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Come polvere al vento
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Come polvere al vento

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Chi, da bambino, vedendo un manichino nella vetrina di un qualche negozio non si sarà chiesto, sotto sotto, se anche lui ha un’anima?
Intrigante quesito, nella sua apparente ingenuità, cui questo romanzo cerca di dare una risposta, facendo proprio di un gruppetto di manichini, prigionieri di un grande magazzino, i suoi veri protagonisti, i quali, assorbendo e riflettendo specularmente le alterne vicende, i drammi umani con cui si interfacciano, diventano, per sé e per gli altri, catalizzatori di una spasmodica ricerca di verità.
Verità che coincide soprattutto nella tentata scoperta della propria identità, operazione questa resa tanto più complessa, quando non addirittura vana, dall’affollarsi di immagini illusorie che, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, hanno finito per disorientare l’umanità moderna al punto di doversi porre l’annosa domanda: Ma chi sono io?
I manichini, inconsapevolmente, assumono i tratti e gli umori degli umani, avventori e commessi, con cui vengono in contatto. Ed è soprattutto di notte, quando il negozio è chiuso, che essi si sentono liberi di sciogliersi dalla fissità delle loro rispettive pose, e di dare sfogo ai loro sentimenti. Capeggiati da un vecchio manichino, che li istiga alla ribellione e alla fuga, vivono una breve stagione illudendosi che una fuga dalla realtà, e dalla prigionia esistenziale in cui ognuno di noi è rinchiuso, sia davvero possibile. La loro arma vincente: l’immaginazione; il loro obiettivo: la terra promessa. Ma questa fuga e questa lotta per la libertà non saranno prive di nuove tragedie, di nuovi soprusi, di nuove peripezie a cui pochi sopravviveranno.
Il romanzo è cadenzato dal ritmo, a volte forte a volte lento, della pioggia che cade incessantemente, e che finirà per trasformarsi in una massa d’acqua di proporzioni bibliche che agirà a un tempo da forza punitrice e di riscatto.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2020
ISBN9788832927511
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    Come polvere al vento - David Leone

    Gautier

    1

    Tutto sapeva di un inverno precoce in quella notte fredda e tempestosa che sembrava procedere dai confini di un altro mondo. Anche il vento, che con il suo impeto convulso creava mulinelli vorticosi sprigionando tutt’intorno note stridenti e confuse, parlava una lingua sconosciuta. L’aria, come fosse sotto uno strano incantesimo che la rendeva indifferente alle stagioni, era diventata opaca e pesante come pece di carbon fossile, mentre il cielo, denso e senza stelle, pareva un nastro scuro, avviluppato da un sudario di nuvole plumbee che fluttuavano sicure come una schiera di cavalieri dai larghi turbanti. Giù, a valle, un crepuscolo nebbioso cominciava a ergersi dalle colline a oriente, come uno spirito languido ed estenuato che si muove nell’estrema profondità dell’ombra. La città, adagiata al centro di una conca, pareva galleggiare in un vapore lattiginoso, grigiastro, che cancellava ogni contorno e distinzione fra oggetti e figure. Tutto era confuso e sfocato: le case-torri avvolte dall’edera; le statue dei cittadini illustri; gli appartamenti moderni con le persiane chiuse, i tetti rossi; le fronde arcuate dei pini; le foglie ingiallite, rese ancora più viscide dalla pioggia; le tortuose vie, le ampie piazze, gli antichi ponti.

    Nella foschia umida e spettrale, le lancette dell’antico orologio della Torre di Arnolfo segnavano sette minuti alla mezzanotte con un ticchettio cadenzato, inesorabile e cupo, come fosse un pietoso lamento. La luce notturna aveva assunto una tonalità di grigio sordido, basso, che lambiva i tetti sbilenchi delle case disposte in file armoniose e simmetriche. Eppure la città non era ancora immersa del tutto nel buio profondo della notte: i lampi del temporale, che guizzavano come un agile gioco di spade luccicanti, illuminavano, a tratti intermittenti, gli antichi edifici e i viottoli sfalsati del centro storico. Nessuno era più fuori; ovunque regnava una sonnolenza ombrosa. Attorno alla stazione centrale, gli alberi garrivano come sotto i colpi di un’ascia; un po’ più a ovest, nei solchi scavati dall’acqua piovana, che sgusciava sfavillando lungo gli argini del fiume, la terra cominciava a sfaldarsi in tanti piccoli rivoli torbidi e serpeggianti; uno stormo di aironi bianchi, appollaiati sulle zampe, si levò pesantemente nell’aria, giù per il fiume. Per un attimo, il luogo fu privo di ogni vita; era come se gli unici rumori, che ancora echeggiavano in quella notte senza luna, fossero la monotona litania della pioggia, il ruggito del vento e il rombo grave e prolungato dei tuoni in lontananza che risuonavano minacciosi come grandi tamburi di guerra.

