Malafonte e il segreto di Garibaldi
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Atmosfera affascinante per un giovanotto ardente, cacciato dal seminario in cui lo obbligava lo stato di cadetto della nobile famiglia dei Malafonte.
Francesco Maria fa il giornalista alla Gazzetta del Popolo.
Ma si prepara per lui un futuro più emozionante.
Garibaldi organizza la spedizione in Sicilia; a Corte si tessono intrighi internazionali; i progetti di Cavour non si accordano con le ambizioni del Re.
Malafonte si trova proiettato in un mondo ambiguo e violento tra personaggi decisi e spietati: donne e uomini dei neonati servizi segreti del Regno Sabaudo.
Qual è il segreto di Garibaldi che permetterà ai Mille di sconfiggere i potenti eserciti dei Borboni e del Papa?
Malafonte e i suoi dovranno scoprirlo. Seguiranno la spedizione a Genova e poi in Toscana per riuscire a concludere la missione, in un’Italia che non c’è ancora e dove tutti sono contro tutti.
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Book preview
Malafonte e il segreto di Garibaldi - Mario Nejrotti
Mario Nejrotti
Malafonte e il segreto di Garibaldi
Edizioni Tripla E
Mario Nejrotti, Malafonte e il segreto di Garibaldi
© Edizioni Tripla E, 2020
ISBN: 9788855390880
Collana Grande e piccola storia
, n. 18
EEE - Edizioni Tripla E
di Piera Rossotti
http://www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. In copertina: Plinio Nomellini, Garibaldi, olio su tela (1907). Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori
.
Ringraziamenti
a tutti quelli che li meritano, ma specialmente
a Fausta, per il grande e piacevole lavoro di editing e per i consigli di carattere storico;
a Luca Nejrotti per la consulenza archeologica e l’attenta rilettura del manoscritto.
Personaggi in ordine di apparizione
Francesco Maria Malafonte dei Conti di Castellamonte: giornalista della Gazzetta del Popolo
Felice Govean (1819 -1898): cofondatore e Direttore della Gazzetta
Liberta: cameriera presso la pensione dove alloggia Malafonte
Gabriel: giovane pensionante sardo
Luigi Sattanino: studente
La vedova Carminati: proprietaria della pensione
Marco Cerutti: caporedattore della Gazzetta
Caterina: figlia del custode della Gazzetta
Clementina: novizia nel monastero delle Clarisse a Chieri
Il dottor Alessandro Borella (1813 – 1898) cofondatore della Gazzetta
Ernesto: contadinello, compagno di giochi di Malafonte
Johann Hennig: telegrafista prussiano della Gazzetta
Vittorio Bompiani: sottobrigadiere delle guardie cittadine
Niu Ling: maestro cinese di wushu
Colonnello Giuseppe Govone (1825 – 1872): comandante dell’Ufficio Informazioni Militari di Vittorio Emanuele II
Luigi Des Ambrois (1807 – 1874): senatore del Regno di Sardegna
Carlo Alberto Des Ambrois: ufficiale di collegamento nell’Arma dei Carabinieri Reali
Visconti: amministratore delle proprietà Des Ambrois
Giovanni Villa: commerciante di pellami a Milano
Oliver Campbell: commerciante di ceramiche
Silvestri: gendarme
Raffaele Giraudo: capitano dei Carabinieri Reali
Roberto D’Autieri: tipografo, alterego di Caterina
Callimaco Zambianchi (1811 – 1862?): colonnello dell’esercito garibaldino
Jacopo Sgarallino (1823 – 1879): maggiore dell’esercito garibaldino
Profumo alias Celle: contrabbandiere genovese
Rose Montmasson (1823 – 1904): garibaldina, prima moglie di Francesco Crispi
Goffredo Lopino: capitano nella diversione Zambianchi
Gilberto Apolloni: tenente nella diversione Zambianchi
Il nobile Selvi: signore di Montorio
Domenico Campanari: mercante d’arte toscano
George Dennis: diplomatico britannico
Sabino: factotum di Campanari
Bettina: cameriera dell’osteria del Cerreto, fidanzata del balestriere Vanni
Tancredi: capo dei briganti
Avogadro di Collobiano (1833 – 1904): capitano dei granatieri in Toscana
Targa di Pitigliano
Prologo
Un lampo, uno squarcio di luce e il profilo tetro dei ruderi della Chiesaccia. Due torri mozze e le rovine del castello: lassù, sulla collina.
