovevo fare una visita medica, un concorso, quando doveva accompagnarmi a una festa in maschera ma era sempre presente quando mi compravo di nascosto degli stivali di moda o un abito da sera. Allora mi sorprendeva mentre misuravo l’abito davanti allo specchio esprimendo apertamente contrarietà e disprezzo. Mi coglieva mentre mi mettevo il rossetto rosso inducendomi a levarlo dal viso. Mi beccava al telefono, con il diario in mano. Mi strappava il diario dalle mani e se lo andava a leggere nel suo studio lasciandomi nel corridoio a piangere di sdegno e di rabbia. Mi beccava mentre dicevo bugie al telefono. Poi era capace di fare allusioni in pubblico sul contenuto del mio diario. Mi avvelenava le feste di Pasqua e di Natale litigando continuamente per delle stupidaggini. Intanto io passavo i giorni di festa con gli occhi tristi e le palpitazioni nel petto. Mi alzavo con la bocca amara , lo sguardo vuoto, il volto teso. I festeggiamenti degli altri mi sembravano ridicoli, assurdi. Litigava con i parenti, con mio nonno persino il giorno di Natale a tavola Litigava alzando la voce, infierendo sui presenti con parole taglienti. Litigava per idiozie, minuzie, cose insignificanti perché mia madre aveva un abito scollato ed io i pantaloni troppo stretti, perché mio zio era arrivato tardi o portava una camicia troppo trasparente. Accusava mia nonna, si rivolgeva in malo modo agli zii. Ogni volta che arrivavano le feste mi sentivo in trappola. Lui trovava sempre il modo di comportarsi come una belva feroce assetata di sangue. Ogni volta che arrivavano le feste mi irrigidivo. L’avvicinarsi delle feste per me non era fonte di gioia. Per il mio primo carnevale verso i tre anni mia madre mi aveva cucito per risparmiare, visto che lui non intendeva darle dei soldi, e mia madre non lavorava, un grazioso abito di pierrot bianco e nero. I soldi erano stati concessi gentilmente da mia nonna. Ogni cosa che mi serviva veniva comprata dai nonni. Lui non voleva spendere un becco di un quattrino per la mia formazione, per il mio divertimento. Così i miei nonni compravano la bicicletta, l’orologio d’oro, il registratore, lo stereo, i dischi, l’abito della comunione, i costumi del mare. Tutti gli abiti che ho posseduto per carnevale, pochi per volontà espressa di mio padre, erano stati comprati dai nonni. Durante il carnevale non mi portava mai nelle feste private, nei raduni di piazza delle maschere tradizionali. Riteneva il carnevale una festa stupida e per questo non usciva mai con me mascherata. Si vergognava di accompagnarmi, di mostrarsi in pubblico. Si sentiva ridicolo e fuori posto, e quindi evitava con mio grande dolore. La gioia mi si spegneva sul volto, il sorriso moriva sulla labbra aride per la rabbia e il disappunto. Per risparmiare, dato che il concetto di risparmio mi veniva istillato da mio padre ogni giorno, compravo pochi coriandoli e stelle filanti, che mi limitavo a lanciare salvo poi scoprire un giorno che si erano bagnati di pioggia nella borsa ed erano inutilizzabili. Nessuno mi insegnava a godere del momento senza pensare al futuro. Il carpe diem non era un’idea presente nella mente di mio padre. Per lui tutto doveva essere pianificato, organizzato, predisposto. Si doveva accumulare doti, tesori, valori per spenderli in un secondo momento, al momento giusto. Intanto il tempo giusto non arrivava mai. Io sprecavo il tempo a inseguire miraggi, sogni mirabili di difficile realizzazione. Lui mirava sempre a una meta precisa, e per raggiungere si impegnava con immani sacrifici. io dovevo essere come lui e se possibile, fare meglio. Da me si pretendeva il massimo. Serietà, obbedienza, abnegazione, rinuncia. Dovevo andare bene a scuola, parlare solo con i bambini educati, distinguermi piacevolmente nei giochi d’infanzia e di gruppo. Io dovevo essere perfetta, tanto più che non ero un maschio. Per lui i maschi potevano tutto. Andare dove volevano, fare tardi la sera, avere ogni tipo di relazione. Per me il futuro era segnato. Dovevo essere solo moglie e madre esemplare. Dovevo evitare la leggerezza, la bigotteria, la civetteria. Non potevo e dovevo essere vanitosa. La mia vanità tipicamente femminile era stata oppressa, soffocata, recisa. Così mi lasciavano andare, mi trascuravo. Portavo sempre capelli molto corti, scarpe basse, tute da ginnastica. Certe volte pensavo a me come una persona non come una donna.

