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Superiori. Il ritorno del mito della razza
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Superiori. Il ritorno del mito della razza

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Dopo gli orrori perpetrati dal Nazismo durante la Seconda guerra mondiale, il mondo della scienza ha voltato le spalle all'eugenetica e agli studi sulle differenze razziali. Da allora, tuttavia, una rete globale di intellettuali razzisti e segregazionisti ha lavorato nell'ombra per finanziare ricerche e fondare riviste specializzate che si propongono di diffondere e sostenere con dati scientifici una presunta diversità nelle capacità cognitive delle diverse razze. Eppure, anche se la stragrande maggioranza degli scienziati e degli studiosi ha rifiutato con decisione queste teorie, considerando il concetto di razza un costrutto sociale, l’idea in qualche modo è sopravvissuta nel modo in cui gli scienziati concepiscono la genetica e le varianti tra i diversi gruppi umani.
Sviscerando le affermazioni e il lavoro degli scienziati contemporanei che studiano la biodiversità umana, e che per lo più affermano di attenersi ai dati, Superiori dimostra come persino nella comunità scientifica mainstream sia tuttora radicata l’idea che il concetto di razza abbia un fondamento biologico. La nostra comprensione di caratteristiche complesse quali l’intelligenza, e degli effetti delle influenze ambientali e culturali sull'uomo dal livello molecolare in su, è in costante crescita, eppure la speranza di trovare delle semplici differenze genetiche tra le “razze” – in grado di spiegare la diversa distribuzione delle malattie tra le varie etnie, o la povertà, o i risultati nei test scolastici, o semplicemente di giustificare i presupposti culturali – resiste ostinatamente.
In un momento in cui la minaccia del nazionalismo etnico torna ad affacciarsi in tutto il mondo, Angela Saini, pluripremiata autrice britannica di origini indiane, esplora il concetto di razza dalle origini a oggi, e con il contributo di genetisti, antropologi, storici e sociologi di tutto il mondo analizza con rigore le teorie della “scienza della razza”, ne denuncia la natura insidiosa e distruttiva, e ci ricorda che dal punto di vista biologico siamo di gran lunga più simili che diversi.
LanguageItaliano
Release dateOct 29, 2020
ISBN9788830522718
Superiori. Il ritorno del mito della razza
Author

Angela Saini

ANGELA SAINI è una giornalista scientifica pluripremiata i cui lavori sono apparsi sulla BBC e in numerose testate come the Guardian, Wired, Economist e Science. Nel 2015 ha vinto il premio American Association for the Advancement of Science del Kavli Science Journalism. Ha conseguito inoltre un master in ingegneria alla Oxford University. È autrice di Geek Nation: How Indian Science is taking over the world e di Superior: The return of race science.

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    Superiori. Il ritorno del mito della razza - Angela Saini

    (NdT).

    1

    TEMPO PROFONDO

    Siamo un’unica specie umana oppure no?

    Fiancheggiando una strada punteggiata dalle carcasse di sventurati canguri, trecento chilometri verso l’interno dalla città di Perth, Australia Occidentale – e all’altro capo del mondo che chiamo casa – c’è quella che sembra una landa desolata. Tutto è alieno ai miei occhi: uccelli mai visti emettono versi mai sentiti prima; come dita scheletriche, i rami secchi di alberi argentati affiorano dalla friabile terra rossa; rocce gigantesche, erose da milioni di anni in una massa informe di morbido pastello, fanno pensare ad astronavi coperte di muschio. Immagino di essere stata trasportata in una galassia di là dal tempo, dove non c’è posto per gli esseri umani.

    Sennonché, dentro un riparo semibuio, sotto un masso ondulato, ci sono impronte di mani.