Non era facile raggiungerla.
La strada non correva diritta.
In quelle contrade succedeva di vedere la meta vicina, ma poi ci si addentrava all’improvviso in selve oscure e si scendeva a precipizio in orridi antichi. La via sprofondava tra alte pareti di tufo, tagliate a picco, dove si aprivano orbite vuote, senza tempo.
Dovevamo fare in fretta, arrivare prima dell’alba: impedire la consegna, impadronirci delle casse e liberarci degli altri, se fosse stato necessario.
Verso sera aveva incominciato a tirare un forte vento freddo da est. Le nuvole si erano presto addensate sulle montagne, scendendo verso le colline e il mare: la pioggia era arrivata in fretta.
Non avevo mai visto un diluvio come quello.
Era primavera: ma nulla di dolce aleggiava intorno.
La notte era scura, nessuna luce rischiarava il cielo nero. Solo fulmini bianchi e rossi fendevano il buio, correndo sull’orizzonte. Tuoni violenti frustavano l’aria.
I cavalli, come indemoniati, volavano sul terreno che non avrebbe retto un carro neppure per un momento.
O era già a destinazione o sarebbe rimasto impantanato da qualche parte alla mercé di chiunque, pensavo, piegato sul collo dell’animale.
Ora si saliva e dovevamo rallentare, non scorgevo alcun lume, anche se la Chiesaccia avrebbe dovuto essere in vista.
Se erano là non avevano acceso lampade o fuochi.
La pioggia continuava.
Le pareti di tufo si erano abbassate e si intravedeva il bosco ai lati.
Al chiarore dei lampi sei cavalieri correvano paralleli a noi su un’altra strada tra gli alberi.
Non ci avevano visti. Arrestammo i cavalli. Non dovevamo rischiare di farci scoprire.
Cavalieri al galoppo nella foresta a quell’ora, non potevano essere che loro: i francesi, diretti alla chiesa sconsacrata.
Dopotutto il messaggio era arrivato: non eravamo riusciti a impedirlo.
L’acqua e il buio ci avevano protetti.
«Lasciamoli andare» sentii sussurrare al mio fianco.
«Potremmo attaccarli subito e sorprenderli. Siamo alla pari» propose Sattanino.
«Forse potrebbe essere il momento…» azzardai.
«Buono, Malafonte. State tutti fermi: non si fa nulla. Lasciamoli passare – impose Vittorio. – Gli ordini sono di evitare scontri inutili con i francesi. Che combattano tra loro, poi noi ci occuperemo di chi è rimasto in piedi. Fate come il maestro Ling: restate impassibili.»
Il cinese lo guardò sollevando il sopracciglio destro.
Controvoglia tacqui, mentre rimuginavo. E se si fossero accordati tra loro per spartirsi il contenuto delle casse? Si trattava di una somma enorme. Avrebbe fatto gola a chiunque. Tutti insieme avrebbero potuto essere davvero troppi per noi.
Pensavo all’azione imminente, alla lotta che mi aspettava e alla morte, che poteva arrivare in ogni momento con una pallottola, un colpo di baionetta o di pugnale.
Eppure non era passato tanto tempo da quando ero un giovane seminarista mancato, arrivato a Torino pieno di sogni e di ardore per fare il giornalista: allora la morte mi sembrava un affare che riguardava solo gli altri.
Capitolo I
La mattina di mercoledì 4 gennaio 1860 Torino si era svegliata sotto un cielo nuvoloso.