    A quattro anni era già una bimbetta solida, saggia. Riflettevo, meditavano tutto nella mia interiorità. Avevo una sensibilità estrema, raffinata che mio padre urtava sempre immancabilmente. A quell’epoca mio padre si era operato di una ciste. Ogni volta che lo andavo a trovare alla clinica e lo abbracciavo lui mi respingeva con distacco, mi umiliava, mortificava i miei gesti di effusione. In pubblico mi era proibito manifestare sentimenti. La mia innata timidezza con quella repressione si ingigantiva, diventava un macigno, un peso sul cuore. Tutta l’infanzia a controllare gesti, movimenti, parole, frasi. Dovevo stare attento con chi giocavo, cosa dicevo, dove andavo. Con i parenti soprattutto dovevo essere impeccabile, compunta. Dovevo vestire elegante mai casual. Gli abiti dovevano essere composti, sobri. Non ammetteva minigonne, pantaloncini corti, jeans, tute. Vestivo sempre con abitini a pois, scuri, in tinta unita. Non si ammettevano fiocchi, nastri, bottoni lucidi disegni, trine. Per lui i vestiti con pizzi e merletti li portano le donne dei postriboli, quelle di malaffare. Sin da piccola sperimentai gli schiaffi violenti di mio padre che mi lasciavano per ore lunghi segni rossi sulla pelle. Una volta che avevo reagito a una canzonatura da parte di un ragazzino per strada, credendo che lui non mi vedesse, ma mi stava scrutando dal balcone, fui presa a calci per strada davanti alla gente, ai passanti che mi guardavano meravigliati. Era sceso in strada per darmi una lezione davanti alla gente in modo che mi imprimessi nella mente la mia maleducazione. Mi faceva sentire in colpa, piena di difetti. Verso i cinque anni cominciai a disegnare con colori e pastelli. Ero portata per il disegno, era la mia vocazione. Vocazione che andava stroncata sul nascere. Io potevo diventare un medico, un avvocato ma mai una disegnatrice, una pittrice. Gli artisti erano tutti pazzi da legare, inaffidabili, e fannulloni. Io in quanto sua figlia non potevo permettersi il lusso di essere un’artista. Avrei contribuito pesantemente a screditarlo agli occhi della gente. L’opinione della massa era tenuta in seria considerazione. Lui parlava sempre di stima, di rispettabilità, di onestà. Intanto lui aveva per amante una sua segretaria e lo sapevano tutti. Allora la verità, la giustizia, l’onestà erano solo parole vuote di senso o valide solo per me. Per lui in quanto uomo, tutto era possibile. Poteva rientrare a tarda notte, frequentare locali, girarsi al passaggio di una donna bella, sorridere alle passanti, importunare le signore, telefonare dove voleva, vestirsi con abiti alla moda. Per lui c’erano soldi per abiti costosi, firmati, cravatte di seta pura, per mia madre c’era sempre un brontolio continuo. Mia madre a un certo punto aveva smesso di chiedere soldi per il guardaroba. Si faceva regalare la stoffa dalla nonna e si cuciva gli abiti su misura da sola. Cuciva anche per me abitini in lino, cotone, lana, seta che lui criticava apertamente ,diceva che erano ridicoli, fuori moda. Per andare a certi matrimoni mia madre spesso per non sentirlo finiva per indossare abiti del passato. Io spesso rimanevo a casa perché in alcune cerimonie la mia presenza non era necessaria e si potevano risparmiare i soldi per i miei abiti, per i miei accessori e scarpe. Anche l’acquisto degli abiti per mio padre doveva essere programmato, niente era lasciato al caso. Ogni mese faceva i suoi calcoli minuziosi. Era