    La grotta di Mulka è uno dei tanti antichi siti di arte rupestre di cui è punteggiata l’Australia, ma unico in questa particolare regione per essere così ricco d’immagini. Per entrare devo accucciarmi e muovermi tentoni nell’oscurità. All’inizio tutto ciò che vedo è una mano, impressa in uno spruzzo di rosso ocra illuminato sul granito da un fascio di luce diffusa. I miei occhi si adattano, ed ecco apparire altre mani. Mani di bambini e mani di adulti, mani su mani, su tutto il soffitto, a centinaia: in rosso, giallo, arancione e bianco. Schiarendosi nella penombra, sembra quasi che si sporgano dal muro, che vogliano darti il cinque. Ci sono anche delle linee parallele, forse il vago profilo di un dingo.

    Le immagini sono di difficile datazione. Alcune potrebbero avere milioni di anni, altre sono molto recenti. Sappiamo che la creazione di arte rupestre su questo continente risale a qualcosa che in termini culturali è percepibile come la notte dei tempi. Dopo gli scavi del 2017 al rifugio Madjedbebe, ad Arnhem Land, nell’Australia del Nord, è stato prudentemente stimato che gli uomini moderni abbiano abitato la zona per almeno 60.000 anni: molto più di quanto i membri della nostra specie siano vissuti in Europa e abbastanza a lungo perché dei popoli abbiano assistito a un’era glaciale, così come all’estinzione dei mammiferi giganti. E potrebbero aver prodotto arte fin dall’inizio. Al sito di Madjedbebe, mi dice un archeologo che ci ha lavorato, i ricercatori hanno rinvenuto dei «pastelli» in ocra ridotti a una protuberanza. Presso il lago Mungo, nel Nuovo Galles del Sud, un sito di 42.000 anni, ci sono le tracce di una cerimonia funebre: corpi cosparsi di pigmento color ocra che devono esservi stati trasportati da centinaia di chilometri.

    «È probabile che l’impronta di una mano abbia significati diversi in società differenti e forse anche all’interno della stessa società» dice Benjamin Smith, un esperto di arte rupestre di origine britannica presso la University of Western Australia. Potrebbe essere servita a segnalare il luogo, magari per affermare che qualcuno era stato qui. Ma non sempre il significato è semplice. Più gli esperti hanno cercato di decifrare l’arte preistorica – ovunque al mondo essa si trovi – e più si sono trovati a malapena a raschiare la superficie di sistemi di pensiero tanto profondi che le tradizioni filosofiche occidentali non riescono a contenerli. In Australia, una roccia non è solo una roccia. Il rapporto che le comunità indigene hanno con la terra e anche con oggetti naturali inanimati è, in pratica, sconfinato: ognuno è intrecciato a ogni cosa.

    Quella che a me pare estranea desolazione, non lo è per nulla. È una casa, vissuta più di qualunque altra io possa immaginare. Innumerevoli generazioni hanno fatto proprie e accresciuto conoscenze su fonti alimentari e navigazione. Hanno plasmato per millenni il paesaggio in modo sostenibile, stabilendo con esso e con la sua flora e fauna uniche un rapporto spirituale. Come vado lentamente imparando, per il pensiero aborigeno australiano l’individuo sembra dissolversi nel paesaggio a lui circostante. Il tempo, lo spazio e l’oggetto assumono dimensioni diverse. E nessuno, a parte chi sia cresciuto immerso in questa cultura e in questo luogo, può comprenderlo appieno. So che potrei passare il resto della mia vita a cercare di farmene una ragione senza muovermi di un passo da qui, sola, in piedi in questa grotta.

    Non possiamo albergare in menti non nostre.

    Ero già adolescente quando scoprii che forse mia madre non conosceva la propria data di nascita. Stavamo festeggiando il suo compleanno lo stesso giorno di ottobre, come sempre, quando ci disse, en passant, che le sue sorelle pensavano che in realtà fosse nata in estate. In India, durante la sua infanzia, non c’era l’uso di annotare le date. Ero sorpresa che non le importasse, e la cosa la fece ridere. A contare per lei erano piuttosto l’intricata rete dei suoi rapporti familiari, il suo posto nella società, il suo destino mappato nelle stelle. Cominciai così a comprendere che le cose cui diamo valore sono solo quelle che conosciamo. Ad esempio, io paragono qualunque città stia visitando a Londra, dove sono nata. È il centro del mio universo.

