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La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2)
La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2)
La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2)
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La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2)

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In contemporanea con la serie evento di Matteo Rovere in onda su Sky, nel secondo volume della saga scritta con maestria da Luca Azzolini ritroviamo i protagonisti del primo libro, nel loro percorso fatto di intrighi, tradimenti, atti di viltà e di coraggio, che li porterà a scrivere una delle pagine più importanti della Storia.

Lazio, Terre dei Trenta. VIII secolo a. C. Sull’antico trono dei re di Alba Longa, siede un nuovo e feroce sovrano, Amulius.

È un re astuto e sanguinario: il re che era stato promesso. I grandi signori della Lega Albana hanno visto tornare la pioggia che ha lavato via, nel dolore e nel sangue, il ricordo della terribile siccità che per mesi ha minato l’unità dei popoli latini. La pace ritrovata, però, non è che una terribile menzogna.

Venti di guerra soffiano sulle Terre dei Trenta e gli Dei mormorano inquieti. Lo sguardo di Ilia, la giovane vestale rinnegata, è arso da un fuoco nero. Il fuoco del Dio Marte, il Signore delle Battaglie, che le ha sussurrato al cuore un’oscura parola, affilata come una lama: vendetta!

Altrove, in uno sconfinato bosco ai confini di Velia, sul Tevere, due giovani stremati dalla vita – l’orfano Wiros e il legittimo erede al trono Yemos – sopravvivono come fuggiaschi, cercando di sfuggire l’ombra di una crudele nemica.

È una creatura che veste le spoglie di una lupa gigantesca e corre in mezzo alla selva. Con lei c’è un popolo feroce costretto all’esilio, che venera Rumia, la Madre dei Lupi.

Si fanno chiamare Ruminales.

Sono demoni, silvani, fauni? Nessuno sa dirlo, perché nessuno è mai vissuto abbastanza per poterlo raccontare, ma bramano una cosa soltanto…

La carne dei nemici vinti.

E mentre gli uomini cercano la gloria in terra, gli Dei si stanno già preparando al più selvaggio fra gli scontri.
Una battaglia immane. La regina di tutte le battaglie.

Con La regina delle battaglie prosegue la grande trilogia storica che riscrive le origini di Roma.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2020
ISBN9788830519886
La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2)

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    La regina delle battaglie (Romulus Vol. 2) - Luca Azzolini

    (N.d.A.)

    PROLOGO

    Campus Sceleratus, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    La lampada a olio si spense. Il buio le diede sollievo. Forse era trascorso un giorno, ma potevano essere passati anche mille anni da quando era stata sepolta viva. Ciò che restava di Ilia, nuda e ferita, si contorse sottoterra. La carne livida e sporca. Il viso scavato. L’odore della polvere in fondo alla gola. La lingua dura come un pezzo di cuoio che non era stato bollito a dovere. Invocò suo padre, ma la voce non le venne in soccorso. Provò a trascinarsi verso l’uscita reggendosi al tufo che le scavava la pelle sottile come un velo. Picchiò con il palmo della mano contro la lastra di pietra che la teneva prigioniera. Aiuto, pensò senza avere la voce per dirlo. Vi supplico, aiutatemi. V’imploro… qualcuno!

    Non rispose nessuno e non le rimase che pregare. Invocò Vesta perché volgesse lo sguardo dentro quella ferita polverosa incisa nel ventre della Grande Madre. No, lei non le avrebbe mai più risposto: sentiva ancora nella testa le urla delle vestali che l’avevano bandita per sempre. Pregò allora Giove, il padre degli Dei, perché sfiorasse il cuore di suo padre e le concedesse il perdono per tutti i peccati mortali che aveva commesso. Pregò Dite, signore del sottosuolo, perché la liberasse dalla tomba nel campus sceleratus dove l’avevano cacciata. E poi Plutone, re dell’Averno, perché avesse compassione di lei e non la trascinasse in quel gelido regno fatto di ombre. Infine, sfinita, parlò anche a Mors, flagello della morte, che con ali nere stava appollaiato sopra la sua sepoltura in attesa che il Fato si compisse. Ilia non ottenne risposta da nessuno. Era stata abbandonata da tutti, potenze divine o mortali che fossero. Anche l’uomo che aveva amato con tutta se stessa l’aveva lasciata. Rise avvilita. No, nessuno avrebbe avuto pietà di lei.