    Tum, tum, tum…

    Psst! Ci sei?

    Ci fu un breve silenzio.

    Ehi, sto dicendo a te, Brad!

    Chi sei?

    Sono io?

    Io chi?

    Ma insomma, la vuoi smettere di fare lo scemo. Sono io, Shirley!

    Scusami, non ti avevo riconosciuta. Ma che ci fai qui?

    Perché non lo chiedi all’impiegata del turno pomeridiano. Si vede che non sapeva dove mettermi e prima di chiudere il negozio ha deciso di ficcarmi qui, distesa per terra proprio dietro di te. Che stronza! Be’, almeno ho una bella vista del tuo sedere! Mi poteva andare peggio.

    Lui rise, un riso leggermente beffardo.

    Che hai da ridere?

    Non posso più nemmeno ridere per i fatti miei, adesso?

    Be’, ridi pure se vuoi, non me ne importa un fico secco!

    Calmati. Non c’è bisogno di alzare la voce.

    E chi ci sente? Non vedi che siamo soli?

    Brad non rispose subito; guardò davanti a sé, con occhi imbambolati, e per un breve istante fu ingannato dal proprio riflesso nello specchio per clienti. In quell’immagine tersa, che solitamente rispecchiava un sorriso misterioso, affascinante e dignitoso, gli parve invece di vedere, per la prima volta, una sagoma tragica, stupida, spenta; una sagoma i cui lineamenti sembravano orrende pieghe d’angoscia che riflettevano antichi tormenti, mai pienamente assopiti. Quello sguardo così estraneo e familiare a un tempo lo fece trasalire. Provò un disagio lieve e angoscioso; era come se si sentisse improvvisamente abbandonato. Cercò allora di farsi animo guardando altrove con la coda dell’occhio, come fosse alla ricerca di un oggetto misterioso in quella sala piena di un certo odore di ipoclorito di sodio. Un odore che sapeva di aver già sentito altre volte in altre sale uguali. Nel mezzo delle altre vetrine, riuscì a scorgere lo scintillio aureo di bottiglie di profumo di marca che emanavano un vago desiderio di ostentata opulenza; un mosaico di abiti da uomo e da donna dai gusti raffinati, affastellati su delle mensole in legno pregiato; le nuove collezioni di scarpe e borse per i clienti più eclettici; un filare di cappelli dai colori sobri e delicati che pendevano dai loro sostegni. Sei patetico, è solo un’illusione: forse, quello strano riflesso è solo un vago miraggio, un’ombra sfuggente, pensò, lievemente rincuorato. I suoi pensieri tornarono allora a quella realtà noiosa, ripetitiva, tristemente prevedibile. Comunque ha ragione lei, si disse con aria assorta, non c’è nessun altro in questa sala.

    Caspita, Brad, hai veramente un gran bel sedere.

    Insomma, la vuoi smettere di blaterare.

    Se solo potessi avvicinarmi ancora un po’, non sai quanti morsi gli darei.

    Preferisco non saperlo, brontolò lui, maledicendo l’impiegata vespertina che l’aveva lasciato tutto nudo quella sera, forse per evitare che il nuovo completo di Armani si potesse sgualcire o magari per paura che finisse nelle mani di qualche ladro.

    Fuori, i lampi continuavano a illuminare la notte: la nuvolaglia del cielo non sembrava avere alcuna intenzione di schiarirsi; la pioggia si era fatta fresca e pungente mentre un’umidità penetrante risaliva dalla terra intrisa.

    Senti che pioggia, sbottò Brad in tono disgustato.

    Pioggia? A me sembra un diluvio, rispose Shirley.

    Forse tra poco smetterà.

    Non credo proprio. Ho l’impressione invece che andrà avanti così tutta la notte e forse pioverà anche domani.

    Sei sempre così pessimista, commentò Brad con una smorfia.

    "Pessimista un corno! Sai quanti dei nostri dicevano la stessa cosa il tre novembre del ’66? Non ci succederà niente, il sole tornerà a splendere, andrà tutto bene, vedrete, abbiate fiducia, domani farà bello, tutto tornerà come prima! E lo sai, vero, che fine hanno fatto il quattro novembre?"

