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L'uomo della luce nera: Caso clinico presentato da Freud
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L'uomo della luce nera: Caso clinico presentato da Freud

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«Sono il gatto di uno psicoanalista. Anzi, il mio umano è uno psicoanalista (che è una definizione molto più precisa del nostro rapporto). Ho trascorso anni a fingere di sonnecchiare durante le sedute, sul mio cuscino accanto alla scrivania, e ormai di psicoanalisi me ne intendo. Mi raccolse affamato e intirizzito, e mi portò nella sua tiepida casa. Mi curò e mi nutrì. Diventare il suo collaboratore era il minimo che potessi fare per sdebitarmi. Noi gatti diamo sempre un nome al nostro umano, e io l'ho chiamato Salvatore. Lui mi ha chiamato Freud.» Un giorno, nello studio di Salvatore entra Nikita, un paziente che non guarda mai nessuno negli occhi. Soltanto Freud riesce a incrociare il suo sguardo, e vi scorge la Luce Nera. Il romanzo è un viaggio nella mente di Nikita e nel suo passato oscuro.
LanguageItaliano
PublisherPuntodoc
Release dateNov 30, 2020
ISBN9791220227773
L'uomo della luce nera: Caso clinico presentato da Freud

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    L'uomo della luce nera - Claudio Roncarati

    POSTFAZIONE

    Prefazione

    Marco Monari *

    Presento con piacere questo romanzo breve di Claudio Roncarati, amico colto e psichiatra di lungo corso nei servizi pubblici nonché psicoterapeuta esperto, di formazione psicoanalitica a livello individuale e in gruppo nello psicodramma analitico.

    Ho volutamente parlato di romanzo breve, perché questa è una storia clinica, il racconto di una terapia psicoanalitica, che si legge come un romanzo noir, qualcosa che cattura il lettore e lo avvince nelle sue vicende narrative, rendendogli faticoso sospenderne la lettura. Lo intendo come genere letterario in cui, alla classica ricerca della soluzione dell’enigma poliziesco e della scoperta del colpevole attraverso un processo deduttivo-induttivo fino all’abduzione intuitiva, viene privilegiata la descrizione psicologica dei personaggi e dell’ambiente in cui matura il fatto delittuoso. In questo caso esso è costituito dai ripetuti eventi traumatici, e non solo, che Nikita-Nicola, il paziente protagonista della storia, ha subito fin dalla sua prima infanzia e dalle loro conseguenze psicopatologiche e cliniche, per come si dipanano nel corso della vicenda narrata all’interno della coppia terapeutica. L’espediente saliente e originale, non solo sul piano letterario, è che il narratore in prima persona della vicenda sia il gatto Freud che, sempre presente in seduta, silenziosamente coadiuva Salvatore, l’umano suo salvatore nella dura realtà della vita, che svolge il ruolo di analista. «Siamo Freud e Salvatore, coterapeuti», afferma orgogliosamente, e va da sé che si amino molto. L’uno svolge un lavoro di sonda emotiva delle atmosfere che si creano in seduta, partecipando alla loro elaborazione e trasformazione, mentre Salvatore – quale nome impegnativo e forse ironico per un terapeuta implicato in una grave situazione postraumatica! – può così dedicarsi maggiormente al suo lavoro riflessivo e interpretativo. Siamo all’interno di una situazione clinica difficile ed assai diffusa sia negli ambulatori pubblici sia negli assetti privati, di vicende traumatiche gravemente distruttive e rovinose nello sviluppo della mente infantile. In questi rapporti terapeutici, soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento, ma non solo, è il contatto emotivo e la sua intonazione a incidere profondamente sull’andamento della relazione. E il gatto Freud, tra le tante possibili ipotesi alla base di questa scelta, rappresenta il cervello destro di Salvatore, continuamente connesso con quello di Nikita-Nicola, in un movimento emotivo bidirezionale che avviene in frazioni di secondo e diventa un dialogo senza parole in cui Nicola sente di essere sentito, ancor prima di essere in grado di utilizzare la parola come mezzo semantico pienamente simbolico e condiviso. Quanto la storia clinica sia di pura invenzione o quanto essa sia costituita da un insieme di pezzi appartenenti a realtà cliniche diverse tra loro, tutto questo non ha molta importanza perché ugualmente emerge lo stile terapeutico dell’autore, impegnato non solo professionalmente ma anche a livello della sua sensibilità personale ed umana con il paziente. E questo è ciò che hanno bisogno di sentire tutti i pazienti, in particolar modo quelli che mettono in campo nella terapia le loro gravi esperienze traumatiche infantili.

    Non sempre queste storie terapeutiche hanno nella realtà clinica esiti così positivi come questa, anche se… non vado oltre per non deludere le attese del lettore. Infine i pezzi musicali lirici e non che vengono citati nel racconto, sottolineano ed enfatizzano le atmosfere emotive che si sviluppano all’interno della coppia al lavoro.

    Buona lettura!

    * Marco Monari è medico psichiatra, Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Bologna. Ha a lungo lavorato nei servizi psichiatrici bolognesi occupandosi di ricerca sulla psicoterapia psicodinamica istituzionale dei pazienti gravi con disturbo di personalità, individualmente e in gruppo. È membro ordinario della società psicoanalitica italiana (SPI) e ha scritto numerosi lavori su questi argomenti in riviste e libri nazionali e internazionali.