lui che stabiliva la priorità delle spese familiari. Per comprarmi alcuni giocattoli ero costretta ad aspettare e a sperare che qualcuno me li regalasse. Una volta un negozio di giocattoli fece una svendita in prossimità della chiusura definitiva ed io ne approfittai sapendo che mai si sarebbe capitata una occasione simile. Poi passai gli anni sperando nella chiusura anticipata di altri negozi. La notte sognavo la cessazione della attività per qualsiasi motivo e gli sconti per i clienti. Lui controllava come un supervisore a cui nulla sfugge. Il suo sguardo da sparviero era dappertutto, spiava, annusava, colpiva. Non le sfuggiva nulla, riusciva a leggere persino nei miei pensieri. Mentalmente anche mi sentivo in sua balia. Compilava lunghe liste di acquisti da fare dove comparivano sempre costose e inutili piante per il suo giardino nella tenuta di famiglia che lui si vantava di aver contribuito a risorgere. Era prepotente nelle sue scelte. Lui decideva per tutti. Se un giocattolo lo riteneva dannoso non lo comprava ed io ero costretta di nascosto a farmelo prestare. Il giorno che si sarebbe accorto dell’inganno mi avrebbe trucidata con lo sguardo stesso. Con i giocattoli prestati dovevo giocarci di nascosto e quando lui non era presente. Li nascondevo sotto il letto, negli armadi. Vivevo però nel timore di essere scoperta. Mi tremavano le mani, le ginocchia per la paura. Sin da piccola la paura era stata la mia compagna di viaggio. Temevo i suoi rimproveri, le sue frasi dense di sfumature di falsità. Non potevo comprare gelati, oggetti che lui riteneva non adatti. Mi vergognavo tremendamente a indossare cose che lui detestava e che poi mi faceva togliere di dosso. Non potevo portare gonnelline corte, pantaloni stretti, fiori tra i capelli. Dovevo vestire in modo classico, come si addice alle bimbe della mia età ossia con abiti con volan, fiocchi, nastri, lunghi, cuciti in modo perfetto. Abiti di velluto nero rifiniti in bianco, pantaloni di velluto blu, scamiciate ricamate, camicette di lino ricamate, colorate. Non potevo portare jeans, giubbini di jeans ritenuti volgari, popolari. I capelli dovevano essere lunghi, fluenti, i miei e quelli di mia madre,. Lei non poteva tingerli, ne poteva truccarsi in modo pesante. Mia madre portava solo un velo di cipria e un lucidalabbra. I rossetti rossi dal colore più cupo erano banditi, come pure lo smalto rosso, gli abiti rosso fuoco di raso, le calze nere ricamate, gli stivali lucidi. Mia madre andava in giro ridotta male, con abiti dal taglio classico, le unghie tagliate corte, i tacchi bassi. Era come se lui volesse annientare la femminilità, distruggere l’essenza stessa di una donna. Non voleva che io con certi accessori, con rossetti e profumi richiamassi l’attenzione degli uomini, dei ragazzi. In coerenza con le sue idee non ci avvertiva mai quando si doveva andare dagli zii o in altro posto per timore che andassimo dal parrucchiere a farci belle. Così andavamo in giro sempre sottotono mentre le donne libere si vestivano come volevano e ci snobbavano con la loro aria altezzosa di sfacciata superiorità, infatti molte donne curate e eleganti guardavano mia madre dall’alto in basso con aria compassionevole. Noi ai loro occhi eravamo delle derelitte. In certi ambienti di un certo tono sfiguravamo, sembravamo incapaci di gestirci, di colloquiare, di imporre la nostra personalità. Non era possibile nelle conversazioni parlare liberamente, lui, dopo a casa, era subito pronto a rinfacciare a mia madre di aver detto cose sconvenienti, di aver parlato a sproposito. Così mia madre restava muta, silenziosa, diceva sempre di non sapere nulla. Nella mia casa da subito furono banditi pettegolezzi, commenti, discorsi frivoli. I discorsi dovevano essere seri, concentrati, precisi. Non erano ammessi sgarri, divagazioni, risate. Si doveva essere seri, composti. Non erano ammesse smancerie, slanci d’affetto, abbracci, parole