    Per degli archeologi che interpretano il passato, la sfida è decifrare culture che non sono la loro. «Gli archeologi hanno a lungo avuto difficoltà a determinare cosa sia, qual è quel tratto unico, a renderci speciali» dice Smith, che oltre a lavorare in Australia ha trascorso sedici anni in siti archeologici sudafricani, una professione che l’ha portato nelle culle dell’umanità, a rovistare fra i resti degli inizi della nostra specie. Ed è una faccenda complicata. È sorprendentemente arduo datare con esattezza la comparsa dell’Homo sapiens. Fossili di individui che avevano in comune con noi i tratti del volto sono collocabili in un periodo che va dai trecento ai centomila anni fa. In Africa, le prove della presenza di arte, o almeno dell’uso di ocra, risalgono con certezza a un periodo di molto precedente ai centomila anni fa, prima che alcuni dei nostri antenati cominciassero ad avventurarsi fuori del continente e a popolare lentamente altre parti del mondo, compresa l’Australia. «La capacità di produrre arte complessa è una delle cose che ci distinguono come specie» aggiunge.

    Ma anche se i nostri antenati producevano arte un centinaio di millenni fa, il mondo di allora non aveva nulla a che vedere con quello di adesso. Oltre 40.000 anni fa non c’erano soltanto gli esseri umani moderni, gli Homo sapiens, che vagavano per il pianeta, ma anche degli umani arcaici, compresi i Neanderthal (a volte detti «uomini delle caverne» perché le loro ossa sono state trovate, appunto, in caverne), che vivevano in Europa e in parti dell’Asia occidentale e centrale. E ora sappiamo che c’erano i Denisovani, i cui resti sono stati trovati in grotte calcaree della Siberia e il cui territorio si espandeva forse fino al Sudest dell’Asia e della Papua Nuova Guinea. Ci furono anche, in momenti diversi del passato, molti altri tipi di umani, la maggior parte dei quali ancora non è stata identificata o denominata.

    Nel remoto passato condividevamo tutti il pianeta, vivendo anche gli uni accanto agli altri in certi periodi e luoghi particolari. Per alcuni studiosi, questo momento cosmopolita nella nostra storia antica è alla base di quel che significa essere moderni. Spesso ci immaginiamo questi altri umani come dei rozzi energumeni. Dobbiamo aver avuto delle qualità loro mancanti, qualcosa che ci avvantaggiasse, la capacità di sopravvivere e prosperare mentre loro andavano estinguendosi. La parola «Neanderthal» è stata a lungo un insulto. I dizionari la definiscono sia come un’estinta specie umana vissuta nell’Europa dell’Era glaciale, sia come un uomo incivile, rozzo e di scarsa intelligenza. I Neanderthal e l’Homo erectus fabbricavano utensili di pietra come la nostra specie, l’Homo sapiens, spiega Smith, che però, stando a delle prove convincenti, ritiene che nessuno abbia avuto la stessa capacità di pensare simbolicamente, di parlare al passato e al futuro e di produrre un’arte paragonabile alla nostra. Sono queste le cose che ci hanno reso moderni, che ci hanno distinto.

    Ciò che ha separato «noi» da «loro» sta al nucleo di chi siamo. Ma non è solo una questione che riguarda il passato. Oggi, l’essere umani può apparire talmente chiaro, oltre ogni bisogno di chiarificazione, che è difficile credere che in un tempo non troppo lontano non fosse così. Quando gli archeologi rinvennero i fossili di altre specie umane ora estinte, nel tardo Novecento e all’inizio del XX secolo, sollevarono dubbi su fino a che punto tutti gli Homo sapiens in vita oggi fossero davvero «gli stessi». Ancora negli anni Sessanta, non era controverso per uno scienziato credere che gli esseri umani moderni potessero essersi evoluti indipendentemente in diverse parti del mondo da forme arcaiche separate. Anzi, in molti sono ancora tormentati dall’incertezza sulla questione. Il dibattito scientifico su cosa renda moderno un essere umano moderno è più discusso che mai.

