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L'ultimo giorno di Roma
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L'ultimo giorno di Roma

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EDIZIONE SPECIALE CON DEDICA ESCLUSIVA DI ALBERTO ANGELA

L'ULTIMO GIORNO DI ROMA: il primo libro della “Trilogia di Nerone” dedicata al più controverso imperatore di Roma e all’incendio del 64 d.C.

Un bestseller annunciato, ma è all’altezza delle aspettative? Assolutamente sì. L’autore, come è suo metodo, ci porta dentro la Storia”.
Il Venerdì di Repubblica

"Un racconto dallo stile cinematografico incredibilmente coinvolgente che ci svela una città multiculturale che somiglia a quella di oggi molto più di quanto si pensi".
Il tempo

"Un viaggio a tutto tondo nell'epoca di Nerone".
Il giornale

"Un nuovo e avvincente progetto editoriale".
La gazzetta del mezzogiorno

Roma, sabato 18 luglio 64 d.C.
È una calda notte estiva, la città sta per svegliarsi con le sue strade brulicanti di attività e di persone, ed è del tutto ignara di quello che accadrà tra poche ore…

"Roma è ancora addormentata, e ad accompagnare i nostri pensieri ci sono solo i canti di alcuni usignoli che nidificano sui tetti, il rivolo d’acqua di una fontana, l’abbaiare di un cane chissà dove e le esclamazioni lontane e indecifrabili degli ultimi carrettieri che durante la notte hanno rifornito le botteghe. È la quiete prima di una nuova giornata caotica e frastornante.

Saranno Vindex e Saturninus, due vigiles di turno quel giorno, a guidarci per le strade alla scoperta della vita quotidiana di uno dei più grandi centri abitati dell’epoca. Durante la loro ronda, il possente veterano e la giovanissima recluta svolgeranno un lavoro fondamentale per l’ordine e la sicurezza della popolazione: controllare ed eliminare le innumerevoli fonti di pericolo in una città dove il fuoco si usa per tutto e la tragedia è sempre in agguato… Seguendoli nel loro lavoro quotidiano, scopriamo una Roma in gran parte fatta di legno, entriamo nelle botteghe colme di merci infiammabili che si affacciano sulle strade, sentiamo i rumori e gli odori che provengono da ogni parte e assistiamo a scene all’ordine del giorno in una Roma multiculturale che somiglia a quella di oggi molto più di quanto si pensi.

Basandosi su dati archeologici e fonti antiche, e grazie al contributo di storici ed esperti di meteorologia e del fuoco, Alberto Angela ricostruisce per la prima volta un importantissimo episodio che ha cambiato per sempre la geografia di Roma e la nostra Storia: il Grande incendio del 64 d.C.

Con questo suo libro, il primo della Trilogia di Nerone, ci guida nella vita delle persone realmente esistite al tempo di Nerone (dai più noti Plinio il Vecchio e Tito a quelli sconosciuti come lo scenografo di corte Alcimus e la pescivendola Aurelia Nais) e ci regala un racconto storico dallo stile cinematografico, incredibilmente coinvolgente, unico nel suo genere.

LanguageItaliano
Release dateNov 24, 2020
ISBN9788830519817
L'ultimo giorno di Roma
Author

Alberto Angela

Alberto Angela, nato a Parigi nel 1962, è paleontologo, naturalista, divulgatore scientifico e giornalista, nonché autore di numerosi saggi e conduttore di molti programmi televisivi, tra i quali Passaggio a Nord Ovest, Ulisse - Il piacere della scoperta e Stanotte a... All’inizio del 2018 è andato in onda su RAI 1 con la trasmissione Meraviglie, dodici tappe di un itinerario alla scoperta dei grandi patrimoni dell’umanità; un programma che ha conquistato i telespettatori, i media e la rete, che hanno celebrato Angela come una star e parlato di un “marchio Alberto Angela”.

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    L'ultimo giorno di Roma - Alberto Angela

    1

    UNA CALDA NOTTE D’ESTATE

    Anzio, venerdì 17 luglio 64 d.C. L’ora del tramonto

    Il disco rosso del sole si è appena posato sul mar Tirreno in un’esplosione di tonalità che incendia tutto il cielo. È un momento perfetto, da cogliere in silenzio, cullati solo dal rumore delle onde che si allungano stanche sulla spiaggia e dalla fresca carezza della brezza sulla pelle martoriata da una giornata di fuoco. Davanti a questo panorama meraviglioso, come non amare la vita? Come non essere grati di poter assaporare delle sensazioni che appartengono solo ai sogni?