leggere giudicate fuori luogo. Io ero sempre ripresa quando ridevo, parlavo, mi divertivo. Il divertimento stesso doveva essere sobrio e contenuto. Non c’erano mai scoppi di risa, allegria, basi sulla guancia con trasporto. Da piccolissima mi prendeva poco in braccio e mi guardava torvo perché non ero un maschio, non mi portava con lui nei suoi vagabondaggi perché ero una stupida femminuccia senza spina dorsale. Il mio carattere riflessivo era giudicato triste e monotono. Per lui non avevo intelligenza sufficiente per imparare le cose più naturali di questo mondo. Non avrei mai portato la macchina, mai stirato bene i suoi pantaloni, mai cucinato un piatto tipico alla perfezione, mai cantato nel coro, non sarei mai salita su un cavallo e su un aereo. Intanto mi metteva paura ogni volta che affrontavo un rischio e un pericolo. Non mi faceva salire su giostre pericolose, camminare su strade impervie. Mi blindava, mi metteva sotto una campana di vetro e sperava che imparassi tutto ugualmente pur avendo pochi contatti con la realtà. Mi controllava gli amici che frequentavo, i diari che scrivevo. Non ero libera di esprimermi, fi giudicare. Da piccola ero una specie di marionetta nelle sue mani e come commettevo un errore mi rimproverava sgarbato. Dovevo seguire i suoi ordini e come mi ribellavo erano schiaffi e pugni, calci e liti, strilli e parole grosse. Mi spingeva ad essere cortese con tutti ma a non reagire davanti ai soprusi, alle ingiustizie. Mi ero abituata ad essere passiva e la gente furba se ne approfittava . Mi faceva una sorta di lavaggio del cervello affinchè fossi sempre paziente, arrendevole, disponibile. Dovevo essere poco loquace, laconica, tranquilla. Non dovevo disturbare, dovevo crescere come l’erba nella notte. La mia presenza nel mondo non era vitale, si poteva fare a meno di me. Non avrei mai combinato niente di interessante e di pregevole, per lo meno ai suoi occhi. Ero un essere insignificante, meschino. Quando sbagliavo somigliavo in tutto e per tutto a mia madre, quando facevo qualcosa di particolare allora ero carne della sua carne. Somigliavo a lui solo quando eccellevo in qualcosa. Negli altri casi ero una perfetta nullità. Mi diceva spesso che non ero bella che da grande non sarei stata una donna piacente. Ed io crescevo convinta di essere brutta e repellente. Non mi infondeva coraggio, sicurezza. Le mie insicurezze si ingigantivano, la mia paura di non farcela cresceva ogni giorno fino, in certi casi, a diventare realtà. Alla fine realmente facevo cilecca perché il mio approccio era sin dall’inizio spaurito e fragile. Non mi imponevo sulle cose, non affrontavo le questioni con slancio. Mi tiravo indietro timorosa, presa dall’ossessione di non farcela. Il mio pessimismo di fondo era alimentato dalle sue considerazioni sulla vita e su di me. A quattro anni ero una creaturina fragile e insicura, magrissima fino all’inverosimile, smunta, con il volto pallido, gli occhi cerchiati. Sentivo sempre mio padre brontolare, lo vedevo spiare me e mia madre in modo morboso. Mi sentivo come avvolta in bende strettissime, legata con una solida palla di ferro al piede. Ero stata iscritta all’asilo che voleva lui non a quello privato che voleva mia madre. Era un asilo comune, con un giardino mal curato, con le pareti grigie e opache come quelle di un ospedale. All’asilo cominciarono ad insultarmi per il mio aspetto magro ed io soffrivo terribilmente. Mio padre invece di intervenire e di confortarmi faceva finta di nulla, come pure la maestra. Anzi quando veniva a prendermi mi rimproverava se non avevo fatto dei disegni, dei lavoretti, e mi tartassava al punto che quando uscivo dall’asilo e vedevo che c’era lui a prendermi mi rannuvolavo e mi intristivo. Temevo i suoi rimproveri violenti, le sue parole offensive dette a voce alta in modo che sentissero tutti. I compagni mi guardavano con aria di compatimento. Alcuni