    Dal nostro punto di vista privilegiato nel XXI secolo, ciò potrebbe suonare assurdo. L’opinione comune è che abbiamo origini condivise, come teorizzato dalla «Ipotesi africana». Negli ultimi decenni, i dati scientifici hanno confermato che l’Homo sapiens si è evoluto da una popolazione africana prima che parte di essa cominciasse a migrare verso il resto del mondo, circa centomila anni fa, adattandosi a piccoli passi alle proprie condizioni ambientali. Anche in Africa c’erano adattamento e cambiamento a seconda dei luoghi in cui le persone vivevano, ma nel complesso, gli umani moderni erano allora (e permangono) di un’unica specie, Homo sapiens. Siamo speciali e siamo uniti. Non è niente di meno che un assunto scientifico.

    Ma a livello accademico, questa non è un’opinione universalmente condivisa. In certi paesi non è nemmeno l’opinione prevalente. Secondo alcuni scienziati, anziché come umani moderni emigrati dall’Africa in un periodo relativamente recente a livello evoluzionistico, le popolazioni sono comparse nella modernità in ciascun continente in maniera separata, da antenati che avevano vissuto lì già un milione di anni fa. In altre parole, diversi gruppi di popoli divennero gli umani che conosciamo in periodi e in luoghi diversi. Alcuni si spingono fino a chiedersi se, qualora diverse popolazioni si fossero evolute separatamente in esseri umani moderni, questo non possa spiegare quella che oggi consideriamo differenza razziale. E se così fosse, le differenze tra le «razze» sarebbero forse più profonde di quanto non ci si renda conto.

    *

    In uno dei primi rapporti europei sugli indigeni australiani, William Dampier, pirata ed esploratore inglese del Settecento, li definì «il popolo più triste del mondo».

    Dampier e i colonizzatori britannici nel continente dopo di lui liquidarono i loro nuovi vicini come selvaggi, rimasti intrappolati in una stasi culturale indipendentemente da quanto tempo prima fossero emigrati o comparsi lì. I ricercatori culturali Kay Anderson, della Western Sydney University, e Colin Perrin, uno studioso indipendente, documentano la reazione iniziale degli europei in Australia come di totale sbigottimento: «Gli aborigeni non coltivatori spiazzarono i primi coloni» scrivono. Non costruivano case, non avevano agricoltura, non allevavano bestiame. I coloni non riuscivano a farsi una ragione di come mai questo popolo, se umano a sua volta, non si fosse «migliorato» grazie all’adozione di simili pratiche. Come mai non somigliavano di più agli europei? Non era solo uno shock culturale, c’era dell’altro. Lo sconcerto, o piuttosto la riluttanza a cercare di comprendere gli abitanti originari del continente, si confaceva agli europei del XVIII secolo anche perché funzionale all’idea che stessero entrando in un territorio che potevano legittimamente rivendicare come proprio. Pensavano che il paesaggio non fosse diverso da come doveva essere stato all’inizio, perché non erano in grado di riconoscere quanto potesse essere stato cambiato. E se la terra non era coltivata, secondo le norme giuridiche occidentali era terra nullius, non apparteneva a nessuno.