    Fu proprio allora che la lampada si riaccese.

    Ilia alzò il viso e sgranò gli occhi. Il riflesso di una fiamma fredda e scura le danzò nello sguardo accecato dal terrore. Era un fuoco capace di divorare il mondo. Un fuoco nero!, urlarono tutti i suoi pensieri. Di colpo non si ritrovò più in quella prigione di pietra. Una mano enorme aveva scoperchiato la fossa in cui era stata tumulata migliaia di anni prima e Ilia fu sollevata nel vento. Fu trasportata sulla cima di una collina. Non aveva mai visto quel luogo, ma una cosa seppe subito: non era un posto per i mortali. Era una terra oltre tutte le terre. La dimora di qualche divinità.

    Qualcuno aveva risposto al richiamo e aveva udito la sua preghiera. Qualcuno che io non ho chiamato… Polvere nera spazzò via i resti di una città in rovina. Ilia vide migliaia di cavalli ossuti, dalla carne a brandelli, correre sopra i campi di battaglia, soldati e guerrieri sollevarsi e cadere di nuovo, e rialzarsi ancora sopra le dure zolle del suolo per ricominciare a battersi finché più niente restava di loro, nemmeno il ricordo. Vide spade e lance spezzate, e vessilli logori strappati dalla furia del tempo farsi polvere e poi memorie.

    «La regina di tutte le battaglie» si sentì dire.

    Ilia portò una mano alle labbra. Proprio lì, in quel mondo nero, aveva ritrovato la voce.

    «Perché mi trovo qui? Dove sono?»

    Un vento caldo si alzò dietro di lei e spazzò via cenere e ossa, polvere e spade. Ilia si voltò e le nuvole si lacerarono. Il fuoco. Tutto quel fuoco! Vide mani di ferro e occhi di bronzo, e un volto smisurato dominare il campo di battaglia. Lo aveva già visto. Aveva sognato quel viso. Era lo sguardo di un Dio.

    «Chi sei?»

    Ilia non udì la propria voce. Era così inadeguata davanti all’eternità incarnata. Fu solo capace di tremare e accasciarsi a terra, sconfitta. Nessuna battaglia si poteva vincere contro di Lui. Si contorse fra le macerie, circondata da quel fuoco oscuro. Udì una risata capace di spaccare il cuore delle montagne e inaridire il mare. Si sentì fragile e sola, ma alzò ugualmente gli occhi su quel viso che non aveva nulla di umano.

    Aveva sfidato il mondo intero per rimanere fedele a se stessa e ora la paura non era più padrona del suo cuore.

    «Che cosa vuoi?» gridò.

    Il Dio rise davanti a quel gesto di sfida. Tre parole arsero nel cuore di Ilia. Parole come tuoni. Parole come bufere. Parole come lame di spade.

    Ora.

    Sei.

    Mia.

    I

    LUCUS A NON LUCENDO

    Bosco di Velia, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Il bosco è quel luogo in cui non vi è alcuna luce. È il lucus a non lucendo: il luogo che non è illuminato. Non avrebbe saputo spiegarlo meglio di così, ma Yemos sapeva di avere ragione. Da quando aveva scelto di seguire Wiros nel bosco, tradendo gli altri luperci, si era reso conto che quel vecchio detto imparato ad Alba Longa aveva più di un significato. Ci si poteva perdere, in un bosco, e non soltanto fisicamente. Si poteva perdere il senso del tempo e la ragione stessa, e smarrire quella luce che sapeva fare da guida.

    Yemos da giorni si sentiva davvero così, da quando viveva in quella penombra eterna che sembrava dare su un altro tempo, lontano e colmo di ricordi.