godevano maligni della mia situazione. Le ragazzine perfide mi dicevano di aver visto mio padre in compagnia di una donna bionda. Sapevo che una delle sue segretarie era bionda ed era la sua amante. Spesso tornava a casa con tracce di rossetto e lunghi capelli biondi sull’impermeabile. Mia madre lo detestava ma tirava avanti per dare un padre a sua figlia. All’asilo poi cominciarono i dispetti, le mancanze di rispetto, i calci, gli spintoni e quando io mi lamentavo mio padre mi accusava di essere ridicola, non dava peso alle mie affermazioni, alle mie lamentele. Per lui dovevo sopportare. Lui pensava che io ero debole e che esageravo nel descrivere la situazione. Dovevo cavarmela da sola. Se da un lato mi teneva sotto una campana di vetro, impedendomi di frequentare gente del palazzo, e altre persone dall’altra non mi difendeva, mi lasciava allo sbando, in balia dei miei nemici. I bambini dell’asilo erano competitivi, antagonisti e mi maltrattavano per rabbia e per invidia. Erano invidiosi dei miei disegni. Infatti sin da piccola avevo mostrato di avere un talento artistico. Sapevo disegnare alla perfezione. Sotto la mia matita prendevano forma paesaggi innevati, tramonti infuocati, mari di luce. Ma mio padre non apprezzava la mia arte. Giudicava i miei disegni solo squallide riproduzioni, copiature, rifacimenti, idiozie, passatempi di una bambina viziata. E’ vero che all’inizio facevo dei lavori di copiatura per esercitarmi ma erano pur sempre esempi di una abilità notevole. Lui di solito non era orgoglioso dei miei lavori, li cestinava, li stracciava se li trovava per casa. Li bruciava nel camino con un atteggiamento spavaldo e sicuro, come se stesse facendo la cosa più normale del mondo. Molti miei disegni andavano perduti, si perdevano ed io mi trovavo nella totale impossibilità di recuperarli. Per sfuggire ai suoi rimproveri mi alzavo la notte di nascosto per disegnare ma poi la mattina crollavo da sonno e lui che lo notava, mi prendeva a sberle con rabbia. Mi prendeva a calci ogni volta che rubavo dei soldi per comprarmi i colori e gli acquarelli. Mi costringeva a restituire dei soldi che avevo da parte. Mia nonna mi dava ogni tanto una paghetta per i miei capricci, ma spesso non mi bastava. Non appena si era accorto del mio hobby aveva cominciato a mettere i bastoni fra le ruote. Disegnando ogni giorno si era accorto con orrore che ero mancina, come sua madre del resto. Essere mancini era come avere un marchio di infamia, un elemento di distinzione dagli altri negativo. Il fenomeno doveva essere bloccato, arginato sul nascere. Così quando mia madre si assentava per ore, per la spesa, per visitare i genitori malati, per una visita medica o per altre questioni, soprattutto la mattina, mi prendeva senza tante cerimonie e mi costringeva a lavorare con la destra, con la mano sinistra saldamente legata con lacci e spaghi stretti alla sedia. A ogni errore, inevitabile, visto che sentivo dolori forti al braccio destro, mi pizzicava la pelle, mi torceva la pelle delle gambe, mi stuzzicava e mi prendeva a sberle. Avevo sempre la pelle piena di segni rossi che mia madre attribuiva ingenuamente alle punture delle zanzare. Mi minacciava di non raccontare mai nulla a mia madre. Se avessi parlato avrei avuto altre botte e non mi conveniva. Così tacevo con gli occhi sbarrati, sgranati su una realtà che già non mi piaceva. Respiravo un’aria di sopruso che era pesante come quella carica dell’odore dell’esplosivo. Il mio sviluppo naturale era deviato, le mie inclinazioni più intime menomate. Non potevo più dipingere e disegnare davanti a lui, perché lui si irritava. La sera d’inverno disegnavo con la luce accesa e lui la spegneva imponendomi di risparmiare, di imparare ad essere parsimoniosa. Invece ero spendacciona e gaudente come mia madre e tutta la sua razza. Detestava il fratello di mia madre che aggrediva per ogni cosa, mio nonno che maltrattava