    Un lungo sospiro accompagna questi pensieri… e scompare tutto. A rapire il sole assieme al mare e ai colori del cielo sono delle ciglia che si chiudono, e sul tramonto scende un sipario di palpebre pesantemente truccate.

    Il paesaggio che stavamo ammirando era in realtà riflesso negli occhi di una donna. E quando, dopo lunghi secondi, questi si riaprono, regalano al mondo uno sguardo profondo, dal colore scuro come la notte che sta per venire. È uno sguardo particolare, diventato famoso in tutto l’Impero romano. Genera un fascino potente che innesca un brivido intenso, ma anche il timore di diventare la sua preda. È questo il fascino di Poppea. Una donna bella e determinata, che ha imparato a destreggiarsi con abilità negli equilibri di corte per ottenere ciò che vuole.

    Un esile ciuffo ribelle, strappato dalla brezza, le frusta una guancia. Il colore rosso Tiziano si accende ancor più alla luce del tramonto. La mano della donna lo ferma e lo rimette tra i ranghi ordinati della complessa acconciatura da imperatrice.

    Il colore ambrato dei capelli di Poppea è noto in tutta Roma. Li ha persino descritti lo stesso Nerone in un poema. E da quel momento, tutte le matrone hanno desiderato avere i capelli dello stesso colore della donna più potente dell’Impero romano.

    Con un movimento lento, Poppea si copre il volto con un velo, lasciando scoperti solo gli occhi. È un vezzo che tutti conoscono, lo stesso Tacito ce lo dice: Teneva una parte del volto coperta da un velo, sia che non volesse soddisfare gli sguardi altrui, sia, anche, per apparire più affascinante.

    Questo sguardo intenso si vuole nutrire dei colori del tramonto. Gli occhi di Poppea continuano a fissare il sole che gradualmente s’inabissa: il gelo del mare si fonde con l’incandescenza del sole. Già, acqua e fuoco… Lei non lo sa, ma tra poche ore questi due elementi faranno la differenza tra la vita e la morte per migliaia di persone, in una delle catastrofi più devastanti della Storia.

    D’altra parte, nessuno può ancora saperlo. Anzi, il mondo sembra sorridere a Roma in questo giorno di luglio del 64 d.C. L’Impero sta vivendo, tutto sommato, un periodo d’oro e di prosperità, offuscato solo da alcuni problemi di instabilità nei suoi domini orientali. Problemi comunque molto lontani da questo tratto di costa laziale ad Anzio, una cinquantina di chilometri a sud di Roma, dove tutto è cullato solo dalla bellezza della natura, con tramonti che sembrano un regalo degli dei.

    Poppea prova un senso di smarrimento quando l’ultimo bagliore del sole scompare, inghiottito dai flutti neri del mar Tirreno. Alza lo sguardo verso il cielo e scorge un nuovo piccolo bagliore; è quello di Venere, che già brilla in un crepuscolo color indaco. Sorride. In effetti, quelli che per noi sono solo una stella e un pianeta, nella sua mente di antica romana rappresentano molto di più: sono due divinità. Apollo, che nella sua quotidiana corsa nel cielo a bordo del suo carro infuocato è appena sparito oltre l’orizzonte, e Venere, la dea dell’amore, che appare nella volta celeste.

    Poppea abbandona la balaustra di marmo bianco sulla quale si era mollemente appoggiata per assaporare il tramonto. Con passo lento, attraversa le eleganti geometrie di un grande mosaico e prosegue in un lungo porticato affacciato sul mare.

    In effetti, sembra nata per dominare il mondo: ha ereditato dalla madre un’avvenenza fuori dal comune, è amabile nel parlare, ha un’intelligenza vivace. E a ogni suo passo sembra di udire l’eco delle parole degli antichi su di lei. Frasi che scolpiscono nell’aria la sua determinazione nell’ottenere ciò che vuole: Non si curò mai di avere una buona fama, nonché di fare alcuna distinzione fra mariti ed amanti. Non era schiava di alcun sentimento affettuoso né suo, né di altri; dove scorgeva l’utile, là volgeva la sua libidinosa passione.

    È sempre Tacito a dircelo.

    A seguirla, silenziose come due ombre, sono la sua dama di compagnia e una serva, rimaste per tutto il tempo in disparte. Le sagome delle tre donne appaiono e scompaiono, scandite dallo scorrere del colonnato. Le tende tese tra una colonna e l’altra si muovono sinuose al vento, imitando le movenze dell’imperatrice.

