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Vai quando vuoi

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About this ebook

Samuele deve fare i conti con la sua separazione da Valerio e pensa che l'unico modo per stare meglio sia partire per la Spagna, alla ricerca di un altro sé. Juan, cinquant'anni prima, in una Siviglia nella morsa della dittatura franchista, vive in segreto la sua storia d'amore con Mario, un ingegnere sposato. Edelweiss, una donna di novantaquattro anni rassegnata all'inevitabile scorrere del tempo, si ritrova ad essere l'anello di congiunzione tra due vite lontane solo all'apparenza. Edelweiss, Samuele e Juan hanno infatti molto più di qualcosa in comune e, soprattutto, una domanda a cui rispondere: quando ami davvero qualcuno, quanto sei disposto a lasciarlo andare?
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 16, 2020
ISBN9791220304146
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    Vai quando vuoi - Dimitri Cocciuti

    Bonaccorti

    Anamnesi

    Ogni partenza ti cambia un po’ la vita.

    L’ho sempre pensato osservando i sorrisi degli altri, gli abbracci, le lacrime, gli sguardi innamorati e spensierati, i gesti di chi va via per staccare la spina, per cambiare vita, per guardare altrove.

    Per ritrovarsi.

    Ho sempre associato il concetto di partenza a quello di distacco: partire, per me, ha sempre sancito una sorta di separazione in cui si creano infiniti tempi del film della nostra esistenza.

    Quando andavo al liceo classico, non troppi anni fa, ero particolarmente fissato con le lezioni di filosofia. Avevo un professore un po’ strambo, ancora me lo ricordo, di cognome faceva Rosso.

    Era molto sulle sue e non riuscivi mai a capire in quale universo si trovasse talmente sembrava fuori dal mondo, eppure quando si cimentava nelle sue spiegazioni sapeva conquistarmi.

    Per questo motivo probabilmente mi è rimasta sempre impressa una mattina di fine marzo in cui spiegò Eraclito con una passione difficilmente quantificabile.

    Impiegò tutte le due ore di lezione per soffermarsi su un concetto che ancora oggi mi torna in mente: «Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume».

    Un modo per dire che tutto è mutevole, che non siamo mai gli stessi in nessun momento della nostra vita.

    Ecco, quando penso alle partenze mi torna in mente proprio quel concetto, perché quando si va via si sancisce un prima e un dopo che porti con te, elaborando gli effetti dell’inevitabile cambiamento degli eventi.

    Quel pomeriggio di inizio giugno, stavo vivendo sulla mia pelle l’esperienza di una partenza di cui avevo ben chiaro solo il prima e in cui, il poi, era un gigantesco punto interrogativo; avevo tra le mani un biglietto sin vuelta per Siviglia e un bagaglio sistemato alla meno peggio, in fretta e furia, il giorno prima.

    Non era stata una decisione facile, perché se dirigi un’azienda che si occupa di comunicazione, hai la mania del controllo e hai una decina di persone alle tue dipendenze, per sparire dall’oggi al domani delegando tutto a tutti devi aver sicuramente superato il cosiddetto point break, il punto di rottura dove finisce esattamente ciò che eri e intraprendi un percorso nuovo verso ciò che sei.

    Il giorno prima di quella partenza avevo cominciato giustappunto a sistemare l’armadio nella casa che avevo appena comprato a Roma nord, in zona Trionfale, quando sento suonare con una certa insistenza il campanello.

    Dando un’occhiata al videocitofono mi resi conto che dall’altra parte dello schermo c’era Bea, una delle mie più care amiche.

    Nati entrambi il 26 maggio, alla stessa ora, ma con due anni di differenza.

    Lei, mora, occhi verdi, fisico perfetto ma in perenne critica verso se stessa.

    Era esattamente come me: dritta come un treno sul lavoro, ma un capolavoro di insicurezze in campo sentimentale.

    Era salita in fretta e furia, non ero neanche andato ad accoglierla al cancello d’ingresso perché troppo preso dal cercare magliette e pantaloncini che ancora non avevo disfatto dalle innumerevoli scatole che solo un accumulatore seriale come me poteva tenere.

    Non aveva fatto in tempo a entrare che mi aveva etichettato, tra i vari epiteti, come un fuori di testa che aveva deciso di partire per Siviglia senza un progetto, un programma preciso, un rientro perlomeno immaginato.