persino il giorno di Natale davanti alla tavola imbandita. Ogni festa veniva guastata dalle sue liti furibonde. Litigava perché non era stato invitato suo fratello, perché avevo rotto distrattamente le luci dell’albero, perché mi trattenevo troppo al telefono con le compagne di asilo o di scuola. Spesso a Natale si assentava per lavoro, così ci faceva credere, e ci lasciava soli. Si assentava anche quando dovevo fare visite mediche importanti, gite scolastiche. Ogni anno il 31 dicembre non era presente per i festeggiamenti. Ed io lo trascorrevo in compagnia dei miei nonni e zii. Persino da grande quando ero fidanzata non era presente a san Silvestro, però mi aveva impedito di prenotare in un locale, visto che i soldi erano suoi ed io non disponevo di soldi miei. Dovevo imparare presto ad essere giudiziosa, a non sperperare. Così io avevo trascorso la notte più lunga dell’anno con il mio fidanzato di allora in casa con l’albero spento, dato che doveva fare economie. Era sempre mia madre quella che parlava con maestri e professori, che mi comprava i libri di scuola, che mi seguiva nei compiti, che mi consolava per un brutto voto. A lui non si doveva mai raccontare i miei insuccessi. Nel caso di brutti voti mi umiliava e non mi parlava per mesi. Allora io per evitare situazioni di tensione non raccontavo mai quello che mi accadeva a scuola. Se avevo un problema con un professore il torto era sempre mio e mi aggrediva con veemenza con parole taglienti, altamente offensive. Ed io mi sentivo in colpa. Al ritorno dall’asilo dopo scaramucce in cui avevo avuto la peggio, mi rincantucciavo nella mia cameretta tanto non avrei avuto il conforto di mio padre. Mia madre era troppo presa dalle faccende domestiche per badare a me. Ed io passavo lunghe ore a giocare da sola, dato che mio padre mi impediva di giocare in cortile o al parco pubblico. Raramente ricevevamo gente in casa o andavamo a fare visita agli amici. Lui era in rapporti stretti solo con i suoi parenti, che mi criticavano per il fatto di essere troppo chiusa e timida, ma non rimproveravano mai lui che mi impartiva una educazione troppo rigida. Anche per i suoi parenti lui era un padre modello, esemplare, io ero la figlia disubbidiente e cattiva. Una volta in casa di un suo collega avevo osato allungare le mani per prendere delle caramelle in un vassoio, senza che mi erano state offerte esplicitamente, ma mi erano state offerte all’inizio della giornata, e lui aveva reagito come un ossesso. Mi aveva urlato, accusato di essere maleducata. Per giorni non mi aveva più rivolto la parola. Da quel giorno imparai a rifiutare ogni cosa che mi veniva offerta. Mi potevano offrire un mondo d’oro ma io cautamente rifiutavo. Ero traumatizzata all’idea di accettare qualcosa. La mia mente mi diceva che era meglio rifiutare così non avrei avuto problemi di sorta. Era una cosa psicologica, una reazione naturale. Mi difendevo chiudendomi a riccio, rifiutando anche quello che mi spettava. Mettevo le mani avanti per non cadere all’indietro. Il mio cervello infantile associava le offerte gentili di biscotti, caramelle e cioccolatini al dolore delle percosse e dei rimproveri e quindi si bloccava, opponeva un rifiuto deciso. I suoi scatti d’ira non facevano che accrescere la mia timidezza. Mi tiravo sempre più indietro, incapace di farmi notare. Mi facevo piccola per passare meglio inosservata. La mia eccessiva magrezza era fonte di scherno e questo ostacolava lo sviluppo di un equilibrio naturale. Ero ossessionata dalla mia magrezza, da mio padre. Mi controllava le agende dove vi erano tracce dei disegni e poi non era presente il giorno della mia laurea. Un controllo che si estendeva alle minuzie. Apriva porte, cassetti, stanzini per avere una visione completa di tutto, per avere tutto sotto controllo. Per lui io ero disordinata, sbadata, svampita. Spesso erano i suoi rimproveri a impappinarmi. In sua presenza