Per tutta la notte la città era stata immersa in una fitta nebbia, che persisteva in pesanti volute, anche se si era levato il vento.
Verso le nove in via di Po circolava poca gente al riparo dei portici.
Ero in ritardo: mi succedeva troppo spesso quando al mattino dovevo andare al lavoro alla Gazzetta del Popolo, come amichevolmente veniva chiamata in città. Il suo vero nome, L’Italiano-Gazzetta del Popolo, non piaceva a nessuno.
Oggi doveva uscire sul giornale la lettera vergata di pugno da Garibaldi e poi corretta da Govean, il gerente della testata e mio datore di lavoro, così almeno si spettegolava in redazione.
L’aveva dovuta scrivere per mitigare le frasi pronunciate dal balcone del suo albergo, durante la manifestazione degli studenti, che incitavano la nazione ad armarsi per essere libera e unita.
«Un milione di fucili, per un milione di soldati!»
Quell’uomo sapeva usare le parole e infiammare il cuore di tutti, ma soprattutto dei giovani che, se avessero potuto, si sarebbero arruolati subito tra i suoi volontari.
Proprio quella frase aveva creato un vero putiferio al Governo, facendo traballare il povero La Marmora, che era dovuto correre ai ripari, e non senza un forte imbarazzo, con gli ambasciatori di tutti i maggiori Stati d’Europa e d’Italia.
Che uomo il Generale!
Questi ultimi fatti, confusi e appassionati, mi suggerivano di fare ancora più attenzione a quello che scrivevo: la situazione politica del Regno si complicava sempre di più e il giornale non poteva correre rischi, assumendo posizioni troppo decise. Certo io facevo fatica a star buono, ma c’era chi mi teneva d’occhio: e meno male.
Oggi non potevo proprio arrivare tardi.
Il gerente avrebbe notato subito la mia assenza, aggirandosi più nervoso del solito tra scrittoi e macchine, e non me l’avrebbe perdonata.
Abitavo in piazza Vittorio Emanuele, affittavo una camera, dalla cui alta finestra potevo vedere il fiume, in un grande alloggio, molto pulito, con l’acqua corrente interna.
C’erano altri cinque pensionanti: tutti uomini, di diversa provenienza. Ci vedevamo qualche volta per colazione o per cena nella sala da pranzo, serviti al tavolo da Liberta. Veniva dall’Abruzzo e si mormorava fosse la figlia di carbonari fuoriusciti del Regno delle Due Sicilie. La ragazza lavorava per aiutare la famiglia.
Si diceva, ad ancor più bassa voce, che concedesse i suoi favori a Gabriel, non ne conoscevo il cognome, arrivato qualche mese prima. Un bel giovane bruno con gli occhi scuri, non troppo alto, come è frequente tra i sardi, ma molto muscoloso e sempre profumato. Era riservato e stava spesso fuori la notte: una sera, che si rivelò poi per me molto importante, ci eravamo incontrati da Stratta in Piazza San Carlo.
Frequentavo spesso quel posto e non solo perché la caffetteria dei Fratelli Stratta produceva una fine pasticceria e perché era un fornitore della Real Casa.
Quel locale mi piaceva per due motivi: il primo era che i borghesi della città lo frequentavano volentieri e spesso si sentivano sussurrare discorsi repubblicani, che facevano infuriare e inorridire ai tavoli vicini gli avventori dell’aristocrazia più conservatrice.
«Uguaglianza!»
«Più potere al popolo!»
Frasi che infiammavano la mia giovane età, anche se per prudenza non lo davo a vedere e mi calavo nei miei fogli fingendo di scrivere.
Mi divertiva assistere a quelle baruffe: il più delle volte finivano prima di degenerare, ma talvolta qualche spintone ci era scappato, sedato dai camerieri, soprattutto da uno, di statura imponente che univa un procedere dondolante, sui piedi piatti, a una agilità formidabile. Antenore si chiamava e pareva che fosse stato con gli Stratta fin dall’inizio, da quando c’era ancora il Cavalier Reina. Tutti lo conoscevano e nessuno lo provocava.