    Il sole era sorto e tramontato numerose volte da quando aveva seguito un impulso che adesso faceva fatica a spiegare: dare credito a Wiros e fuggire con lui. Gli aveva creduto. Perché, tuttavia, non avrebbe saputo dirlo. Sentiva che aveva ragione. Sentiva che diceva il vero. Di notte, però, sognava di continuo. Per i primi giorni aveva rivisto i luperci che aveva ucciso vicino al cimitero dei giganti. Sentiva le mani imbrattate del loro sangue e il rumore delle ossa che si rompevano. Avvertiva la fatica di battersi per la propria vita. Aveva dovuto farlo, eppure Yemos evitava di osservare il proprio riflesso nelle polle e nei fiumi quando ne incontrava. Non voleva vedere i lividi che portava sul volto e non osava guardare i segni sparsi sul resto del corpo. Aveva agito bene e aveva salvato una vita, quella di Wiros, ma questo non gli impediva di pensare a quelle che aveva spezzato. Cosa avrebbe detto suo padre di lui? E suo fratello? I loro occhi avevano infestato i suoi sogni tanto che, poco distante dal loro nuovo rifugio, in un anfratto nella roccia vicino a una sorgente d’acqua trasparente, Yemos aveva fatto un’offerta agli Dei. Aveva posto sopra una pallida lastra di pietra, accanto a una vecchia quercia, bacche di mirto, rami di ulivo, spina bianca e il cuore caldo dell’unico coniglio che erano riusciti a cacciare. Poi aveva chiesto agli Dei che la smettessero di invadere i suoi sogni con voci e presagi, ma non era stato ascoltato. Non mi rimane che l’esilio e questo insopportabile tormento, pensò. Fece un passo sulle foglie tenere che coprivano il terreno, attento a non fare troppo rumore.

    Aggirò un albero di fico e portò un dito alle labbra indicando qualcosa davanti a sé. Wiros, che stava alle sue spalle, assentì. Lì il bosco era più antico e tetro. Gli alberi erano cresciuti gli uni sopra gli altri in cerca di luce, ma Yemos aveva intravisto qualcosa. Una cerva.

    La caccia in quei giorni non aveva dato grandi soddisfazioni. Wiros aveva catturato solo un coniglio, mentre una delle trappole aveva consegnato un fagiano dalla livrea scura: poco per sopravvivere nella selva. La carne di una cerva, invece, li avrebbe sfamati per giorni.

    Tu va’ da quella parte. E con l’ascia di pietra che aveva in pugno, fece un cenno a Wiros. L’altro annuì. Ci troviamo su quel versante. Gli indicò un calanco roccioso che si spingeva poco più avanti nel vuoto di un dirupo. Era il posto adatto per accerchiare l’animale che stavano cacciando. Gli avrebbe impedito ogni via di fuga. Yemos vide il giovane di Velia sparire dietro i tronchi degli alberi.

    Per un istante si chiese ancora se avesse fatto bene a seguirlo e perché si fosse esposto così tanto per lui. Yemos non sapeva spiegarselo, ma sentiva che fra loro c’era una vicinanza. Un legame. Erano diversi, sì, ma anche uguali. Quel pensiero l’incupì e cercò subito di non pensarci. Portò una mano al polso, dove il vecchio bracciale di rame di suo padre luccicò nella fitta penombra del bosco. C’era stato qualcun altro nella sua vita passata che aveva sentito vicino nonostante le differenze. E ora è polvere dimenticata dagli Dei.

    Tenne l’ascia davanti al viso e aggirò un boschetto di erbe spontanee. Il ronzio degli insetti copriva ogni altro rumore. L’aria odorava di terra umida e menta, di foglie a lungo rimaste a macerare e legno umido che si sfaldava lento. Scostò un ramo e si chinò a cercare tracce sul suolo. Le vide poco più avanti: c’erano delle impronte. Alcuni arbusti erano stati strappati da poco. Le foglie e i rami lacerati erano ancora umidi. No, non si era sbagliato. Era vicino. Yemos strinse più forte l’ascia e aggirò il tronco di un sorbo. Era sicuro che non mancasse molto alla sua preda.