    CAPITOLO I

    «A nove anni vinsi tutte le partite del torneo di scacchi organizzato dalla scuola. A nove anni conoscevo tutte le capitali di tutti i paesi del mondo a memoria. Quando si faceva la gara, chi mi teneva testa con le capitali dell’Europa e dell’America poi vacillava con quelle dell’Africa sub-sahariana, e anche i più forti capitolavano su quelle delle isole dei Caraibi e della Polinesia. Io mi godevo l’immancabile vittoria, senza scompormi. A nove anni non avevo amici perché gli altri bambini erano troppo infantili per me, mentre io lo ero per i più grandi, che cominciavano a parlare di ragazze, e se si faceva a botte picchiavano duro. E poi ero considerato strano da tutti. Avevo i capelli a spazzola, portavo già gli occhiali, ero slavato, biondiccio, corpulento. Dicevano che sembravo un russo. Per questo mi avevano soprannominato Nikita. Come soprannome non mi dispiaceva, lo uso ancora in rete come nickname. Il problema era che i bambini più stronzi della scuola avevano trasformato il mio nome, dopo un fugace passaggio attraverso l’innocuo Nicolone, in Niculone, e sentirmi chiamare Niculone a nove anni mi faceva incazzare. Però non mi scomponevo mai. Solo dopo ho imparato il prodigio che schiude la divina indifferenza. Dovevano ancora passare alcuni anni prima che scoprissi l’aforisma di Arthur Schopenhauer, Di fronte agli sciocchi e agli imbecilli esiste un solo modo per rivelare la propria intelligenza: quello di non parlare con loro. Le sto parlando di me a nove anni, perché so che altrimenti mi farebbe un sacco di domande su quell’anno della mia vita, proprio come il mio vecchio analista, il dottor Ferrara. Fu quando avevo nove anni che mia madre si suicidò. Immagino che anche lei mi dirà che ho vissuto un trauma, e anche lei vorrà sapere tutto del trauma».

    Quelle furono le prime parole, pronunciate con voce piatta, che il nuovo paziente del mio umano disse quando si sdraiò sul lettino. O meglio, ci si lasciò cadere sopra, facendolo gemere sotto la sua mole. Sdraiato, mi fece pensare a un esausto gattone randagio che ha finalmente trovato una tana sicura. Per un randagio una buona tana fa la differenza tra la vita e la morte.

    Mi accorsi che, senza volerlo, stavo muovendo la coda.

    Sono il gatto di uno psicoanalista. Anzi, il mio umano è uno psicoanalista (che è una definizione molto più precisa del nostro rapporto). Ho trascorso anni a fingere di sonnecchiare durante le sedute, sul mio cuscino accanto alla scrivania, e ormai di psicoanalisi me ne intendo. So quanto sia importante fare attenzione a quello che un paziente ti suscita. La coda esprimeva la mia agitazione. Dal mio angolo di osservazione, attraverso la fessura delle palpebre socchiuse, osservavo il paziente: enorme, con i piedi che sporgevano dal lettino sovrastato dal suo corpo debordante. Il mio umano, nella poltrona alle sue spalle, sembrava esile, indifeso dentro al suo abito grigio, e la cravatta azzurra poteva trasformarsi in un cappio stretto dalle mani del gigante. Provavo il desiderio di proteggerlo. Se quel colosso all’improvviso avesse deciso di aggredirlo? Come fanno i cani maltrattati da cuccioli, tenuti alla catena, cresciuti senza amore? Come avrebbe potuto difendersi, il mio umano?

    Io lo adoro. Adoro tutto di lui: la sua voce pacata, la sua barba che nel tempo ho visto diventare grigia e bianca, i suoi occhi buoni cui negli anni ha aggiunto gli occhiali da lettura, la calvizie che ho visto allargarsi, aumentando tra i capelli lo spazio lucido su cui si riflette la luce del lampadario quando la sera siede alla scrivania. Amo il suo odore delicato di sapone e tabacco da pipa. Amo soprattutto le sue dita sottili che mi regalano carezze e grattini leggeri.

    Il mio umano, tanti anni fa, in un freddo inverno di fame e nevischio sulle strade, mi portò a casa sua e mi salvò. «Trauma»? Chi è stato randagio sa cosa vuole dire «trauma».

    Mi raccolse affamato e intirizzito, e mi portò nella sua tiepida casa. Mi curò e mi nutrì. Diventare il suo collaboratore era il minimo che potessi fare per sdebitarmi. Noi gatti diamo sempre un nome al nostro umano, e io l’ho chiamato Salvatore. Lui mi ha chiamato Freud.

    Siamo Freud e Salvatore, coterapeuti. Quando Salvatore ha delle incertezze su un paziente, mi guarda, coglie i miei messaggi. In quella seduta notò di certo il mio scodinzolio.

    Lavoriamo in uno studio con entrata indipendente, al piano terra di una palazzina in mattoni rossi. Una porta scorrevole lo separa dall’appartamento in cui viviamo. Nello studio c’è un’ampia finestra che affaccia sul giardino condominiale. Il mare non si vede, ma se ne sente l’odore quando il vento soffia verso terra, e lo si può ascoltare quando nelle sere nebbiose arriva il suono lamentoso delle sirene dal porto. L’arredamento è essenziale, e ho imparato subito a non affilarmi le unghie sul legno dei mobili. Il mio cuscino poggia accanto alla scrivania di quercia, vicino alla postazione del mio umano, rivestita in pelle bordeaux. La sedia di Salvatore e le due di fronte a lui sono comode, con i braccioli e gli schienali imbottiti.

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