Lì la luce di sera era sufficiente per leggere e scrivere anche davanti al locale. Questo era il secondo motivo per cui quella caffetteria mi attirava tanto: aveva l’illuminazione a gas, sia fuori che dentro, molto più brillante e rara delle lampade a olio.
Era passata da un po’ l’ora di cena, me ne stavo seduto a scribacchiare, leggere, ma soprattutto ad ascoltare, come al solito, quando incrociai gli occhi del mio coinquilino Gabriel, che mi osservava. Accennai un saluto e lui, cordiale, mi rispose con un sorriso, ma non si alzò per venire da me. Era in compagnia di un uomo dalla schiena possente, che mi voltava le spalle. Continuarono a parlare tra loro.
Decisi che era più discreto non insistere.
Seduto al tavolo di fronte a me c’era un giovane magro e biondo, dall’aspetto gracile.
Si portava spesso un fazzoletto alla bocca per coprire la tosse. Ascoltava, con insofferenza crescente e sempre più evidente, una discussione tra gli avventori di due tavoli vicini: repubblicani e monarchici.
Gli animi si accesero al punto che, per una parola di troppo contro i repubblicani, il giovanotto si intromise e rimbeccò vivacemente i tre aristocratici, che si alzarono in piedi e l’apostrofarono con violenza.
Il biondino, vistosi osservato da tutti, raccolto il pastrano, si allontanò dalla sala.
Poteva avere qualche anno meno di me.
Mi accorsi che i monarchici confabulavano tra loro e lo guardavano mentre usciva.
Intuii le loro intenzioni e li precedetti fuori dal locale, mentre Antenore si avvicinava rapido al loro tavolo.
Ero confuso, non sapevo che cosa avrei fatto per difendere quel ragazzo, se fosse stato necessario.
Ero disarmato, ma volevo proteggerlo.
Dopo pochi passi, più che vederlo nel buio della via, ne sentii la tosse.
Era piegato in due, squassato da un accesso terribile.
Lo vidi arrivare di corsa, era solo, gli altri due doveva averli calmati Antenore. Scorsi il luccichio di una lama: quell’uomo voleva lavare l’onta con il sangue. Mi era stato insegnato tante volte a casa mia: un gentiluomo deve reagire all’offesa per non perdere l’onore.
Ma io non ho mai apprezzato l’educazione di mio padre.
Appoggiata al muro scorsi una pala e l’afferrai.
L’aristocratico correva con l’arma in pugno.
Nell’altra mano stringeva il manico del bastone animato, che molti in quell’epoca pericolosa portavano con sé per difesa.
Nell’ombra non mi vide.
Una veloce rotazione della pala e il colpo arrivò violento con un rumore metallico sul polso teso nell’ansia di colpire.
Un urlo.
Si voltò nella direzione del colpo ricevuto con occhi più spaventati che furenti.
Un’altra rotazione e la seconda botta lo mandò a terra sconcertato a strisciare all’indietro per sottrarsi all’attacco.
La lama e il bastone, abbandonati per la sorpresa, erano rimasti a terra, vicino ai miei piedi.
Mi chinai e li raccolsi entrambi.
Il biondino era addossato a un portone e mi guardava. Pareva sbalordito, ma non molto spaventato. L’uomo si lamentava per il colpo ricevuto, tenendosi il polso. Non sembrava intenzionato a rialzarsi subito.
Afferrai il ragazzo per un braccio.
«Venga via, signore, presto!»
Ci mettemmo a correre per la strada deserta e mal illuminata da pochi lampioni a olio.
Giunti al fiume, il mingherlino era senza fiato, ma non tossiva.
«Grazie signore, le sono debitore. Non so perché ho agito così, ma quegli aristocratici…»
«Ora basta, se ne vada a casa, signore. E cerchi di evitare quell’uomo.»