    E la vide. Ma non era la cerva che inseguiva, bensì un’ombra. Il cuore gli balzò nel petto e l’ascia gli scivolò di mano. Era una forma scura che si spostava fra gli arbusti. Si aggirava fra un ramo e l’altro nascondendosi negli incavi dei tronchi, sotto i rovi e tra le foglie. La poca luce che filtrava dalle cime degli alberi non la disperdeva, così come la luna non sapeva disperdere il buio assoluto di una notte d’inverno. L’ombra era reale. Yemos si alzò e la fissò a occhi sgranati. C’era una voce. Era nell’aria e pareva chiamarlo. Per un attimo soltanto, gli sembrò di intuire anche un viso in mezzo a tutto quel buio. Un viso che conosceva.

    «Aspetta» sussurrò, ma l’ombra scivolò via. «No. Fermati. Ti prego.» Yemos prese a correre nel sottobosco. La cerva poco più avanti se ne accorse e spiccò un balzo per svanire in una macchia di rovi. Nemmeno la vide fuggire. Continuò a inseguire l’ombra. Non dava retta a Wiros che lo chiamava. «No, non te ne andare!» L’ombra raggiunse un torrente e planò sul pelo dell’acqua. I riflessi della luce scivolarono sulla corrente e la inghiottirono. L’ombra scomparve a quel modo, mentre Yemos la fissava dalla riva con il respiro spezzato. Svanita. Si accasciò sopra l’erba alta. Era stanco e sudato.

    «Non c’è nessuno, Yemos» gli disse Wiros quando lo raggiunse.

    Eppure lui sapeva che cosa aveva visto. Non si sbagliava. Era lì. Era sempre lì. Lo teneva d’occhio e lo seguiva. Lo avrebbe fatto finché non si fosse deciso a occupare il posto che gli spettava nel mondo, Yemos ne era certo.

    Era lo spettro di suo fratello.

    Enitos.

    *

    Il braccio era gonfio, orribile a vedersi. Lo immerse nell’acqua, e il calore che sentiva bruciargli dentro la carne trovò un momento di refrigerio. La pelle era tesa e con le vene in rilievo. No, non era un bel guardare. Nella luce incerta del sole sorto da poco, Appius sollevò gli occhi e controllò il bosco che respirava attorno a sé. Si era perso. Aveva corso tanto a lungo che non aveva idea di dove fosse finito. I giorni non avevano più alcun significato. Si trascinavano e lui ne era inghiottito. La febbre non gli dava pace. La sera saliva fino a farlo cadere in un sonno pieno di voci e d’incubi. Presto, lo sapeva, non si sarebbe più svegliato.

    Sarebbe voluto tornare a Velia, o almeno quella era stata la sua prima intenzione, finché non aveva capito di essersi perso. Non avrebbe rivisto suo padre e sua madre. Non sarebbe diventato un guerriero degno di un tale titolo. Lo sapeva, anche se non voleva dare ascolto a quella voce che gli colava scura fra i pensieri. Non avrebbe trovato l’uscita dal sacro bosco. Il bosco, oh… è la casa di ogni spirito maligno. La selva pareva prendersi gioco di lui con i suoi rumori e quegli insetti che gli davano il tormento notte e giorno. Lo seguivano sapendo che presto sarebbe stato un lauto pasto: un banchetto degno di una libagione in onore dei morti.

    Non c’era via d’uscita da lì. La macchia era sempre uguale a se stessa, eppure costantemente diversa. Non c’era una direzione. Non c’era una via sicura da prendere. Appius aveva creduto di potercela fare da solo, ma si era sbagliato. Aveva camminato con il braccio rotto per un giorno intero finché il dolore non lo aveva costretto a fermarsi dentro il tronco di un albero spaccato dalla furia del cielo.