    Niente di niente. Avevo giusto la prenotazione su Airbnb con possibilità di ciclico rinnovo, l’unica cosa che avevo a disposizione e che Bea, in fondo un po’ preoccupata per me, mi contestava.

    Avrei potuto farle notare che non era esattamente il modo migliore per salutare un amico in partenza, tuttavia l’avevo un filo assecondata perché lei era proprio così, ci pensava sempre un po’ prima di dire le cose, ma quando sentiva che era il caso di dare fiato alle trombe non si risparmiava in alcun modo.

    Aveva continuato la sua arringa accusatoria partendo dalla prima motivazione scatenante, ovvero la mia separazione da Valerio, tuttavia non così forte, a suo dire, da giustificare un rientro non programmato.

    Io comunque non mi ero scomposto, anzi, avevo assecondato le sue urla continuando a cercare e trovando nel frattempo la mia maglia portafortuna, una t-shirt con il numero 3 blu grandissimo stampato al centro.

    Ma non avevo fatto finta di non sentire, invece, avevo ascoltato ogni singola parola della mia amica.

    E a modo mio avevo provato a spiegarmi ulteriormente e a farla sintonizzare sulla mia stessa lunghezza d’onda.

    «Tesoro mio, al posto tuo probabilmente anche io sarei venuto a casa tua e ti avrei fatto sufficientemente a pezzi per farti desistere da ogni desiderio di fuga. Valerio mi ha tradito e la relazione è naufragata ormai da un po’, ma non voglio andare via perché ho saputo che già si è lanciato in un’altra storia.

    Scemo io che ho fatto finta di non vedere che lui è un eterno conflitto tra il desiderio del porto sicuro e la tentazione perversa di scopare con qualcun altro e questo perché le sue relazioni sono lo specchio ostinato di quanto ha vissuto nella sua famiglia.

    Per quanto mi riguarda non si merita neanche tutte queste riflessioni esistenziali, stronzo era e stronzo rimane!».

    Ecco, forse nel parlargli di Valerio mi ero un po’ troppo fomentato.

    Tuttavia, giuro, non stavo andando a Siviglia per metabolizzare la nuova avventura romantica del mio ex fidanzato.

    O perlomeno, lui magari in parte c’entrava e questo era evidente, ma di certo non mi sarei sognato di fare un biglietto senza ritorno per elaborare esclusivamente questa roba qui.

    Un gesto del genere avrebbe dato a Valerio un’importanza che non meritava affatto.

    Così, tra un pantalone da stirare e qualcosa da sistemare, che a casa mia non manca praticamente mai, avevo provato a ricordarle il vero motivo che mi stava spingendo a compiere quel gesto così forte.

    Ma lei, consapevole della ragione primaria, non sembrava comunque così disposta ad assecondarmi.

    «Samuele, io capisco tutto, la voglia di guardare la tua separazione in un posto d’osservazione diverso dalla realtà di tutti i giorni, il desiderio di staccare un po’ la spina. Tuttavia credo che ti abbia turbato un po’ troppo quell’esperimento di ipnosi che hai fatto con il tuo psicanalista, non avresti mai preso una decisione del genere se non ti fossi cimentato in un’esperienza simile.

    Però, guardami bene e rispondimi con sincerità: sei così sicuro che andare a scoprire il frammento nel corso di quella seduta sia davvero la chiave per risolvere i tuoi problemi sentimentali?

    Non voglio che tu vada lì pensando di trovare la risposta alle tue domande per poi tornare a Roma con niente tra le mani, con una separazione ancora non elaborata, con il doppio del fardello emotivo sulle spalle e magari con qualche insulto al tuo psicanalista. Le separazioni non si affrontano cercando di capire se effettivamente hai avuto un’altra vita e cosa hai combinato nella tua precedente esistenza, ammesso poi che tutto questo sia vero, ma mi sembri così partito per la tua tangente che farti ragionare è una missione impossibile».

    Già: l’ipnosi regressiva. La chiave di svolta di quel viaggio stava tutta lì, in quella seduta che avevo fatto qualche giorno prima con lo psicanalista che mi segue da anni, il dottor Baroni.

    Con lui ne avevo parlato in modo approfondito: il problema che mi marchia indelebilmente da anni è legato alla paura della separazione.