    Brad rimase in silenzio, come se volesse trincerarsi per sempre in una solitudine altera, che lo tenesse distante da tutto e da tutti. Certo che sapeva che fine avessero fatto i suoi simili ma, in quel momento, preferì non rispondere: l’unica cosa che desiderava era che quella sua compagna, così petulante e noiosa, lo lasciasse in pace, che qualcuno la facesse tacere e che quella notte inquieta passasse velocemente, come una stella cadente.

    "Se preferisci non ricordare, caro mio, lascia che te lo dica io, allora: furono tutti travolti e spazzati via dalle acque melmose dell’Arno. Non si salvò nessuno… hai capito? Nessuno."

    Be’, dal momento che noi due stiamo al secondo piano, non abbiamo nulla di cui preoccuparci, scattò Brad, con un sarcasmo squillante; la sua veemenza colse Shirley alla sprovvista.

    Che stronzo che sei! Pensi sempre e solo a te stesso.

    Brad, ancora una volta, decise di non rispondere a quella provocazione, che gli sembrava una strana via di mezzo tra un capriccio e un indizio d’amore. Rise, guardò di nuovo davanti a sé e fece un cenno invisibile di stizza quando rivide quella sagoma dall’aria tragica, stupida e spenta, che continuava, imperterrita, a scrutarlo con occhi vacui, freddi, asettici come due lastre di ghiaccio trasparente. Questa volta provò una forte irritazione e un’ansia irragionevole: si sentì come un perfetto idiota che prova a cercare, invano, in fondo a un riflesso immutabile, un segno di vita qualunque, una qualche familiarità, una fonte di calore. Ma c’era solo freddo in quel riflesso. E vuoto. Non posso essere io, quello lì! si ripeteva, cercando di scacciare quel pensiero morboso, inopportuno, e di allontanarlo per mezzo di altri pensieri più equilibrati, più sani. Tutto inutile: capì bruscamente, come fosse in mezzo a un tiro incrociato, che quel pensiero non era più solo un vago timore, bensì una nuova realtà che, ogni volta, gli ritornava come fosse un boomerang e si fermava proprio lì, davanti a lui, riflessa sempre nella sua stessa immagine così patetica che lo faceva inorridire e lo lasciava stanco e tramortito, con la testa pesante e il respiro strozzato.

    Invece sì, sei proprio tu! gli disse, d’improvviso, l’immagine riflessa, che sembrava parlare a bocca chiusa, le labbra immobili, come fosse un ventriloquo.

    No, sei solo un maledetto impostore! Vattene via, avrebbe voluto gridargli, ma non ne ebbe il coraggio. Fino a quel momento, aveva creduto di combattere contro un essere malvagio, ma ora fu assalito da un sospetto ancora più terribile.

    La voce rise, diabolica, poi riprese a parlare con tono trionfante: Devi rassegnarti, ormai non c’è più nulla da fare! Cosa ti fa credere che puoi aspirare a qualcosa di meglio? Credi a me, non hai bisogno di vivere per davvero; vivere per davvero significa soffrire… eppure, il dolore non è un fatto compiuto… sei ancora in tempo, ti puoi ancora salvare, basta che ti rassegni… non cercare di vivere…

    Non è possibile, Brad stava quasi per urlare, ma le parole pendevano dalla cavità della sua bocca come fossero stalattiti.

    Non è possibile, ma è così, quindi te lo ripeto: meglio rassegnarsi, aggiunse la voce piatta e crudele; poi rise di nuovo, un ridere che sembrava un’eco evanescente ma tangibile.

    Brad sentì una rabbia antica e il desiderio di piangere sulla propria impotenza, sulla crudeltà di quella voce impassibile, sulla tragica immobilità di quel viso riflesso che pareva galleggiare, come un corpo senza vita, sul fondo di quello specchio per clienti. Vivere per davvero, non vivere, soffrire, non soffrire: e se avesse ragione lui? E se mi rassegnassi e basta? si chiese Brad, confuso, come se fosse diventato incapace di riconoscere la verità oggettiva da quella solo apparente. No, certo che non ha ragione, è solo un impostore! Vattene! Lasciami in pace! Perché mi tormenti così? avrebbe voluto gridare ancora una volta, mentre sentiva crescere dentro di sé l’istinto violento di colpire quella strana apparizione, qualunque cosa fosse, che aveva osato canzonarlo con aria insolente e beffarda. Sentiva che voleva (e che poteva!) uscire da quel tormento, sbucato, tutt’a un tratto, davanti a lui come un’ombra dal buio. Uno strano principio adesso lo animava: covava la sua vendetta e, al tempo stesso, desiderava solo tornare al proprio isolamento…

    Certo, sarai anche uno stronzo, ma hai proprio un gran bel sedere, riprese Shirley.