    Era rimasto lì due giorni. Aveva bevuto solo un po’ d’acqua e masticato foglie amare come fiele, finché non si era sentito osservare. C’erano degli occhi in quel bosco dannato. Occhi fra i rami. Allora si era deciso a lasciare il rifugio e si era messo a correre fra le pietre e i rovi. Aveva tentato di tornare sui suoi passi per cercare gli altri luperci e avvertirli del pericolo che stavano correndo. Voleva raccontare loro quello che aveva visto. Dalla morte di Hostus al tradimento di Yemos che li aveva aggrediti con una furia indicibile, fino a Wiros. Sì, anche lui, quello strano giovane con la V rovesciata sul collo che portava morte e sangue su tutti loro. Deve essere un maledetto silvano o un fauno, pensò immergendo di nuovo il braccio dolorante nella polla. È una creatura nata in questo bosco dannato, dove la gente muore fatta a pezzi.

    Appius scosse la testa. Delirava. Guardò il proprio riflesso specchiarsi nella sorgente. Aveva gli occhi cerchiati di nero, così scuri e incavati che gli s’infossavano dentro il cranio rasato. Ed era magro. Scheletrico. Non era mai stato tanto pallido in vita sua. Eppure era il braccio a dargli le preoccupazioni maggiori. La carne si era scurita e gonfiata al punto da tendergli le vene sotto la pelle. Scottava al tatto come se all’interno un fuoco ardesse vivo. Gli stava mangiando la carne. Lo stava consumando. Non era un buon segno. Non sarebbe mai guarito se qualcuno non si fosse preso cura di lui. Il giovane di Velia chiuse gli occhi e pregò il Dio delle Battaglie, il potente Marte, perché avesse pietà. Si era affidato a lui per tutto quel tempo e non avrebbe smesso di credere nella sua protezione. Doveva credere.

    Aprì gli occhi e l’acqua della sorgente mandò un riflesso. Gli insetti si muovevano pigri sopra l’increspatura delle onde. Appius sfilò il braccio e guardò sotto il pelo dell’acqua. Sul fondale c’era qualcosa, oltre le canne palustri e fra la ghiaia. Sembrava una pietra bianca coperta di muschio, ma non lo era. Era il teschio di un animale che ghignava sotto un velo di alghe. Poi ne vide un secondo e un terzo. Appius impallidì. «Dove sono finito?» chiese al bosco.

    E il bosco rispose con una voce ruvida. Sei a casa.

    Non fece in tempo a voltarsi che era già sopra di lui. Gli artigli si chiusero attorno alla gola di Appius. Il luperco lanciò un solo grido soffocato. La sorgente bevve il suo sangue.

    Poi la selva tornò a tacere.

    Ladra di luci e di vite.

    II

    ASCESA DALL’AVERNO

    Alba, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Due soldati stavano di guardia alle mura di Alba Longa. La notte si avviava con rapidi passi al mattino e un cielo di metallo gravava sui capanni della capitale delle Terre dei Trenta. La nebbia non era mai sembrata tanto densa ai due equites avvolti nei loro mantelli. Era simile a un velo teso sopra la città. Adesso che i sovrani della Lega Albana erano tornati alle loro terre, che un nuovo re sedeva sul trono e che la pioggia era tornata a bagnare i campi, le settimane trascorse sembravano solo un incubo lontano. C’erano state davvero più di quaranta albe di sole e siccità? Erano morte tutte quelle persone e tutti quegli animali? Era davvero stato cacciato per questo il vecchio re Numitor? Non sembrava possibile, eppure era accaduto. Da ogni angolo delle Terre dei Trenta erano giunti signori e sovrani a celebrare l’antico rito voluto dal Collegio degli Aruspici.

    Il caldo ora era un ricordo distante, o così pensava il più vecchio degli uomini che stavano di guardia ai cancelli d’ingresso della città. Si strinse nel mantello di pelle logora e si schiarì la gola.

    «Pare che abbiano aperto le porte della fredda città dei morti, uhm?» farfugliò, sputando un grumo di saliva verdastra.

    Stava masticando foglie amare per passare il tempo. Della veccia, o alloro o dragoncello. L’altro soldato non ne aveva idea, perché i suoi occhi erano concentrati sul buio. Spostò la picca nell’altra mano e socchiuse gli occhi. C’era qualcosa in quella notte fragile che si andava diradando. Un rumore. Un suono. No, non proprio.