spesso balbettavo per il terrore. Se rubavo la cioccolata nella dispensa temevo le sue ritorsioni e di notte faceva sogni terribili simili a incubi. Sognavo di essere inseguita, battuta, messa in ridicolo. Il mio sogno ricorrente era sempre lo stesso. Per anni feci sempre lo stesso sogno. Sognavo di avere dei compiti da fare, di dover studiare molti libri e di non riuscire a finire tutto per il tempo stabilito. Mi svegliavo che non ero risuscita a finire nulla, con grande rammarico. Non mi sentivo all’altezza della situazione. Mi sentivo impotente, smarrita, senza qualità. Mio padre mi metteva in ridicolo spesso davanti agli altri, accusandomi apertamente di essere negligente. Mi sentivo impotente, fragile, meschina. Lui stesso sottolineava il fatto che fossi poco attraente. Allo specchio la mattina mi vedevo brutta. Con il tempo imparai a prendermi in giro da sola per sdrammatizzare. Con mio padre imparai presto tutta una serie di obblighi, di regole rigide. Dovevo sempre stare composta, non dovevo portare abiti corti, non dovevo usare la gomma da masticare, non dovevo mai fare domande, specie inopportune, non dovevo mai ridere in modo sguaiato, da grande non dovevo fumare, usare il turpiloquio, bere, portare abiti provocanti, tornare a casa tardi . Infatti ogni volta mi faceva togliere i vestiti trasparenti. Dovevo tornare indietro e cambiarmi in fretta d’abito. Spesso per sfuggire al suo controllo d’inverno indossavo cappotti e sciarpe pesanti per coprire l’abito elegante che indossavo a pelle. Lo salutavo con il cappotto già infilato per non farmi sorprendere e uscivo. Detestava i jeans, gli abiti scollati, i giubbini e pretendeva che io indossassi solo abiti eleganti fatti su misura. Non potevo seguire la moda delle minigonne, dei pantaloncini corti. Lui stesso al mare indossava pantaloni lunghi e mai slip o pantaloncini. Così piano piano lentamente mi abituai a portare camicie di seta con fiocco, gonne lunghe, pantaloni di lana morbida, cappotti con collo di pelo, impermeabili lucidi, pantaloni di seta. Non potevo truccarmi, mettere rossetti vistosi o intonati con gli abiti. I colori dovevano essere sobri, classici, quindi usavo il blu, il bianco, il marrone, ecc. per coprire la mia magrezza ricorrevo ad abiti larghi, ampi, a mantelle che lui apprezzava visto che non lasciavano scoperta neppure una piccola parte della pelle. Sorrideva gentile solo quando mi vedeva avvolta in lunghi maglioni o mi vedeva con la generica camicia bianca ottima per tutte le occasioni. Non potevo comprare tute da ginnastica, abiti firmati. Ogni tanto anche da piccola prendevo in prestito degli abiti da qualche amica di nascosto, ma quando se ne accorgeva andava su tutte le furie. Mi preferiva sciatta così non avrei mai dato nell’occhio. Conosceva bene il comportamento dei maschi e cercava di proteggermi, di allontanarmi da loro. Io spesso mi sentivo bene solo a giocare con i maschi che non deridevano il mio corpo in modo massiccio come le ragazzine, sempre pronte a importunarmi, a deridermi senza pietà. Mio padre però cercava sempre un pretesto per allontanarmi da loro. Era felice e gioioso solo quando mi vedeva a giocare in casa da sola. Ma io come figlia unica avevo bisogno di proiettarmi fuori, di conoscere gente, ragazzini, coetanei, di uscire dal guscio. Avevo la smania di uscire in fretta dal nucleo familiare, troppo oppressivo. Intanto lui selezionava le mie amicizie, scrutava i miei incontri. Dovevo avere solo amici perbene, figli di gente importante, di gente con un ruolo sociale ben preciso, con un lavoro di prestigio. Non vedeva di buon occhio la mia profonda amicizia con un ragazzino piccolo, basso, con un handicapp, balbuziente. Io invece mi trovavo bene, perché in lui rivedevo me stessa sempre alle prese con persone che deridevano il mio corpo. Eravamo affini, soggetti agli stessi soprusi, timidi, stanchi già di vivere, sempre alle prese con un ambiente familiare soffocante. In questa amicizia mio padre remava contro e un giorno per accontentarlo stanca di musi e rimbrotti, cacciai il ragazzino in malo modo e lui deluso non si fece più vedere. Gli diedi uno spintone e gli dissi di non tornare più. Mi ero arresa, avevo gettato la spugna senza combattere. Mio padre mi logorava i nervi, mi spingeva a desistere da certe imprese. Io non ero aggressiva, ma condiscendente e accettavo. Inoltre non avevo un fratello o una sorella che potessero combattere al mio fianco. Le regole dovevano essere rispettate.