Si allontanò coprendosi la bocca con il fazzoletto sporco di sangue.
Cambiai idea e lo raggiunsi. Decisi di accompagnarlo, perché non si reggeva in piedi. Avevo rinfoderato la lama nel bastone e passato il braccio destro sotto il sinistro del giovanotto per sorreggerlo.
Facemmo un largo giro per raggiungere via Dora Grossa, dove lo accompagnai su dalle scale di un palazzo.
Il ragazzo abitava in una stanza piccola, ricavata in una soffitta: un’angusta finestra ad abbaino dava un poco d’aria all’ambiente basso e polveroso.
Un letto, coperto da un pagliericcio, un lenzuolo sporco e una coperta. Un tavolino: sopra una lampada a olio; una sedia, un canterano, una brocca in un bacile e molti libri accumulati ovunque.
«Sono uno studente – spiegò, rispondendo alla mia silenziosa curiosità – ma non so per quanto…»
Lo interpretai come un triste presagio, ma non so perché il tono della voce mi sembrò un po’ teatrale. Pensai che volesse esagerare per impressionarmi.
«Mi chiamo Luigi Sattanino e vengo da Alba. Mio padre fa il macellaio e mi ha mandato a Torino per studiare.»
Gli dissi il mio nome.
«Quando mi agito, mi viene la tosse e qualche volta esce un po’ di sangue, ma, se riesco a dormire, poi va tutto bene. Non so proprio come ringraziarla, signore. Se non fosse stato per lei…»
Si voltò verso il muro e si addormentò quasi subito. Doveva essere sfinito.
Rimasi con lui, finché non fui certo che riposava profondamente, poi scivolai fuori da quella stanza.
Mi ero domandato tante volte, leggendo di eroi e cavalieri, che cosa avrei fatto in situazioni pericolose e se sarei stato capace di lottare per aiutare qualcuno, rischiando la mia vita, come avevo già fatto una volta, quando ero poco più di un ragazzo.
Ora ne avevo avuto la conferma: ero un incosciente.
Capitolo II
La padrona della pensione di piazza Vittorio era una vedova, ancora piacente, alta, aggraziata, con i capelli lunghi, raccolti in un grazioso chignon in cima alla testa.
Nel rione tutti la chiamavano la Vedova, nessuno ricordava il nome del marito attempato e morto felice, qualche anno prima, lasciandola con un piccolo capitale che l’intraprendente donna aveva investito in quella attività.
Faceva anche da mangiare. Molto bene in verità, e le sue doti non si limitavano alla cucina: la capacità di educare un giovane all’arte di amare con spensieratezza e senza pretendere nulla non era certo da trascurare.
Il ritardo al lavoro incominciavo ad accumularlo quando mi svegliavo.
Mi fossi coricato prima non sarebbe successo, ma Torino di notte era attraente e non potevo fare a meno delle accese discussioni, delle canzoni, delle bevute, degli arditi progetti che ascoltavo nei caffè e nei salotti, profumati di buon fumo. La capitale era piena di tentazioni e io avevo scoperto molto presto che alle tentazioni non potevo resistere.
Mi restava poco tempo per il sonno e lui dispettoso non voleva abbandonarmi al mattino.
La vedova, sempre gentile e premurosa, ci provava a risvegliarmi con ripetuti richiami, bussando forte alla mia porta e spesso, molto spesso, entrava senza permesso e mi scuoteva, finché non le davo un po’ di retta e il ritardo aumentava.
Anche se mi lavavo velocemente e uscivo di corsa, ancora vestendomi, ripromettendomi di filare in via Sant’Agostino, alla sede del giornale, senza fermarmi, non potevo fare a meno di entrare, solo un momento, mi dicevo, al Caffè dei Fratelli Fiorio e infilarmi in una saletta interna, calda e accogliente, col soffitto a botte e il pavimento di parquet, che risuonava sotto i tacchi.