    Non ho mai ben capito da dove sia nato, se dal rapporto con i miei genitori, o in quale momento della mia vita io abbia sviluppato questo trauma.

    In principio era la paura di essere abbandonato proprio dai miei: anche lasciarmi all’asilo poteva essere per me un alert che mi attivava la modalità ‘solo nel mondo’, inducendomi a piangere come un disperato.

    Quando sono cresciuto e i tormenti venivano gentilmente offerti dai miei primi amori non corrisposti, su cui costruivo separazioni inesistenti nei fatti ma assolutamente profonde e distruttive per me che da quegli amori platonici trovavo linfa vitale per le mie attitudini al dolore che sublimavo poi, ad esempio, con ascolti ossessivi e continui del primo album di Lene Marlin, non esattamente foriero di felicità intrinseca.

    Era questo un meccanismo che sapevo, non so come, autoalimentare alla perfezione: di certo non mi sentivo un brutto ragazzo, eppure mi capitava e mi capita tutt’ora di sentirmi in un locale, una spiaggia o qualsiasi altro posto di convivialità, un pesce fuor d’acqua, spettatore della nascita di flirt altrui mentre crogiolo in una sorta di pseudo vittimismo in cui tutti possono e io, per un qualche indefinito e mai realmente colpevole segno del destino, no.

    Tuttavia ho cominciato ad analizzare il concetto della separazione così come lo vivo ora con l’avvento delle mie prime relazioni serie, capaci di naufragare con grande facilità ma al tempo stesso abili nel donarmi la prima sacrosanta verità tra le fondamenta di un rapporto di coppia: l’amore è infinito, a modo suo.

    A volte rimane lo stesso per sempre, altre volte cambia forma e rimane nella sfera dell’infinito in altri modi.

    Nel mio caso erano più gli altri modi ad avere la meglio con un happy ending decisamente non pervenuto.

    Diciamo che nel tempo avevo sviluppato questo meccanismo anche un po’ perverso, se vogliamo, in cui alla fine nonostante i complimenti di rito sulla mia presunta perfezione e decantata bontà mi ritrovavo pieno di corna.

    Stanco di questo iter che caratterizzava con inquietante regolarità i miei drammi sentimentali, avevo cercato di trovare il modo per uscirne fuori proprio con il dottor Baroni.

    Lo avevo conosciuto qualche anno prima, e devo dire che l’esperienza con lui, sin dall’inizio, mi aveva dato la possibilità di guardare la vita con occhi diversi, di trovare il coraggio di diventare protagonista nell’affrontare le mie paure, e non spettatore scarsamente interessato.

    O quantomeno, a modo mio, ci provavo.

    Delle mie separazioni ne avevamo parlato tante volte, analizzando ogni aspetto legato alla mia vita: l’infanzia, il rapporto con i miei genitori, l’analisi delle mie prime cotte, delle mie prime relazioni stabili, del mio vissuto a 360 gradi.

    Tuttavia non era mai emerso un dettaglio o una chiave di lettura capace di farmi fare pace con un aspetto della mia vita che non vivevo affatto bene.

    Così un pomeriggio, neanche troppo per caso se vogliamo perché sapevo che ne era in grado, il dottor Baroni mi fece una proposta a cui decisi di dire sì senza pensarci due volte: sottopormi a ipnosi regressiva.

    Conoscevo l’argomento da molti anni, avevo letto di tutto e ne ero rimasto affascinato, anche se vedere quel trafiletto su Wikipedia mi aveva un po’ scoraggiato: Per i sostenitori di questa metodologia, durante la rievocazione intra ipnotica il paziente potrebbe comunicare contenuti riferibili a presunte vite precedenti. Secondo il parere prevalente della comunità scientifica, ciò è attribuibile a immaginazione, falsi ricordi, suggestione e condizionamento da parte del conduttore che favorirebbe l’emersione nel soggetto di criptomnesie e confabulazioni.

    Praticamente, di fatto, una manipolazione in piena regola… e la cosa almeno in un primo momento, al solo pensiero, non mi lasciava affatto tranquillo.

    Così cominciai a seguire un altro filone, quello dei sostenitori della tesi dell’ipnosi regressiva come una tecnica sperimentale che permette di ricercare le cause dei conflitti attuali nel mondo remoto attraverso dei sogni, degli stati di trance che possono assumere l’aspetto di precedenti vite.