    Allo stesso modo, se i suoi abitanti appartenevano al passato, a un’epoca precedente la modernità, avevano i giorni contati. «Gli indigeni australiani erano considerati dei primitivi, uno stadio fossilizzato dell’evoluzione umana» mi dice Billy Griffiths, un giovane storico australiano che ha documentato la storia dell’archeologia nel suo paese, sfidando la narrazione dominante che dipingeva i popoli indigeni come un ristagno evolutivo. Tra i primi esploratori ce ne fu almeno uno che si rifiutò perfino di credere che fossero stati loro a creare l’arte rupestre che vedeva. Erano considerati «un primo stadio della storia occidentale, la rappresentazione vivente di un’antica forma, una pietra miliare». Pressoché dal primo incontro, gli aborigeni australiani furono giudicati privi di storia, sopravvissuti in isolamento come un flashback del modo in cui tutti gli esseri umani potevano aver vissuto prima che alcuni di loro si civilizzassero. Nel 1958 il compianto John Mulvaney, importante archeologo australiano, scrisse che i vittoriani guardavano all’Australia come a un «museo d’umanità primitiva». Ancora alla fine del XX secolo, scrittori e studiosi continuavano a chiamarli abitualmente il popolo «dell’Età della pietra».

    È vero che le culture indigene hanno connessioni durature con i loro antenati, e che proseguono tradizioni vecchie di millenni. «Il passato remoto è un’eredità viva» mi dice Griffiths. Per gli aborigeni australiani «è qualcosa che sentono nelle ossa… ci sono storie straordinarie di eventi drammatici conservate nella storia, nella tradizione orale, come l’innalzarsi del livello del mare alla fine dell’ultima Era glaciale e di colline diventate isole, l’eruzione di vulcani nel Victoria occidentale, in periodi diversi anche di meteoriti». Ma allo stesso tempo, ciò non significa che gli stili di vita non siano mai cambiati. I colonizzatori europei non se ne accorsero, e quest’opinione non sarebbe stata corretta che nella seconda metà del XX secolo.

    «Ci fu senz’altro poco rispetto per i notevoli sistemi di pensiero e gestione della terra coltivati per millenni dagli indigeni australiani» spiega Griffiths. Per migliaia d’anni la terra è stata incastonata di storie e canzoni, coltivata con bastoni da scavo, con il fuoco e con le mani. «Nel periodo in cui questi popoli hanno vissuto in Australia c’è stato un enorme mutamento ambientale, così come un cambiamento sociale, politico e culturale.» Le loro vite non sono mai state statiche. Nel suo libro del 2014 Dark Emu, Black Seeds, lo scrittore Bruce Pascoe sostiene, come altri studiosi, che questo coinvolgimento con la terra, che comprendeva la coltivazione e la pesca, fosse talmente sofisticato e riuscito da equivalere all’allevamento e all’agricoltura.

    Ma qualunque cosa vedessero, i colonizzatori non gli davano valore. Per chi è cresciuto in e attorno alle città, è ancora l’industrializzazione a rappresentare la civiltà. «L’idea di collocare, per dire, una società industriale più in alto di una di cacciatori-raccoglitori è assurda» ricorda Benjamin Smith. Non è un concetto facile da accettare quando si è cresciuti in una società che ti dice che i grattacieli di cemento sono il simbolo di una cultura avanzata, ma quando lo si osserva dalla prospettiva del tempo profondo – attraverso i millenni e non i secoli, nell’ambito di lunghe traiettorie storiche – diventa più chiaro. Imperi e città tramontano e poi crollano. Sono le piccole comunità indigene a essere sempre sopravvissute, quelle le cui società si datano in molte migliaia di anni piuttosto che in centinaia. «L’archeologia ci mostra che tutte le società sono incredibilmente sofisticate: soltanto, in modi diversi» continua Smith. «Sono questi i pensatori del mondo, e forse si sono pensati in un posto migliore. Hanno società con più tempo libero di quelle occidentali, tassi di suicidio più bassi, livelli di vita sotto molti aspetti più elevati, anche se non hanno tutta la nostra sofisticazione tecnologica.»

    Il rispetto per le culture indigene e un senso di orgoglio all’interno delle stesse hanno iniziato a crescere solo negli ultimi decenni. E ancora oggi permane una certa resistenza tra alcuni australiani non indigeni, soprattutto perché è divenuto chiaro su base archeologica che il popolo aborigeno ha occupato questo territorio non solo per migliaia, ma per molte decine di migliaia di anni. «La rivelazione, a metà del Novecento, che qui c’erano dei popoli da un tempo così remoto fu, in un certo senso, accolta come una sfida da una nazione di coloni con una storia molto superficiale. Racchiuse in tutto questo, ci sono delle ansie culturali» dice Griffiths. «È messa in discussione la legittimità della presenza bianca qui.»