    Ora basta, mi hai veramente stufato! sbottò lui.

    Scusami, non volevo farti arrabbiare, mormorò lei con tono affabile e grazioso, come se si volesse far perdonare. Sai, l’altra sera ho sognato che eravamo su una ripa, circondata da ciliegi e querce, tutt’intorno l’erba era folta e umida e il sole stava tramontando davanti a noi; all’inizio tutto era deserto e tranquillo, non c’era nulla di allarmante poi si è alzato il vento, portando qualche sgrullone di pioggia…

    Ancora con questa pioggia, lui la interruppe, stizzito.

    Lasciami finire, sbottò Shirley, poi, con voce leggermente emozionata, riprese il suo racconto onirico come fosse una goffa scolaretta: Il cielo si scurì e tutto attorno a noi scomparve, d’improvviso, come ingoiato dalle tenebre, c’era solo desolazione dopo desolazione di pietra, fango e acqua… poi qualcuno cominciò a gridare che c’era un pericolo e che stava per arrivare una qualche sciagura, dovevamo andare via, tutti quanti, gambe in spalla, prima che fosse troppo tardi. Be’, adesso non ricordo esattamente tutti i dettagli, ma qualcosa di veramente brutto avvenne e la maggior parte dei nostri compagni sparì nel nulla, alla fine eravamo rimasti solo tu e io, e volavamo alti, nel cielo, verso una terra splendida e misteriosa, punteggiata di alte montagne; ricordo anche che c’era una città, attraversata da un fiume che risplendeva la luce del cielo…

    Lui la schernì, quasi istintivamente, poi esclamò: Vedo che ti piacciono le storie a lieto fine, ma la vita, quella reale, non funziona così.

    Be’, si dice che il sogno spesso presagisca e sorpassi la realtà.

    Sono sciocchezze!

    Brad, sei proprio antipatico quando ti comporti in questo modo!

    Insomma, la vuoi smettere di chiamarmi Brad! Non è il mio nome, e tu lo sai. Così come lo sanno tutti gli altri. E tu non sei Shirley.

    Sì che lo sono.

    No, il tuo vero nome è manichino numero di serie: 2058 011 DONNA S006, ruggì.

    Non è vero.

    Sì, invece. Basta che guardi la tua targhetta… si trova in basso a destra, proprio sulla tua gamba.

    Smettila! gli urlò Shirley, impaurita e angosciata; in quel momento avrebbe pianto volentieri se solo il suo corpo in polipropilene glielo avesse permesso. La tensione era alle stelle.

    E il mio vero nome, te lo ricordi adesso?

    Lasciami in pace, ti prego.

    Be’, se preferisci te lo posso ricordare io…

    Ti ho detto di lasciarmi in pace! Ma insomma, perché mi tratti così? Cosa ti ho fatto? lei lo interruppe con tono supplichevole e irresoluto.

    Lui non rispose: la ascoltava, impassibile, mentre lei piagnucolava, immobile, distesa per terra. Pianse per qualche istante, senza lacrime o singhiozzi, poi anche lei preferì chiudersi in un silenzio ermetico e profondo.

    Meno male, finalmente si è calmata, si disse lui, soddisfatto. Quella fredda quiete senza intimità non lo infastidiva affatto, anzi, si sentiva finalmente libero di immergersi nuovamente nei suoi pensieri, libero di dire quello che voleva senza essere assillato da quella rompiscatole di Shirley che ora sembrava sprofondata in un sonno senza sogni; poi guardò nervoso verso lo specchio e, questa volta, notò, sollevato, che quella strana apparizione di prima si era finalmente dileguata come nebbia al sole. Eppure, quando tutto pareva ormai essere tornato alla normalità, gli sembrò di sentire un brivido corrergli lungo la schiena come fosse una biscia invisibile. Io come mi chiamo? si chiese, con tono incerto, nell’oscurità placida della sala. Quella domanda assurda e irragionevole ballava nella sua testa in vetroresina; sapeva che non si trattava di una semplice pignoleria semantica, né di un ridicolo impulso. Tacque. Esitò un breve istante come se dovesse risolvere un rompicapo; poi, d’improvviso, una strana luce sembrò illuminare la sua mente, il suo piedistallo e il suo numero di serie, impresso in caratteri maiuscoli e in grassetto: 1995 213 UOMO X133.