Non resistevo, dovevo sedermi a quei tavoli, dove tutta Torino, quella che le cose le sapeva, chiacchierava a voce sommessa. Ma non abbastanza perché, curioso com’ero, non riuscissi ad ascoltare fatti, pettegolezzi e intrighi della città e della politica.
D’altronde anche il timido re Carlo Alberto chiedeva ai suoi ministri, ogni mattina: «Che cosa si dice da Fiorio?»
Era più forte di me: nonostante i pochi denari che avevo, ordinavo un bicerin.
Non che la vedova mi facesse mancare pane raffermo da bagnare nel latte per colazione, quando ce n’era il tempo. Ero contento di quel cibo che mi ricordava i mesi passati in seminario, come mai e poi mai avrei voluto tornarci e quanto ero grato, nonostante tutto il dolore patito, di ciò che mi aveva permesso di sfuggire a quel mondo ipocrita, grigio e autoritario.
Seduto al Fiorio bevevo il bicerin molto lentamente.
Era una delizia: come lo preparavano al Caffè della Confederazione
non lo faceva nessuno in città. Adesso il vecchio caffè l’avevano battezzato con quel goffo nome. Tutti, però, lo ignoravano e continuavano a dire: Ci vediamo da Fiorio
. Bere lì il bicerin mi faceva sentire vicino al Conte.
Si diceva, anche se io in verità non lo avevo mai incrociato, che ogni tanto Camillo Benso andasse ancora a berselo. Molto raramente, perché non voleva mischiarsi ai nuovi clienti, troppo rumorosi e troppo borghesi per i suoi gusti.
Ma io potevo sognare, sorseggiando quel liquido denso di caffè e cioccolato, dopo aver raccolto la crema di latte con il cucchiaino, di ascoltare dai bisbigli di Cavour i segreti della politica. Non potevo fare a meno di ammirarlo, anche se continuavo a pensare che mio fratello Saverio fosse inutilmente morto a causa sua.
Il Regno di Sardegna era tutto un ribollire e mi faceva sperare che presto l’Italia non sarebbe stata più solo un nome.
Il fuoco di un patriottismo crescente mi bruciava dentro; avrei voluto scoprire segreti e congiure. Invece, dovevo finire al più presto il pezzo di colore che mi aveva assegnato il signor Marco Cerutti, mio capo diretto: un giornalista alle prime armi non poteva pretendere di occuparsi di avvenimenti delicati e importanti, mi ricordava spesso.
Certo la cronaca non mi appassionava per niente, ma sentivo che non dovevo deluderlo.
Mi aveva preso subito in simpatia, quando ero entrato alla Gazzetta e mi aveva insegnato tutto quello che sapevo del mestiere. I suoi suggerimenti su come comportarmi con colleghi e tipografi mi avevano salvato più di una volta. Soprattutto mi aveva messo in guardia dal farmi notare dal signor Govean, vista la mia condotta non troppo regolata, come diceva lui.
Quando il mio ritardo diventava ingiustificabile, mi accoglieva con l’aria preoccupata. Mi tirava nella sua stanza, che ospitava in un ambiente comunicante anche il telegrafo elettrico per i dispacci dell’Agenzia Stefani, per dirmi ogni volta: «Francesco Maria – mi chiamava sempre con due dei quattro nomi che malauguratamente mi portavo addosso, attaccati al mio antico e nobile cognome, quando era preoccupato per me e voleva fare il burbero – non la posso coprire sempre. Ogni tanto, quando lui arriva, mi chiede di lei e io non so più che cosa inventarmi per non fargli capire che non è ancora in redazione».
La sede del giornale era in un palazzo settecentesco, al numero civico 5 della strada.
Occupava tutto il piano terra e il primo piano, da un lato e dall’altro del grande portone di castagno, che restava sempre aperto per le necessità del giornale. Da quel varco il pubblico poteva accedere a un caseggiato nel cortile, che ospitava al primo piano la famiglia del custode: due brave persone con la figlia Caterina, un vero fiore, ma che non mi dava confidenza.