    Ad accompagnare Poppea nel suo percorso, oltre allo sguardo discreto degli uomini addetti alla sicurezza del Palazzo, ci sono numerose statue di bronzo, scintillanti come l’oro, che nella loro fissità sembrano tante guardie pretoriane sull’attenti per onorare il passaggio dell’imperatrice. Sono capolavori assoluti dell’arte greca, strappati alla terra natia dalla voracità romana, perché degni della dimora dei potenti dell’Urbe. Il suo sguardo vaga distrattamente su opere che in qualunque museo moderno creerebbero file sterminate di visitatori. Purtroppo non le conosceremo mai, perché sono andate distrutte nel corso dei secoli.

    Così come non conosceremo mai, salvo rarissime eccezioni, la maggior parte dei capolavori di questa reggia accarezzata dal mar Tirreno. La villa imperiale di Anzio è ben più che una classica villa a mare dell’aristocrazia romana: è un immenso palazzo, quasi una piccola città, in cui in estate, lontano dall’afa di Roma, vivono l’imperatore e la sua corte. Insomma, un vero monumento che parla a tutti della potenza di Nerone. Purtroppo ai nostri giorni ne rimangono solo pochissime strutture, erose dal tempo, che arrivano fin sulla spiaggia, facendo sognare i bagnanti di fasti perduti. Quei muri e quelle rientranze ai piedi del promontorio di Capo d’Anzio, oggi chiamate grotte di Nerone, anche se imponenti non restituiscono l’aspetto impressionante della dimora imperiale e del suo porto. Tante ricostruzioni, seppur accurate e documentate, viste le molte lacune rimangono comunque in larga parte delle mere ipotesi, e così lo saranno le scenografie del racconto che segue.

    Famoso è il suo immenso belvedere sul mare. Per certi versi ricorda il colonnato di piazza San Pietro con la sua selva di colonne, quasi fossero le braccia distese di chi sta per abbracciare un figlio: sono pronte ad accogliere il mare. Affacciarsi da questo punto vi fa sentire al centro dell’universo: davanti, avete solo il cielo e l’acqua… È proprio lì che, fino a pochi istanti fa, si trovava Poppea.

    Vista dal largo, la villa imperiale presenta un’ordinata serie di colonnati simili all’alternanza di tasti bianchi e neri su un pianoforte. Questi porticati, che invitano a lunghe passeggiate in compagnia di amici, filosofi di corte o anche solo dei propri pensieri, sono una peculiarità delle ville a mare romane, come testimoniano i tanti affreschi rinvenuti a Pompei, che spesso abbracciano proprio questo periodo, o gli straordinari mosaici emersi un po’ ovunque nel Mediterraneo.

    A quest’ora del crepuscolo l’accensione di centinaia di lucerne e fiaccole, che sembrano fare a gara con le stelle che compaiono sempre più numerose nel cielo, trasforma la villa in una piccola città, regalando una magia indescrivibile a questa sera d’estate.

    Una magia che è familiare ai marinai che passano al largo, a bordo dei grandi velieri d’altura: a quelli che provengono dall’Egitto ricorda il bellissimo quartiere reale che fu di Cleopatra, affacciato sul porto di Alessandria. Lo sfarzo e lo sfoggio di potenza sono molto simili.

    Sono passati cento anni dalle vicende di Cleopatra, e Poppea, in fondo, rappresenta un’altra femme fatale destinata a entrare nella Storia, seppure in misura molto diversa. In effetti, questa villa ha fatto da cornice a tanti altri volti e nomi famosi della storia di Roma. Qui ha soggiornato Ottaviano Augusto e, dopo Nerone, ospiterà Domiziano e Adriano… La possiamo definire una straordinaria dimora dell’ozio per i potenti nel corso di tutta l’età imperiale.

    Non a caso proprio qui è nato Nerone. Si sente particolarmente legato a questa villa. Lui stesso l’ha demolita, rimaneggiata e riedificata, trasformandola in una delle più grandi e splendide regge dell’Impero.