    Tra i colonizzatori europei dell’Ottocento, ci fu l’incapacità di interagire con chi avevano incontrato, di accettarli come i veri abitanti del territorio, combinata alla frenesia mercenaria di cancellarli. Insieme ai popoli nativi della Terra del Fuoco, all’estrema punta meridionale del Sud America – la cui nudità e apparente brutalità avevano sbalordito il biologo Charles Darwin quando li aveva visti nei suoi viaggi –, gli indigeni australiani e tasmaniani erano considerati come il gradino più basso nella gerarchia razziale umana. Un osservatore li descrisse come se «scendessero nella tomba». Erano, mi dice Griffiths, visti come condannati all’estinzione. «Era quella l’idea dominante, che sarebbero presto scomparsi.»

    «Si parlava molto di rassettare il guanciale a una razza moribonda.»

    Rassettare il guanciale fu un lavoro sanguinario. Il killer più grande, precursore dell’invasione, fu la malattia. Ma secondo alcune stime, dal settembre 1794 – sei anni dopo l’arrivo della prima flotta di navi britanniche in quella che sarebbe diventata Sydney – per poi continuare nel XX secolo, a ridurre lentamente e costantemente la popolazione indigena all’incirca dell’80 per cento contribuirono centinaia di massacri. Molte centinaia di migliaia di persone morirono – se non per il vaiolo e altre malattie sbarcate in Australia – direttamente per mano di singoli individui o di gang, e altre volte della polizia. Altrettanto duro fu il genocidio culturale, aggiunge Griffiths. La pratica della cultura e l’uso del linguaggio autoctoni furono messi al bando. «In molti nascosero la propria identità, il che contribuì a sua volta al declino della popolazione.»

    Nel 1869, il governo australiano varò una legge che permetteva di sottrarre con la forza i bambini ai loro genitori, soprattutto se erano di origine mista, descritta all’epoca come «mezza casta», «un quarto di casta» e frazioni più piccole. Pubblicata per la prima volta nel 1997, l’inchiesta ufficiale sugli effetti di questa politica su una «generazione rubata», ferita in modo indelebile, è un catalogo di orrori. Nel Queensland e in Australia occidentale molte persone furono relegate in insediamenti e missioni del governo, i loro bambini portati via e messi in dormitori all’età di circa quattro anni, prima di essere mandati a lavorare a quattordici.

    «Le giovani indigene che rimanevano incinte erano rispedite alla missione o al dormitorio per avere il proprio bambino. Poi il processo di allontanamento si ripeteva.»

    Negli anni Trenta, circa metà della popolazione aborigena del Queensland viveva in istituzioni. Era una vita squallida, con alti tassi di malattie e malnutrizione; il loro comportamento era vigilato strettamente per timore che tornassero ai costumi immorali delle comunità di origine. I bambini potevano lasciare i dormitori e le missioni soltanto per fornire manodopera economica, le femmine come domestiche, e i maschi come lavoratori agricoli. Erano considerati mentalmente incapaci di svolgere qualunque altro genere di lavoro. La storica Meg Parsons descrive quello che successe come «la trasformazione di corpi aborigeni in sudditi e lavoratori idonei alla Queensland bianca».

    Tra quanti erano costretti a vivere in questo modo c’erano la madre e la nonna di Gail Beck, un’attivista indigena di Perth, ex infermiera, che lavora presso l’Aboriginal Land and Sea Council e lotta per rivendicare i diritti alla terra della sua comunità locale, i Noongar. Quando vado a trovarla a casa sua, nella pittoresca città portuale di Fremantle, e le parlo mentre cucina in attesa di una visita della parte aborigena della sua famiglia, scopro una persona che a malapena riesce a misurarsi con il dolore e la perdita.