    «È uno scalpiccio» mormorò il soldato, mentre l’altro si voltava a guardarlo. Non poteva essere soltanto la sua immaginazione. Lo sentiva attutito dalla foschia proprio davanti a lui. Dei passi strascicati a fatica. «C’è qualcuno» disse.

    «Cosa?»

    «Ma non lo senti?»

    «No.»

    «Ascolta.»

    L’altro scrollò le spalle. «Bah, io non sento un bel niente.»

    «C’è qualcuno, ti dico.»

    Si staccò lento dalla palizzata che proteggeva la città e fece qualche passo incerto nella foschia. Non era così densa nemmeno in inverno, quando il freddo faceva ghiacciare le pozzanghere sul sentiero di malta. Raggiunse il limitare del bosco che circondava la città. Il sole era un’idea lontana. Solo un baluginio di fuoco tingeva di rosso la nebbia facendola diradare a poco a poco.

    Quel suono, eccolo di nuovo. Stentato. Era più vicino, però. Ora era proprio davanti a lui, non s’ingannava.

    «Chiama gli altri» ordinò all’uomo alle sue spalle.

    «Vedi qualcosa?»

    «Forse.»

    «Dove?»

    Scosse la testa. «Non ne sono sicuro…»

    Indovinò per un attimo una forma nella nebbia scarlatta, ondeggiava simile a un miraggio nelle prime luci dell’alba. Una volta, presso un campo di battaglia sul fiume Anio, durante un saccheggio nelle terre dei Marsi, dei soldati gli avevano raccontato degli spiriti che venivano a chiedere udienza ai viventi, pronti a infestare i loro sogni se non avessero dato loro ascolto. Lui però non ci aveva mai creduto. Non credeva a niente del genere. Sapeva bene che non esistevano spettri o demoni, né altre creature maligne. Non aveva mai visto un silvano in vita sua, né un fauno o una furia, e non si era mai imbattuto sulla sua strada nel volere degli Dei. E se qualcosa di oscuro o di maligno esisteva al mondo, era opera degli uomini che lo governavano. Tutto il resto erano soltanto sciocchezze che i sacerdoti narravano per conquistarsi la cieca obbedienza degli stolti.

    Eppure quel giorno avrebbe cambiato idea.

    Lei stava lì, in piedi, proprio davanti al soldato. Era più pallida della luna o del bagliore delle stelle. La pelle sembrava d’argento puro. Contrastava con le mani sporche di sangue che si era raggrumato attorno alle unghie spezzate. Le dita erano scorticate fin quasi ai palmi. Aveva scavato? Pareva di sì. Aveva gli occhi fissi nel vuoto, bui come le voragini al centro della terra, da dove era di certo uscita per venirgli incontro: risorta dalle tenebre. Tutto in lei gridava orrori indicibili. Il corpo nudo coperto di ferite e macchiato dai lividi. Aveva il cranio rasato e tagli slabbrati sulla cute sporca. Il ventre scuro e teso sembrava aver partorito la notte e quella nebbia che non si alzava più nonostante il sole l’avesse tinta di un lugubre cremisi.

    L’uomo fece un passo indietro supplicando tutti gli Dei che lo risparmiassero da quella visione.

    «La vedi, ora?» gridò all’altro soldato di guardia.

    Sì, ora sì. La vedeva, e si affrettò a fare un gesto per esorcizzare il male. Doveva essere discesa nell’Averno e poi, dopo avervi soggiornato, era tornata fra i vivi. Non c’erano altre spiegazioni, perché nessuno aveva mai fatto ritorno dalla necropoli fuori le mura di Alba Longa.

    «Chi sei?» sbraitò il soldato alla figura immersa nella foschia. «Parla!»