    Ed è proprio su una serie di progetti architettonici che cade l’occhio di Poppea. Sono tracciati con precisione su alcuni fogli di papiro distesi su tavoli di marmo. Dei segretari imperiali stanno riavvolgendo con delicatezza i fogli per riporli nelle capsae, tipici contenitori cilindrici per documenti, forse in cuoio. Alla vista dell’imperatrice sgranano gli occhi, si irrigidiscono e chinano il capo in silenzio. Poppea piega la testa per vedere meglio, da lontano, uno dei disegni: rappresenta la planimetria di un quartiere con le case a scacchiera, attraversato da un canale rettilineo. È chiaramente il progetto per un nuovo rione a Roma. Chissà cosa sta elaborando Nerone… Certo, è un luogo molto diverso dalla città che lei conosce, con il suo intrico di vicoli tortuosi, strade buie e caseggiati altissimi addossati l’uno all’altro (una sorta di Gotham City dell’antichità). Sorride e scuote la testa. Anche oggi Nerone ha lavorato al suo progetto di migliorare la capitale dell’Impero.

    Ma non è ancora il momento di approfondire questo tema. E sembra averlo compreso anche Poppea, che riprende il cammino, lasciando i segretari immobili come statue.

    Il suo incedere lento ora segue la cadenza di un ritmo lontano, che si fa sempre più forte a ogni passo. Alle frequenze basse se ne aggiungono gradualmente delle altre, più alte, fino a trasformarsi in musica. Non lontano dall’imperatrice, un’orchestra scolpisce l’aria con le sue note, deliziando le orecchie di chi l’ascolta. Strana forma d’arte, la musica: al contrario della pittura, della scultura, della poesia, non lascia capolavori se non nella memoria di chi l’ascolta (esistono gli spartiti, certo, ma non deliziano subito i sensi, bisogna eseguirli. E l’effetto non è scontato, perché dipende anche dall’esecuzione). Oggi è possibile registrarla e riascoltarla. Ma non lo era nell’antichità. L’opera muore nell’istante stesso in cui viene creata. Assieme alla danza, è forse la più evanescente delle forme d’arte. Da gustare sul momento, come il tramonto che abbiamo appena visto.

    A quest’ora del crepuscolo, con le sale della villa che annegano progressivamente nell’oscurità, il porticato sembra un viale illuminato, grazie alle fiaccole fissate alle colonne. Il punto di arrivo di Poppea è laggiù, in fondo. È il grande triclinium, la gigantesca sala per i banchetti.

    È rivolto verso il mare, in direzione del tramonto: offre uno spettacolo mozzafiato che nessun artista sarebbe in grado di realizzare.

    Le faraoniche ville romane scoperte dagli archeologi a Stabiae, l’attuale Castellammare di Stabia, così come alcune sontuose dimore con vista mare di Pompei, hanno spesso dei triclini rivolti verso il tramonto. È logico pensare che la stessa magia allietasse anche le cene di un imperatore.

    È così illuminato da far pensare che il sole stesso sia venuto al banchetto. In controluce, delle ombre scure attraversano il porticato. È il viavai degli schiavi imperiali, impegnati a servire gli invitati con portate di ogni tipo. Senza sosta, piatti colmi di trionfi di cibo, simili a sculture, incrociano vassoi vuoti. Poppea scorge anche qualche figura portata via barcollando. Si tratta di invitati ubriachi, pronti a rimettere pietanze estremamente elaborate e raffinate che di certo gran parte degli abitanti di Roma non vedrà mai in tutta la propria vita.

    Gli ultimi passi di Poppea nel porticato sono scanditi dal saluto delle guardie pretoriane disposte davanti a ciascuna colonna, che scattano sull’attenti in una sorta di effetto domino.

    Banchetto a corte

    Quando Poppea emerge dalla semioscurità ed entra nella sala, abbagliando tutti con la sua bellezza, la sua regalità e i colori delle sue vesti, un araldo annuncia la presenza dell’imperatrice.

    È come se fosse entrata in un altro mondo.

    Davanti a lei si apre un ambiente sfavillante di colori e luci. È una sala andata perduta, di cui possiamo solo immaginare la magnificenza. Alle colonne pendono festoni di allori e fiori che si intrecciano a tendaggi variopinti. Le tende di seta ondeggiano in un ballo lento, strette all’abbraccio invisibile delle correnti d’aria.

    I colori, i fiori, le vesti leggere degli invitati ricordano le atmosfere della Primavera di Botticelli.

