La lotta del gene
By Irene Galfo
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La lotta del gene - Irene Galfo
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Il termine «gene» significa ormai cose diverse
in contesti differenti
I biochimici favoriscono definizioni del gene a livello molecolare e i genetisti di popolazione una definizione di gene come unità di trasmissione. Tra questi due livelli della comprensione concettuale ci sono numerosi gradi di complicazione che riflettono la diversità dei sistemi viventi. È importante che i genetisti riconoscano i molti livelli a cui i geni possono essere percepiti, ma non è proprio di aiuto selezionare uno di questi livelli e designarlo arbitrariamente come la definizione universale del gene.¹
La proliferazione dei vari concetti di gene, che a volte sono apparsi complementari, altre volte si sono contraddetti a vicenda, deriva da più di un secolo di ricerche di genetica.
Di conseguenza, «il gene» è diventato un tema caldo che alimenta un vivace dibattito negli studi di filosofia della scienza, filosofia della biologia, biologia molecolare e genetica.
I tentativi di raggiungere la formulazione di un’univoca definizione di gene non hanno avuto successo e probabilmente mai ne avranno.
Il concetto di gene è stato e continua ad essere un concetto «in tensione» come ha ricordato Raphael Falk (2000). Esso deve essere interpretato come un concetto «in movimento», così come ha suggerito Yehuda Elkana.
È bene premettere che il cambiamento delle definizioni di gene è derivato ogni volta dall’uso di pratiche e sistemi sperimentali diversi e innovativi rispetto al passato.
Oggi, con il completamento della sequenza del genoma umano e l’inizio di ciò che viene chiamato l’era della post-genomica, la genetica sta vivendo un momento di cambiamento concettuale. Si sono persino sollevate voci circa la volontà di abbandonare il concetto di gene a favore di nuove terminologie (Keller e Harel 2007).
In questa tesi osserveremo il concetto di gene da una prospettiva storica e lo indagheremo come un oggetto epistemico, ovvero un’entità sottoposta ad una continua ricerca.
___________________
¹ E.A. Carlson, Defining the Gene: An Evolving Concept, in «Am. J. Human Gen.», 49, 1991, pp. 457-87.
In principio fu Mendel…
La complessità dei fenomeni ereditari
Gregor Johann Mendel è riconosciuto universalmente come il precursore della genetica moderna, per aver compreso per primo i principi dell’ereditarietà. Prima di Mendel l’ereditarietà era considerata come qualcosa di intuitivo, ben lungi dall’essere trattata con rigore scientifico.
Il cenno più antico alla genetica si ravvisa nel concetto aristotelico di entelechia. L’entelechia esprimeva la completa realizzazione della potenza in atto, la creazione, per cui l’anima era concepita come l’entelechia di un corpo organico. Successivamente si diffusero le teorie preformiste. Nel 1694 lo scienziato Nicolas Hartsoeker dichiarò di aver visto con uno strumento una figura umana in miniatura all’interno di uno spermatozoo. Questa affermazione fu accolta per tentare di spiegare la formazione dell’individuo e l’ereditarietà. Da qui si diffuse per molto tempo l’idea che il corpo umano fosse già preformato all’interno dello spermatozoo sotto forma di un uomo in miniatura e che lo sviluppo si basasse sul semplice accrescimento.
Secondo gli ovisti, invece, l’homunculus o uomo in miniatura si trovava all’interno degli ovuli e lo sperma serviva unicamente come input all’avviamento della gravidanza e allo sviluppo. Addirittura Bonnet sosteneva che la donna contenesse incapsulata nell’ovulo tutta la progenie immediata e futura.
Successivamente, con la messa a punto di strumenti maggiormente adatti, vennero abbandonate le teorie preformiste e il vitalista Wolff nella metà del ‘700 elaborò la teoria dell’epigenesi. Tale teoria dichiarava che gli ovuli non contenevano uomini in miniatura, ma gocce di un liquido che, tramite una certa forza vitale, avrebbero formato gli organi dell’uomo. Nel XIX secolo gli scienziati cominciarono ad indagare come i tratti o le caratteristiche di una generazione si riscontrassero con una certa frequenza nelle generazioni successive. Darwin elaborò la teoria della pangenesi, considerata provvisoria, in quanto lo stesso autore era consapevole che quest’ultima non fosse basata su solide fondamenta scientifiche. Secondo tale teoria ogni cellula dell’organismo produceva delle gemmule o copie in miniatura di se stessa. Queste si riversavano nel liquido sanguigno e durante la riproduzione sessuale servivano a formare il nuovo organismo.
Galton, dopo aver condotto degli esperimenti, tra cui la trasfusione di sangue tra un coniglio bianco e uno nero, mostrò che la progenie non risultava screziata. Lo sviluppo successivo fu introdotto dal lamarckismo secondo cui anche i caratteri acquisiti durante la vita potevano essere trasmessi alle generazioni future. Weismann si oppose a questa concezione e formulò la teoria della segregazione del plasma germinale. Egli distinse le cellule del plasma germinale (gameti) dalle cellule del somatoplasma (cellule somatiche) e dimostrò che le cellule del plasma germinale si diffondevano e influenzavano la formazione del soma. I caratteri acquisiti non potevano essere trasmessi alla generazione successiva, poiché i cambiamenti avvenivano nel soma il quale non poteva influenzare il plasma germinale per via della segregazione. Successivamente Johannsen darà una più corretta interpretazione di questa teoria con la distinzione tra i concetti di genotipo e fenotipo.