    Non gli rispose. Fece un altro passo stentato e la nebbia vorticò sopra di lei. Si aprì come se la mano di una divinità amorevole alla fine avesse deciso di svelare al mondo la sua più cara creatura tornata ai vivi. La ragazza aveva le labbra spaccate e lacrime incrostate di terra sul viso. Osservò il soldato e sorrise. Non ci fu nulla di allegro in quel gesto. Fu uno squarcio nero nelle prime luci del giorno. Tese un braccio e con la mano indicò la città di Alba Longa. Fu tutto ciò che fece prima di cadere a terra stremata.

    Era tornata a casa.

    Ed era viva.

    Era Ilia.

    *

    La stavano lavando con del latte di capra. Cumara immergeva la pezzuola nel bacino di rame e con lente carezze passava il panno sulla pelle di Ilia. Il latte scivolava in pallide lacrime sulle croste di sangue seccato, come sopra i tagli vivi e sul fango rappreso. Portava via tutto, rivelando sua figlia.

    Gala rimase immobile sulla soglia della stanza che le aveva riservato nella grande Casa del Re. Un tempo quella camera era appartenuta a Silvia, la figlia del vecchio re Numitor, ora in esilio. C’erano ancora molte delle cose sue, là dentro: tuniche, calzari, mantelli. Lasciò che il suo sguardo naufragasse su tutto ciò che conteneva, meno che su sua figlia. La regina fece sì che i pensieri indugiassero sui fatti comprensibili della vita. Cose tangibili, vere, e che poteva toccare. Non osò soffermarsi su ciò che non sapeva riconoscere né afferrare: come la presenza di Ilia in quella stanza, ancora viva nonostante la sepoltura. Quale Dio si sta prendendo gioco di noi in questo modo? Non sapeva se essere felice o meno di quel ritorno. Com’era sopravvissuta tanto a lungo nella fossa? Com’era uscita dal campus sceleratus, dove l’avevano seppellita quasi sei giorni prima? Gala non ne aveva idea. Sapeva solo cosa avrebbero detto le genti di Alba Longa. La figlia del re è tornata dalla morte. È un segno. Gli Dei ci stanno parlando!

    Tutto si trasformava in un segno. Perché tutto era un segno. Lo aveva imparato a sue spese molti anni prima e non l’aveva più scordato. Sentiva fuori del capanno le voci dei curiosi inseguirsi e sussurrare tutta la loro meraviglia. Alio renascitur ore! Alio renascitur ore! dicevano, cercandola con lo sguardo. La notizia si era sparsa alla svelta. A metà mattina c’era già molta gente che desiderava vedere sua figlia, Ilia, colei che era ritornata dall’Averno e aveva sconfitto anche la nera morte.

    Gala sentì un brivido lungo la schiena. Presagi. Ovunque. Suo marito Amulius avrebbe dovuto spiegare anche questo alla somma vestale del tempio della Dea Vesta: perché sua figlia, nonostante il suo empio sacrilegio, era viva. Proprio colei che aveva spento il sacro fuoco nel Grembo della Madre. Era intollerabile che vivesse.

    Auria entrò nella stanza e fece un inchino a Gala, poi mostrò alla regina di Alba Longa l’abito bianco che l’aveva mandata a prendere. Assomigliava in tutto e per tutto a un abito da vestale. Era una tunica lunga fino ai piedi, di stoffa pieghettata, decorata sugli orli da un semplice disegno geometrico. Niente di appariscente. L’abito di un’ancella timorata della Dea. In fin dei conti, questo doveva essere. Ilia non aveva altro scopo nella vita se non servire Vesta. Al tempio dovranno riprenderla, che lo vogliano o no. Dovranno farlo.

    Amulius entrò in quel momento. Varcò la soglia della stanza, ma non si fermò accanto a Gala né le disse nulla del suo incontro con Maxima al tempio della Dea. Raggiunse Ilia e fece cenno a Cumara di andarsene. Con un rapido gesto del capo l’ancella posò la pezza nel catino pieno di latte e ubbidì, sparendo assieme ad Auria per lasciarli soli.

    Gala vide suo marito chinarsi proprio davanti a Ilia. Avevano fatto chiamare il Collegio degli Aruspici. Presto sarebbero giunti per visitare la

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