Al piano terra era predisposto un locale dove si vendeva direttamente il giornale. Anche nella vecchia sede di via Stampatori 6 si usava fare così, ma là, mi avevano raccontato, era tutto molto più austero.
Avevo un posto per lavorare tutto per me, anche se in realtà ci stavo poco. Ero spesso in giro a cercare notizie e curiosità, soprattutto di manifestazioni, balli e opere di beneficenza. Gli articoli preferivo scriverli al tavolino di qualche caffè, davanti a un bicchiere di bianco.
Da poco tempo la mia scrivania era un piccolo scrittoio con cassetti e ribaltina con serratura, che potevo chiudere a mio piacimento e di cui solo io avevo la chiave. Cosa rara, mi aveva detto con fare misterioso il signor Cerutti, quando mi era stata assegnata a novembre del 1859, insieme alla lettera che poneva fine al mio praticantato e inaugurava il periodo di conferma, sempre sotto la responsabilità del signor Cerutti.
La sedia aveva i braccioli e il sedile di paglia. Era comoda, ma cigolava sempre ai miei movimenti, perché quando scrivevo non riuscivo a stare fermo.
Secondo il mio tutore avevo ancora un problema, come se non bastassero gli altri miei difetti: lo stile della mia scrittura.
Nei miei pezzi, specie quando raccontavo di balli di beneficenza, organizzati dall’aristocrazia più codina e conservatrice del Regno, non resistevo ad assumere un tono ironico e sprezzante. Puntualmente il mio mentore, che li rileggeva tutti, tirava un frego nero sulle righe che potevano essere pericolose, soprattutto per me.
Credo che volesse proteggermi come il figlio che non aveva mai avuto, ma a me non dispiaceva, perché lui si comportava come il padre che avrei voluto avere.
Il giornale era monarchico, liberale, anticlericale e appoggiava la politica del Governo.
Dalla guerra d’Oriente, che avevamo combattuto nella lontana penisola di Crimea nel 1855, era diventato, se non la voce ufficiale del governo Cavour, almeno un suo sostenitore per il bene superiore dell’unità della Patria. Avrei voluto che il giornale fosse più schierato sulle idee di una sinistra radicale oltre quella di Rattazzi. Ma tutto sommato la linea editoriale era coraggiosa e abbastanza indipendente, molto di più di altri fogli in città, che erano solo dei lacchè del governo.
Il dottor Felice Govean era al suo posto da quando, insieme ai rispettabili medici Bottero e Borella, nel 1848, aveva fondato la Gazzetta.
Mi avevano assunto in prova poco dopo il mio primo colloquio.
Credo di non essere mai stato più stupito: non mi sembrava affatto di avergli fatto una bella impressione.
Mi ero presentato una mattina di marzo del 1858, con il vestito tirato a lucido, ma troppo liso per un giovanotto di buona famiglia.
Anche se, per la verità, io di buona famiglia lo sono davvero, ma i rapporti con i miei e la mia storia sono, per così dire, un po’ complicati.
Quando entrai nel suo studio, Govean se ne stava seduto dietro la sua grande scrivania e fumava lentamente un sottile sigaro dal profumo dolce e penetrante. Era un Virginia Superiore del monopolio asburgico, l’avrei riconosciuto tra mille. Ricordavo la sua cannuccia di paglia all’interno e il filo di sparto che favoriscono il tiraggio. Li fumava il conte, mio padre. Almeno prima dello sciopero del fumo del 1848 a Milano, che riguardava proprio i sigari Virginia, dopo li aveva senz’altro abbandonati come simboli sovversivi, privandomi così del piacere di annusarli.
Mi aveva squadrato da capo a piedi.
Ero rimasto dritto, imbarazzato, nonostante il suo invito a sedermi.
Il secondo gentile «Si accomodi!» tuonò come un ordine.
Conoscevo la storia dell’uomo che avevo davanti e che ammiravo tantissimo.