    Gli affreschi alle pareti sono tra i più ricchi ed elaborati della storia dell’Impero: appartengono al cosiddetto quarto stile (secondo la classificazione basata sui capolavori scoperti a Pompei) e sono tipici dell’età neroniana. Rispetto ai tre stili precedenti, più scarni e con tinte meno aggressive, mostrano bellissime architetture a più livelli (colonnati, padiglioni, fontane), paesaggi, nature morte, decorazioni verticali simili a candelabri con pavoni, pantere, sfingi, coppe con frutta, divinità egizie… E sono carichi di tonalità intense (dal rosso fuoco al verde malachite, all’azzurro). Potremmo definirlo un vero barocco dell’arte degli affreschi nell’antichità. Osservarne uno oggi, come si può fare nella splendida villa di Oplontis a Torre Annunziata, probabilmente appartenuta a Poppea, o nella Domus Aurea a Roma, vi dà una chiara idea di cosa significassero il lusso e le atmosfere negli ambienti di corte e dell’aristocrazia ai tempi di Nerone.

    Decine di persone sono sdraiate nei letti triclinari intente a mangiare, chiacchierare, ridere, mentre gli schiavi servono incessantemente cibi e bevande, attivi come api in un alveare. A colpire sono soprattutto le vesti colorate, raffinate ed eleganti delle donne. Ovunque ci sono sete, ricami in oro, acconciature elaborate (spesso parrucche). E poi un’infinità di gioielli scintillanti: orecchini con perle che ondeggiano a ogni risata, girocolli con smeraldi che brillano quando una matrona gira la testa verso un commensale, anelli con zaffiri che accompagnano una manciata di fichi presi da una coppa di cristallo, bracciali a forma di serpente che s’innalzano al momento di un brindisi, collane in oro così lunghe da girare attorno alla vita, strizzando le forme e i respiri di molte donne… Questa è la corte di Nerone.

    Ogni membro è sdraiato sul fianco sinistro, con il piatto in mano, mentre con la mano destra vi raccoglie bocconi di cibo (i romani a tavola non usano posate, tranne piccoli cucchiai, e le pietanze arrivano già tagliate a pezzetti). I letti triclinari sono disposti secondo una gerarchia e lo sguardo dei commensali è perennemente rivolto verso l’imperatore.

    Quello che abbiamo di fronte a noi, insomma, è un vero sistema solare del potere imperiale con, al centro, in un punto preciso della sala, il sole: è Nerone, sdraiato, con accanto le persone più fidate.

    Poppea avanza con passo lento verso il suo posto. I musicisti hanno interrotto il loro brano, e tutta la corte si è alzata in silenzio; gli ultimi sono alcuni anziani aristocratici che hanno avuto bisogno dell’aiuto del proprio schiavo.

    Nel suo incedere regale, Poppea attraversa una geografia invisibile, che di solito non viene raccontata. È quella dei profumi, che riempiono l’aria e cambiano a ogni passo, a ogni respiro dell’imperatrice: Poppea si muove dalle essenze delicate spruzzate sui tendaggi all’aroma dei legni orientali con cui sono fatti i letti triclinari, ai fumi dei composti esotici che emanano dai bracieri, all’odore acre della carne arrosto e delle salse sui vassoi, fino agli oli e ai profumi delle dame presenti, che chinano il capo al suo passaggio, molte con un ultimo sguardo di forzata condiscendenza. Il disprezzo è ricambiato, visto che anche la corte di Nerone, come accade in tutte le epoche, è quasi certamente un nido di vipere, dove dilagano l’esibizionismo, la falsità, le gelosie e le maldicenze.

    L’unico che rimane sdraiato e continua a mangiare è Nerone. È il padrone del mondo, può fare ciò che vuole.

    E in effetti continua a intrattenersi con alcuni commensali, tra i quali c’è il suo braccio destro, Tigellino, il prefetto del pretorio. Un tempo al suo fianco avremmo visto anche Seneca, il più famoso filosofo dell’epoca. Ma da alcuni anni i rapporti con quello che era stato il suo tutore si sono guastati. A corte ora c’è Petronio. Grazie alla sua raffinatezza e al suo savoir-faire (Tacito lo definisce persino arbitro di eleganza) è diventato una figura di riferimento per Nerone. Da qualche minuto osserva divertito il gruppo degli Augustiani, il corpo di giovani fanatici dell’imperatore le cui vesti sgargianti e il vociare scomposto gli offrono tanti spunti per i suoi scritti satirici.

    Poco oltre sono sdraiati anche Severus e Celer, i due grandi architetti dell’imperatore. La loro presenza spiega quei piani urbanistici che Poppea ha intravisto venendo qui. Oggi li definiremmo delle archistar, ed è proprio con loro che Nerone sta lavorando per la realizzazione di un suo grande sogno per Roma.