    Gail ha sessant’anni, ma la vera storia della sua famiglia è ancora abbastanza nuova per lei. Fino all’età di trent’anni non sapeva nemmeno di avere origini indigene. Crescendo, le era stato fatto credere di essere italiana, una bugia per spiegare la sua pelle olivastra: sua madre aveva il terrore che se le avessero detto la verità, le autorità l’avrebbero portata via, proprio com’era successo a lei. Così Gail era vissuta sotto una coltre di silenzio, al riparo dalla consapevolezza che sua nonna apparteneva alla Generazione Perduta, una «mezza casta» sottratta alla sua famiglia nel 1911, all’età di due anni, per vivere in una missione cattolica. Lì era stata abusata fisicamente, mentalmente, sessualmente. «Fu messa a servizio all’età di tredici anni. Non fu pagata, figuriamoci. Rimase lì finché non fu adulta.» Un simile destino era toccato alla madre di Gail, fin dalla nascita sotto la supervisione e tutela delle suore dell’istituto, che una volta cresciuta l’avevano picchiata e seviziata. Le Sorelle della Carità «erano molto crudeli» racconta Gail.

    Conoscere il passato della sua famiglia e vederselo confermare dai documenti di sua nonna fu un fulmine a ciel sereno. «Piansi un mare di lacrime.» In un attimo, Gail aveva ricevuto una nuova identità, che voleva disperatamente comprendere e con la quale voleva stabilire una connessione. Ci sono voluti sei anni perché trovasse la parte della sua famiglia che le era stata nascosta, e da allora si è dedicata ad assorbirne la cultura. Mi mostra le sue coperte e i suoi quadri, decorati con le stampe per le quali gli artisti aborigeni australiani di recente sono diventati famosi. Ha provato a imparare un linguaggio indigeno, ma è stata una dura lotta. Come la maggior parte dei bianchi australiani, vive in una bella casa in una zona residenziale, con una conoscenza degli usi e costumi della bisnonna, per forza di cose, frammentaria.

    «Siamo in lutto costante e la gente non lo capisce» mi dice. «Quei bambini perduti non riguardano soltanto i nuclei famigliari, ma la comunità.» Ed è forse questa la più grande delle tragedie: che i modi di vivere che Gail avrebbe potuto avere, la cultura e il linguaggio con cui poteva essere allevata, il rapporto con l’ambiente circostante, tutto è stato schiacciato sotto il giogo di quella che si considerava una razza superiore. Dopo l’arrivo degli europei, anche la creazione artistica diminuì drasticamente. Gli aborigeni dovettero aspettare fino al 1976 anche solo per vedersi riconoscere i diritti legali sulla propria terra. Per tutto quel tempo, le vittime non ebbero scelta alcuna. «Non gli fu permesso di praticare la propria cultura, di mescolarsi e di parlare la propria lingua.» Dopo essersi sentiti dire che erano degli inferiori, che vivevano una vita vergognosa, avevano adottato dei modi di vivere diversi: modi che avevano loro detto essere migliori.

    «Davvero vergognoso.»

    *

    Non sono una che piange facilmente. Ma dopo, in macchina, piango per Gail Beck. Non c’è una bilancia di giustizia che possa pesare l’accaduto. Non soltanto per gli abusi e il trauma, i figli portati via ai genitori, gli omicidi, ma per le vite che le donne e gli uomini come lei non hanno avuto la possibilità di vivere.

    Negli ultimi decenni, man mano che gli studiosi cercano di ricomporre i pezzi del passato e di trovare un senso a ciò che è successo, mentre condividono con gli australiani il lungo processo di valutazione del danno e del suo impatto, possiamo vedere come si delinei una storia onnicomprensiva che riguarda la definizione della differenza umana. Essa ci mostra come alcune persone abbiano tracciato dei confini attorno ad altri gruppi di persone, e quanto dentro di noi e indietro nel tempo si pensa si estendano le disparità. Sono questi i parametri di ciò che oggi chiamiamo razza.