    Ecco, questa cosa mi sembrava più convincente del negazionismo in senso assoluto; così, in cuor mio, mi ero già predisposto a un evento del genere.

    E poi la curiosità mi aveva portato a vedere anche tanti video di un luminare del genere, Brian Weiss, e a leggere i suoi libri.

    In fondo, la curiosità la faceva da padrone e alla fine ripetevo tra me e me dissipando ogni dubbio: Perché non provare?

    Con tutto questo pregresso di trip preventivi che mi ero fatto, non potevo certo scompormi quando arrivò il fatidico giorno in cui lo psicanalista me lo propose.

    «Samuele, lei è davvero pronto a fare questo tentativo? Deve lasciarsi andare, dirmi tutto quello che immagina, anche se le sembra completamente insensato. Io le farò poche domande, solo per aiutarla a descrivere ciò che la sua mente le farà vedere. Va bene?»

    Devo dire che sì, ero pronto a sperimentare questa fantomatica ipnosi regressiva.

    Mi guardai attorno, cercando nello sguardo del Dottore, un uomo sui quarantacinque anni estremamente rassicurante, la spinta giusta per cominciare.

    Peraltro, come da prassi, lui aveva già sondato preventivamente la mia predisposizione a questo tipo di tecnica; ragion per cui l’unica cosa da fare in quel preciso momento era lasciarmi andare.

    «Chiuda gli occhi Samuele, cominci a rilassarsi. Ora non è più a contatto con la realtà che la circonda ma è libero di esplorare le parti più nascoste della sua mente.

    Mi dica quello che vede, senza paura, è libero di raccontarmi tutto quello che la sua mente riesce a visualizzare, mi renda partecipe delle sue visioni».

    Mi sentivo quasi in trance, pervaso da un’insolita tranquillità, come se improvvisamente un grande senso di pace mi circondasse senza badare a qualsivoglia elemento esterno.

    In un primo momento non capivo bene cosa mi stesse succedendo; tuttavia a un certo punto la sensazione divenne più definibile: ero in dormiveglia, a metà tra il sogno e l’essere presente a me stesso.

    Sapevo perfettamente cosa stessi facendo ma contemporaneamente non riuscivo a controllare le immagini che il mio subconscio mi stava facendo vedere, esattamente come quando sogni.

    Ecco, in quel contesto lì, io mi percepisco in una città spagnola, probabilmente Siviglia perché riesco a riconoscere Plaza de España in cui ero stato una decina di anni fa circa.

    Prima di osservare con attenzione cosa e chi abbia attorno mi soffermo istintivamente su come sono vestito, perché non indosso outfit moderni, ma dei pantaloni a tubo, una camicia un po’ avvitata, roba che forse doveva andare di moda negli anni Sessanta.

    Ero in una sorta di trance, però riuscivo a parlare, o perlomeno avevo la sensazione di poter chiarire con esattezza al Dottore che era seduto di fianco a me tutto ciò che riuscivo a vedere e sentire in quella specie di visione-non-visione.

    Lui ascoltava attentamente le mie parole, provando ad approfondire quelle immagini che stavano prendendo forma nella mia mente.

    «Cosa vede in questa piazza? È da solo? Ci sono persone intorno a lei?»

    E io in effetti non sono da solo. Sento della musica, qualcosa che mi ricorda il flamenco, la canta un tizio che ha accanto a sé delle ballerine.

    Sono tutti estasiati dalla sua musica.

    Accanto a me vedo un uomo, mi sfiora la mano, mi sorride. Moro, con i capelli tirati all’indietro, lo sguardo rassicurante, mi sembra bellissimo.

    Non ho la più pallida idea di chi sia eppure riesce a trasmettermi un senso di felicità assoluto.

    Il dottor Baroni prendeva appunti e annotava ogni singolo passaggio: «Samuele, provi a guardare attentamente tutto quello che ha intorno, racconti ogni dettaglio che la colpisce».

    Sembra tutto così tranquillo, questa persona accanto a me mi sussurra qualcosa all’orecchio e io gli sorrido, dicendogli di non preoccuparsi.

    A un certo punto però comincio a sentire come dei passi venire nella mia direzione.

    Mi volto dall’altra parte e vedo due militari, oppure due poliziotti o due guardie,

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