    Il ritorno di Poppea al banchetto, che aveva lasciato per andare a rinfrescarsi il trucco e ammirare il tramonto, ha interrotto la discussione. Tigellino e gli altri chinano il capo in segno di rispetto per l’imperatrice. A Poppea, navigata donna d’alta corte, non sfugge qualche sguardo furtivo alle sue forme giunoniche.

    Nerone, invece, sembra quasi non essersi accorto del suo arrivo e riprende il discorso interrotto, porgendo le dita inanellate, unte di salsa, a un servo che immediatamente prende una coppa di acqua profumata per detergergliele.

    La prima cosa che colpisce guardando Nerone è la sua imponenza. È un uomo corpulento. Ha appena ventisette anni, ma il suo fisico ha già perso buona parte dell’agilità giovanile. Anni di placida vita di corte, dedicata ai piaceri e al lusso, lo hanno appesantito, anche se non è ancora arrivato all’aspetto obeso e vissuto che ci tramandano i suoi ultimi busti di marmo o le descrizioni antiche. Sebbene sia ancora asciutto rispetto alla fine del suo regno, che avverrà tra quattro anni, la pancia è comunque un po’ prominente e il doppio mento incombe, inutilmente nascosto da una barba giovanile che scende dalle basette come un’edera e abbraccia la gola fin sotto il mento.

    In questa calda notte d’estate, sul suo grosso collo (descritto dallo scrittore romano Svetonio nelle Vite dei Cesari) scorrono tante gocce di sudore, malgrado due schiavi si ostinino a rinfrescare l’imperatore muovendo due enormi ventagli di piume di struzzo.

    Il secondo aspetto che sorprende è il colore dei capelli: sono in parte coperti da una corona di foglie d’alloro dorate, e non si capisce bene se sono biondi o rossi. Tendono comunque al ramato, o per lo meno così sembra, vedendolo da dove ci troviamo, a qualche metro di distanza. Sulla fronte formano una frangia corta, simile a un breve caschetto di piccole virgole allineate. Oggi sarebbe un taglio un po’ imbarazzante, ma in quest’epoca è decisamente alla moda…

    Il colore dei suoi capelli è davvero sorprendente perché, in età moderna, abbiamo l’abitudine di vedere Nerone senza colori su busti e monete. Ma a pensarci bene tutto è già scritto nel suo nome: la famiglia dalla quale proviene suo padre infatti è quella degli Enobarbi (Ahenobarbi), un termine che significa proprio… barba rossa.

    Alla nascita si chiamava Lucio Domizio Enobarbo, ma noi lo conosciamo solo come Nerone. Perché? Il professor Romolo Augusto Staccioli spiega che è un nome di origine sabina che significa forte e valoroso e che lui fece proprio più tardi, quando, a tredici anni, venne adottato dall’imperatore Claudio: in quel momento infatti cambiò nome, mutando quello originario in Nerone Claudio Druso Germanico.

    Sarebbe logico pensare che, visti i capelli biondicci vicini al colore ramato, Nerone avesse anche occhi tendenti al verde, ma da dove ci troviamo non possiamo esserne sicuri. Anzi, alcune descrizioni antiche parlano di occhi azzurri. Di sicuro, vista l’età, la sua voce è ancora quella di un giovane uomo, non udiamo il timbro profondo dell’uomo maturo.

    Nerone ha finito di farsi pulire le mani da uno schiavo, e sulle sue braccia scoperte scorgiamo alcune delle macchie citate da Svetonio che, a suo dire, avrebbero coperto tutto il corpo. Una descrizione in cui si legge bene la volontà di vedere un mostruoso tiranno in ogni particolare della sua persona. In realtà, c’è forse una spiegazione più banale. Dato il colore dei capelli e gli occhi azzurri o verdi, non è improbabile che l’imperatore avesse una carnagione molto chiara, con lentiggini e macchie pigmentate, come accade spesso a tanti di noi che hanno un fototipo nordico…

    Come avrete capito, è difficile affrontare la figura di Nerone senza essere subito accerchiati dai cliché su di lui: mostro, tiranno dall’aspetto ripugnante, violento, incendiario, pazzo, viziato… Ma è davvero così?

    Quante cose sapete, voi, realmente, su Nerone?

    Vi cito solo alcuni fatti a lui attribuiti, che approfondiremo nell’arco dei tre volumi della trilogia per capire come stiano realmente le cose e fare chiarezza sulla sua figura così controversa, che oggi storici e archeologi tendono a rivalutare, scrollandogli di dosso almeno una parte del male che avversari e autori ostili gli hanno ingiustamente attribuito.