    Un pomeriggio afoso d’estate, quando giravano poche persone nelle strade e il caldo rovente avvolgeva la città in cui vivevo, ero riuscita a sfuggire alla sorveglianza. Come regola avrei dovuto riposare nel mio letto. Mio padre era al lavoro, mia madre era disfatta dal caldo e si era addormentata. Avevo dato appuntamento ai dei ragazzini per giocare nel giardino pubblico distante solo pochi isolati da casa mia. Tuttavia loro non si presentarono forse bloccati dai genitori. Mi ritrovai da sola a vagare nei viali ombrosi del parco. Stare sola con me stessa non mi dispiaceva. Avevo imparato da subito a convivere con la solitudine estrema, agghiacciante. L’educazione oppressiva non mi consentiva di vagare, di spaziare. Inoltre quando gli altri mi deridevano in automatico mi chiudevo a riccio se non altro per difendermi. Non reagivo, non battevo i pugni sul tavolo, non mi facevo valere. Restavo inerte, in attesa di una liberazione che sarebbe venuta solo dall’esterno. Invece avrei dovuto trovare il coraggio di ribellarmi, ai mio padre, agli altri, invece accettavo passiva, soprusi, angherie, storture di ogni genere. I ragazzini si divertivano a tormentarmi, a nascondermi il triciclo, i palloni, le bambole. Una bambola vestita con un abito di cachemire, molto costosa, dono di mio zio, la ritrovai lontano da casa in un dirupo vicino a un parcheggio, chissà come era finita là, con gli occhi cavati, i capelli tagliati con le forbici, l’abito elegante fatto a pezzi. Mi sentii ferita, colpita al cuore. Forse le bambine che giocavano con me il pomeriggio l’avevano presa a mia insaputa e ridotta in quello stato per rabbia, per pura cattiveria. Ogni giorno sperimentavo sulla pelle la cattiveria della gente. Al supermercato quando andavo a prendere solo il latte nessuno mi faceva passare alla cassa, se lo chiedevo protestavano tutti. Solo un anziano ogni tanto, se mi incontrava, mi faceva passare ma con il preciso scopo di agganciarmi visto che era un pedofilo. Quel giorno nel parco fui inseguita da un ragazzo biondo con grandi occhi blu intenso che tentò un approccio diretto. Portava pantaloni corti che non esitò a togliersi, lasciandomi senza fiato. Cercò di sfilarmi i pantaloni rompendo l’elastico, di toccare le mie mutandine, mi tolse le ballerine che avevo ai piedi, quelle che mio padre mi proibiva e che quel giorno, in sua assenza, avevo indossato di soppiatto. Mi lanciava occhiate di fuoco, tentava di baciarmi. Io cominciai a gridare, a tirare calci rivelando una forza incredibile, la forza della disperazione. Ero spaventata, atterrita, con gli occhi di fuori, le mani graffiate, le gambe indolenzite. Tiravo pugni, lottavo come un ossesso. Sembravo impazzita. Ero sconsolata, ma non demordevo. Ero sorpresa nel vedere un ragazzo così all’apparenza perbene che diveniva all’improvviso sadico, malsano, corrotto, avido, viscido. Sentivo le sue mani di velluto muoversi con discrezione sul mio corpo gracile. Mi guardava con aria stravolta pronunciando parole volgari, irripetibili, di cui io non conoscevo allora l’esatto significato, la cui comprensione avvenne solo molti anni dopo. Mi accusava di essere una sgualdrina, di essere sexy. Mi ripeteva con voce suadente che ero un bocconcino prelibato data la mia età. Non apprezzava la mia magrezza.

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