    Lo ripeté fra sé e sé come se stesse salmodiando un’antica orazione, dimenticata da tutti per molto tempo e da poco riscoperta. Tutt’a un tratto si immaginò vicino a un abisso immaginario, e dall’orlo di quell’abisso senza fine sentì il desiderio, incalzante e prorompente, di urlare al mondo intero che quella sua targhetta non era solo un segno di riconoscimento o un tratto distintivo, ma anche un tatuaggio in bianco e nero, una specie di marchio da bestiame che racconta la sua triste storia, il segreto della sua esistenza. Era il Destino. Una strana irritazione cominciò a crescere dentro di lui, soffocandolo per un istante; poi le parole, come un rigurgito acido, si fecero strada attraverso quell’ansia sconfinata che l’opprimeva: Io sono 1995 213 UOMO X133. Ecco come mi chiamo! Quindi smettetela tutti quanti di chiamarmi Brad.

    2

    Buon giorno, Brad! Ma come siamo belli oggi. Scusami se ieri sera ti ho lasciato senza vestiti. Ecco, aspetta che adesso ti rimetto il nuovo completo di Armani. Nessun cliente resisterà al tuo fascino, né alla qualità di questo splendido tessuto, disse la giovane impiegata con voce ferma; poi ammiccò al manichino mentre gli aggiustava un doppiopetto grigio gessato e una cravatta di seta rosso scuro.

    Letizia, alle volte sei proprio buffa. Parli a quel fantoccio come se fosse un uomo in carne e ossa, le mormorò una collega, lì vicino; poi la guardò con un’espressione agrodolce.

    Letizia si tirò una ciocca di capelli all’angolo della bocca e la mordicchiò con aria vagamente pensierosa. Hai ragione, ma sembra proprio vero.

    Sembra, ma non lo è, le rispose Luisa e, a mo’ di conferma, dette un colpetto sul torace del manichino, producendo un rumore secco e vuoto.

    Letizia fece spallucce, osservò intenerita il nasino perfetto, gli zigomi squadrati e i pettorali scolpiti del manichino, poi si schiarì la gola e, con leggero imbarazzo, ammise: Lo so, ma alle volte è come se non desiderassi altro che si trasformasse in un essere umano e che fossimo io e lui, da soli. E mentre scandiva quelle parole, che le uscivano dalla bocca come un tenero cinguettio, la giovane impiegata sognava a occhi aperti di essere in compagnia di Brad e si rivedeva con lui, felice e spensierata, nel film Vento di passioni; eccola, che montava in sella con il suo aiuto, per poi sfrecciare su un purosangue inglese inseguendo il suo amato attraverso le vaste praterie del Montana che si perdevano a vista d’occhio in tutte le direzioni; e poi, via di nuovo, sempre insieme al galoppo, fianco a fianco, su percorsi impervi, nascosti nelle pendici rocciose del monte Timpanogos, e attraverso boschi e sentieri scavati su ripide pareti di arenaria che brillavano al sole come intensi falò. Pensava anche a come sarebbe stato romantico osservare, con Brad al suo fianco, la lenta transumanza delle mandrie, condurre il bestiame al pascolo, inseguire vitelli, addomesticare cavalli selvaggi e cavalcare tori, costruire recinti, curare le scuderie, passare una passionale notte d’amore in un grazioso chalet di montagna o magari in un tepee indiano in tela di cotone, di color bianco puro come un manto di neve appena caduta; e intanto lei sorrideva, pensando a come sarebbe stato piacevole vivere tutte quelle esperienze con il suo amato Brad, loro due, da soli, lontani dall’ignoranza della gente, dalle inimicizie, dalla noia, dall’intolleranza del prossimo, dalla monotonia, dalle ristrettezze della vita quotidiana.

    Credimi, cara mia, non sei l’unica. Da uno così mi farei scopare anch’io in tutte le posizioni immaginabili, aggiunse Luisa con tono spavaldo, mentre una turgida libidine si impossessava momentaneamente anche di lei.

    Risero entrambe, un sorriso leggermente confuso, piatto, falsamente allegro.

    "Come siamo ridotte male! Due belle ragazze come noi

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