    Nel 64 d.C. Nerone è in carica da dieci anni. Fa impressione pensare che sia salito al trono a diciassette anni non ancora compiuti. Diventare l’uomo più potente della Terra in età adolescenziale, nel pieno delle burrasche ormonali e senza esperienza, farebbe tremare i polsi a qualsiasi persona della sua corte o sotto il suo comando. Per questo nei suoi primi anni di regno è stato affiancato e guidato dall’esperienza di due grandi figure, il filosofo Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro, nonché dalla scaltrezza della madre Agrippina, la vera artefice della sua salita al potere, e di fatto l’eminenza grigia del potere imperiale dietro molte delle sue decisioni fino al 59 d.C. Poi Nerone inizia gradualmente a eliminare tutti quelli che in qualche modo frenano la sua libertà, persino la madre, Agrippina, e Seneca, costretto al suicidio nel 65 d.C. Con il tempo tralascia i suoi doveri di imperatore, appassionandosi sempre più allo sport e ai giochi olimpici greci, in particolare alle gare di quadrighe, dove i suoi avversari si fermavano per fargli tagliare il traguardo per primo (a volte persino aspettando che fosse risalito sul cocchio dal quale era caduto). Compone poesie e suona la cetra, esibendosi anche in concerti pubblici. Ama sia uomini che donne, cosa peraltro assolutamente normale per la morale romana, e prende in moglie nell’ordine: la cugina Claudia Ottavia nel 53 d.C., che poi fa esiliare e uccidere per sposare nel 62 d.C. l’amante Poppea (dopo averla fatta divorziare dal marito, Otone, che allontana affidandogli un incarico in Portogallo). La scomparsa di Poppea, nel 65 d.C., lascia un vuoto incolmabile che Nerone sembra voler affrontare unendosi in matrimonio, probabilmente alla fine dello stesso anno, con una donna che ne ha già quattro alle spalle, Statilia Messalina. A questi matrimoni ufficiali se ne aggiungono altri, più eccentrici e inseriti dagli autori antichi tra gli aneddoti scandalosi legati a Nerone, che oggi alcuni storici tendono a interpretare come unioni mistiche, legate a culti misterici: quello con il liberto (ex schiavo) Pitagora, il suo coppiere, e quello con Sporo, un giovane eunuco che, stando a quanto ci racconta Cassio Dione, pare somigliasse moltissimo alla defunta Poppea.

    Nerone è una figura complessa, quasi teatrale, fuori dai classici canoni di re e imperatori. Senza dubbio il fatto che sia nato e vissuto a corte, negli ambienti protetti dei palazzi del potere, viziato e completamente staccato dalla vita della gente comune, senza che qualcuno osasse mai dirgli di no durante la giovinezza, ha contribuito alla sua mancanza di senso della realtà. Anzi, Nerone sembra quasi non aver mai superato l’adolescenza: per tutta la vita è rimasto ingenuo, immaturo, capriccioso.

    Ma, in fondo, quanti altri sovrani sono stati così? Tantissimi. Anche se non potremo mai saperlo con certezza, nell’ultima parte della sua vita, da Poppea in poi, pare quasi esserci la continua ricerca di un abbraccio da parte delle persone con le quali si lega, forse un sintomo dell’ambiente anaffettivo nel quale è cresciuto, a cominciare dalla madre Agrippina, una donna calcolatrice e molto ambiziosa.

    Ma sono considerazioni troppo superficiali per un uomo come Nerone, che sembra impossibile da afferrare, da etichettare: ogni volta che si crede di averlo inquadrato in un profilo psicologico, lui mostra un lato sorprendente e diverso. Nerone è per molti versi un enigma.

    Eppure nel suo sangue scorre la Storia.

    Augusto era il suo trisnonno materno. Marco Antonio, invece, era il suo bisnonno paterno. L’imperatore Tiberio era il suo pro-prozio per parte di madre, mentre un altro imperatore, Claudio, era suo patrigno.