Mendel (Moravia 1822-Brno 1884) formulò le proprie teorie nel XIX secolo, ma esse rimasero inutilizzate fino al 1900, quando De Vries, Correns e Tschermak riportarono alla luce i suoi studi. Il monaco utilizzò la tecnica dell’incrocio scegliendo un organismo facile da analizzare: il pisello. Le varietà di piselli che scelse per le sperimentazioni erano facili da reperire e coltivare, occupavano spazi piccoli e avevano tempi di generazione brevi, infine producevano una filiazione ricca. In particolare, egli decise di studiare il pisum sativum. Effettuò fecondazioni incrociate tra specie diverse che differivano per un solo carattere. Le varietà che incrociava facevano parte di linee pure, cioè possedevano quel determinato tratto per molte generazioni. Dagli studi e dai numerosi esperimenti Mendel ricavò tre leggi:
La legge della dominanza, la legge della purezza dei gameti e quella dell’indipendenza.²
___________________
² Le Leggi di Mendel:
- Legge della dominanza (o legge di omogeneità del fenotipo): gli individui nati dall'incrocio tra due individui omozigoti che differiscono per una coppia allelica, avranno il fenotipo dato dall'allele dominante. Con significato più ampio rispetto al lavoro di Mendel, può essere enunciata come legge dell'uniformità degli ibridi di prima generazione.
- Legge della segregazione (o legge della disgiunzione): gli alleli di un singolo locus segregano indipendentemente l'uno dall'altro (in seguito fu evidente che ciò era dovuto all'indipendente segregazione degli autosomi). Può essere enunciata come ricomparsa del recessivo.
- Legge dell'assortimento indipendente (o legge di indipendenza dei caratteri): i diversi alleli si trasmettono indipendentemente l'uno dagli altri, secondo precise combinazioni.
Mendelismo
La lotta per l’indipendenza
Le interpretazioni degli esperimenti di Mendel erano tante quanti gli articoli pubblicati sull’oggetto in questione. Monaghan, Corcos e Olby hanno sostenuto che gli esperimenti del monaco fornivano dati sulle leggi dello sviluppo degli ibridi e non leggi sull’ereditarietà. Lo studioso conosceva gli aspetti teoretici dei propri studi ed era consapevole delle limitazioni che derivano dalla deduzione di conclusioni universali da dati sperimentali. E questo è provato da una lettera a Carl Nageli nel Dicembre 1866. Nella lettera, infatti, Mendel discuteva dei propri dubbi concernenti l’universalità di ciò che aveva scoperto.
Oggi sappiamo che gli studi mendeliani possono essere letti come un’introduzione ad una nuova euristica per lo studio dell’ereditarietà negli ibridi.³ Mendel, come chiarisce Falk, si occupò dello studio della trasmissione dei caratteri. Ma fu con Johannsen che i geni cominciarono ad essere studiati quali entità materiali distinte dai tratti e fu Morgan che nel 1913, per ragioni strumentali, distinse la trasmissione ereditaria dallo sviluppo.
Negli anni che seguirono, la lotta della genetica per l’indipendenza del proprio oggetto e gli studi di Morgan sulla trasmissione ereditaria indussero dei contrasti nella giovane scienza fino a trasportarla in sentieri cruciali. È importante notare come Falk ponga l’accento sul fatto che in realtà solo il mendelismo si originò dal 1900 in poi. Discutere di mendelismo è più corretto piuttosto che parlare di una vera e propria scoperta di Mendel. Il mendelismo fu l’oggetto in questione, ovvero le diverse interpretazioni del lavoro di Mendel ad opera di neomendeliani come De Vries, Correns e Bateson. Questi studiosi, fortemente influenzati dalla teoria evoluzionistica, spesso integravano gli studi e le ipotesi mendeliane in teorie nuove. Correns, ad esempio, accettò in parte la teoria del monaco moravo. In un articolo scritto insieme a De Vries nel 1900, discuteva sulla - non universalità - dei principi che Mendel aveva scoperto. Infatti, si potevano riscontrare alcuni casi non conformi agli schemi del lavoro mendeliano. De Vries, uno dei maggiori studiosi dell’Evoluzione, credette che l’interpretazione di Mendel circa l’ereditarietà dei caratteri aveva senso anche oltre quei suoi dati. Addirittura, l’opera del monaco poteva costituire la base solida per la nuova teoria della speciazione che lo studioso stava elaborando in quegli anni. Come sostenne Dunn, De Vries non fu un riscopritore di Mendel, bensì un creatore di ampi principi generali.⁴
Nella fondazione del mendelismo dobbiamo ricordare anche Bateson. Fu De Vries che richiamò Bateson all’attenzione sull’articolo di Mendel. E nonostante l’entusiasmo di questo nuovo studioso fosse meno visibile, nel giro di pochi anni, egli divenne il più ardente promotore del mendelismo come sistema di leggi sulla trasmissione ereditaria e sullo sviluppo. Falk spiega che nel ‘900 il mendelismo fu subordinato alla teoria dell’Evoluzione. Mendel intuì di dover trattare il problema dell’ereditarietà separatamente dallo sviluppo. Egli usò i tratti come meri indicatori o segnali di trasmissione. Il problema della non comparsa di uno degli indicatori parentali negli ibridi fu risolto con il ricorso ai termini descrittivi «dominante» o «recessivo». Se il tratto non compariva era recessivo, altrimenti dominante. Egli assunse questi