    Incontro lo stesso giorno Martin Porr, un archeologo di origini tedesche che lavora presso la University of Western Australia. La sua ricerca si concentra sull’origine dell’uomo. Porr ritiene, come molti altri archeologi oggi, che la sua sia una professione appesantita dal fardello del colonialismo. Quando avvennero i primi incontri tra europei e australiani, e si stabilirono le regole su come questi ultimi dovessero essere trattati, scienza e archeologia cominciarono a intrecciarsi. E da allora sono rimaste sempre intrecciate. Per Porr, questa storia comincia con l’Illuminismo, agli albori della scienza occidentale. L’Illuminismo rafforzò l’idea di unità umana, di una qualità biologica essenziale che elevava gli umani al di sopra di tutte le altre creature. Viviamo con questo concetto ancora oggi, lo consideriamo positivo e inclusivo, qualcosa da celebrare. C’era, tuttavia, un ammonimento. Come avverte Porr, questo modo moderno e universale di inquadrare le origini umane era stato elaborato in un’epoca in cui il mondo era un luogo assai diverso, con molta meno comprensione delle altre culture. Quando i pensatori europei stabilirono lo standard dell’essere umano moderno, in molti partirono dalla propria esperienza e da ciò a cui veniva attribuito valore all’epoca. Alcuni filosofi illuministi, Kant e Hegel compresi, definirono l’umanità senza avere idea di come la maggior parte di questa vivesse, o di che aspetto avesse. I popoli che vivevano in altri luoghi, tra cui quelli indigeni del Nuovo Mondo e dell’Australia, per loro erano il più delle volte un mistero. «La comprensione universale delle origini umane che si creò all’epoca fu, in effetti, opera di europei bianchi che disponevano di un accesso indiretto e filtrato dalle lenti del colonialismo alle informazioni sugli altri popoli del mondo» spiega Porr. Così, quando uscirono nel mondo reale e incontrarono persone che non avevano il loro stesso aspetto, che adottavano stili di vita diversi dai loro, la prima questione che furono costretti a porsi fu: ma sono come noi?

    «Se provi a definirlo in qualche senso universale, allora il concetto di umanità è molto restrittivo. E, nel Settecento, era del tutto eurocentrico. E ovviamente, quando lo definisci in questo senso, è naturale che gli altri popoli non ne soddisfino gli standard» continua Porr. Per via del modo ristretto in cui gli europei avevano fissato i propri parametri su ciò che costituiva un essere umano, ponendo se stessi come paradigma, era quasi scontato che popoli di altre culture non vi si adattassero. Non condividevano necessariamente la stessa estetica, gli stessi sistemi politici o valori morali, per tacere del cibo o delle abitudini. Universalizzando l’umanità, i pensatori dell’Illuminismo avevano inavvertitamente posto le fondamenta per dividerla.

    E qui si trova il fatal error alla nascita della scienza moderna, che sarebbe durato secoli, e che, potremmo dire, persiste ancora oggi. Come nota l’antropologo britannico Tim Ingold, è la scienza delle origini umane che «ha scritto l’essenza dell’umanità a propria immagine, e che misura gli altri popoli a seconda di quanto sono riusciti a esserne all’altezza».

    «Osservando attentamente questi giganti del Settecento, Kant e Hegel, si intuisce quanto fossero terribilmente, incredibilmente razzisti!» dice Porr. Nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, del 1764, Kant dichiarava: «I negri d’Africa per natura non hanno sentimenti che si elevino oltre il banale». Quando incontra un carpentiere sagace, questi è rapidamente liquidato con l’osservazione che «questo tipo era nero dalla testa ai piedi, una prova chiara del fatto che dicesse solo cose stupide». Se alcuni pensatori dell’Illuminismo si opposero all’idea di una gerarchia razziale, in molti, compresi Voltaire e lo scozzese David Hume, non videro contraddizione alcuna tra i valori di libertà e fraternità e la loro convinzione che i non

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