    A voler vedere il quadro completo, Nerone è imparentato, direttamente o indirettamente, con almeno otto uomini che hanno fatto la storia di Roma, tra i quali tre imperatori e un principe: oltre ad Antonio, Augusto, Claudio e Tiberio, che abbiamo citato, bisogna aggiungere suo zio Caligola (da parte della madre), Agrippa (bisnonno materno), Druso (bisnonno paterno), Germanico (nonno materno)…

    E poi c’è la parte femminile del suo albero genealogico, con tante donne fondamentali nella storia di Roma, come Ottavia (bisnonna per parte di padre), Livia (trisavola materna), Agrippina Maggiore (nonna materna) e Messalina (cugina per parte di padre). Senza contare l’attuale moglie, Poppea…

    Insomma, lo avete capito, non stiamo parlando di un uomo qualsiasi: Nerone è il vero frutto del potere a Roma.

    In lui scorrono più di cento anni di lotte, intrighi, assassinii, battaglie tra eserciti e tra flotte, trionfi e sconfitte che hanno deciso la storia dell’antichità e il destino di milioni di persone nel Mediterraneo, là dove si toccano tre immensi continenti. In lui scorre il… potere dell’Impero.

    Ma ora, l’unica geografia sulla quale riecheggiano le sue parole è quella delle macchie di vino sulle toghe degli invitati. La serata è già inoltrata, scandita da ricette con ingredienti rari ed esotici, il cui scopo principale è quello di colpire la corte e gli invitati più che di nutrirli. Ogni portata è stata accompagnata dalle note degli instancabili musici, e Nerone in persona ha recitato componimenti da lui stesso scritti, sollevando un entusiasmo tanto rumoroso quanto ipocrita…

    Ora è il momento del convivio, la parte più intima del banchetto, e solo pochi sono stati invitati a rimanere. Si leveranno coppe con il miglior vino, in una serie sterminata di brindisi. Facile immaginare le conseguenze…

    Poppea si è già alzata da tempo. È tornata alla balaustra per riempire i suoi respiri dell’odore del mare, e i suoi occhi con l’infinito della notte estiva. Ma le stelle sono meno visibili, stanotte. Il cielo, infatti, da qualche minuto si è acceso di un forte chiarore all’orizzonte, sembra il bagliore di un incendio in lontananza. E si fa sempre più intenso… Fino a quando, ecco, la luna sorge improvvisa, regalando un altro spettacolo mozzafiato. È immensa e rossa, quasi come il sole che è scomparso dalla parte opposta del mare. Nella mente di Poppea è Selene, un’altra divinità, che le porge il saluto.

    Anche il vento è cambiato. L’imperatrice ha un brivido di freddo e si stringe nella sua preziosa stola ricamata di perle e oro. Mentre Selene s’innalza, rischiarando le increspature del mare, Poppea nota che non è ancora perfettamente tonda: lo sarà domani. Sarà una notte di luna piena… Una notte bellissima, da ricordare perché carica di magia estiva, pensa Poppea.

    Già, domani sarà davvero una notte che entrerà nella Storia… Ma in tutt’altro modo. Anche se nessuno ancora può saperlo.

    L’imperatrice continua a guardare pensierosa la luna sul mare. Nerone, invece, si è già addormentato russando.

    La Storia, come spesso accade, arriva silenziosa e in punta di piedi. Ma travolgerà tutto… E tutti.

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    LA RONDA DEI VIGILES

    Roma, sabato 18 luglio 64 d.C. Poco prima dell’alba

    Roma è avvolta nell’incantesimo dell’aurora. I grandi templi s’innalzano nella notte, come velieri nel porto in attesa di salpare. Le loro facciate di marmo bianco sembrano tante vele pronte a gonfiarsi della vita di Roma.

    Stranamente, non si è mai trovato un affresco o un mosaico di epoca romana che raffiguri lo skyline di Roma antica o un colpo d’occhio della città. Possiamo quindi solo immaginare i templi e gli edifici, aiutati anche dal fatto che i tagli di luce e le atmosfere non sono cambiati nei secoli, e che chi ha la fortuna di vivere a Roma può descriverli esattamente come erano duemila anni fa.

    La luna è già tramontata, lasciando Roma immersa nel debole chiarore del giorno imminente. La silhouette nerissima della città si staglia contro un cielo che vi regala l’azzurro a oriente, l’indaco sopra le vostre teste, e il nero a occidente, ultimo rifugio di una notte che sta scomparendo. Svettano le statue in cima a colonne, i tetti delle case più alte e le sagome dei templi sui colli. Sono le sole forme che riusciamo a distinguere nettamente in questa semioscurità. Scendendo con lo sguardo, sotto di essi si estende a perdita d’occhio un intrico di edifici dalle forme disordinate, quasi fossero accatastati gli uni sugli altri. Sono i caseggiati a tanti piani dove vive ammassata

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