Era molto intelligente e appassionato. Si era costruito da solo, come volevo fare io. Gli era toccata in sorte un’infanzia triste e perseguitata. Aveva lavorato prima come tipografo a Milano e poi a Torino nella tipografia Baricco & Arnaldi, che stampò il primo numero del giornale e ancora lo serve con fedeltà ed efficienza. Era per me l’uomo che più rappresentava i tempi che stavo vivendo.
Io volevo scrivere in quel giornale, che già era il più letto anche negli altri stati italiani, grazie soprattutto a una fortunata sottoscrizione pubblica, che aveva mobilitato i cittadini per l’acquisto di cento cannoni per la piazzaforte di Alessandria, durante la guerra di Crimea. L’adesione popolare portò le copie vendute a 10.000.
Avrei fatto qualunque cosa pur di ottenere un posto alla Gazzetta.
Gli avevo raccontato di me, del seminario, della mia voglia di scrivere e delle poche operette e racconti che avevo prodotto in quegli anni di clausura. Avevo mostrato la cartellina con i miei manoscritti.
«Non so se abbiamo bisogno di pretini.»
Mi aveva gelato il sangue nelle vene facendomi vergognare come se avesse detto che non avevano bisogno di malandrini.
«Lasci tutto sulla scrivania e la manderò a chiamare, se sarà il caso.»
In quel momento non mi veniva in mente nessun motivo al mondo per cui quel grande uomo avrebbe dovuto assumere un giovanottello come me.
Avevo già un piede in corridoio, quando, dopo un sonoro sternuto, sentii il direttore che mi chiedeva: «E mi dica, giovane Malafonte, perché ha lasciato il seminario di Chieri? Al giorno d’oggi non si può immaginare carriera più tranquilla di quella ecclesiastica, per chi voglia sistemarsi».
Eccola la domanda. Quella la cui risposta era veramente difficile e che ingenuamente avevo sperato non mi avrebbe fatto. Ma certo che me lo avrebbe chiesto, invece.
Stupido io a non prepararmi.
Rimasi mezzo voltato verso di lui, con un viso da allocco che neanche don Abbondio davanti al cardinal Borromeo, tanto più che il suo malcelato tono ironico mi faceva sospettare che Govean conoscesse già la mia vicenda e forse anche altro.
Avevo ventidue anni e la corporatura di mio padre: alto, asciutto, ma con le spalle larghe. Sul viso una fossetta del mento era lo stigma dei maschi della mia famiglia. Il resto del mio fisico, lo avevano plasmato la scherma e l’equitazione, insieme alle frequentazioni in campagna dei figli e dei nipoti del fattore, che tra lotte e nuotate negli stagni mi avevano forgiato molto di più di quello che si confacesse a un nobile rampollo.
Anche il sole, a cui mi esponevo volentieri a torace nudo, aveva colorato la mia pelle più di quanto volesse la decenza del mio rango. Il colore ambrato contrastava con il verde dei miei occhi e il biondo dei miei capelli, che insieme a lineamenti fini e gentili e a un sorriso che faceva simpatia, avevo ereditato da mia madre.
Il mio aspetto mi piaceva, non per sciocco narcisismo, ma perché presto mi ero accorto che attirava gli sguardi femminili e non solo di nobili fanciulle, ma anche di generose contadine e gentili popolane.
Ero il terzo figlio tardivo del conte Carlo Andrea Uberto Talarico Malafonte di Castellamonte.
Com’era tradizione della mia famiglia, ero entrato in seminario a diciotto anni.
Mio fratello primogenito, Armando, era destinato al titolo e alle proprietà; alla vita militare Saverio, di due anni più giovane, ma di quattro più vecchio di me, a cui ero molto affezionato, perché mi faceva sempre giocare con lui alla guerra.
Poco più che fanciullo, avevo passato lunghi pomeriggi d’estate nei boschi della nostra tenuta a sparare a bersagli improvvisati, sotto la sua attenta direzione, sia