Jeremy e la farfalla che volava in inverno
()
Info su questo ebook
Leggi altro di Alessandro Chelo
Your Way: Le quindici parole che ispirano il cammino Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLe cornici di Gretel: Viaggio alla ricerca della qualità Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniCredevo d'aver piantato un baobab Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLa Leadership secondo Peter Pan Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniIl manager mancino Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniLeadership&Amore Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
Correlato a Jeremy e la farfalla che volava in inverno
Categorie correlate
Recensioni su Jeremy e la farfalla che volava in inverno
0 valutazioni0 recensioni
Anteprima del libro
Jeremy e la farfalla che volava in inverno - Alessandro Chelo
L'incontro
Sono seduto di fronte al monitor del mio computer. Scorro le e-mail ricevute nel periodo. Uno scroll lento e attento. Volgo rapidamente lo sguardo dall’oggetto al mittente di ogni messaggio. Ne apro alcuni, altri no. Leggo con attenzione solo pochi messaggi. Poi la sorpresa, mi scrive Vanessa Olek. Il suo messaggio irrompe nella mia vita come un fuoco d’artificio che dalle viscere sale al cuore e poi alla mente. Le ha parlato di me suo papà, Jeremy, così mi dice. Mi scrive di identità, di transizioni e di farfalle che spiccano il volo anche in inverno. Che incanto.
Chi è Vanessa? Chi è suo papà Jeremy? Perché mi scrive? Perché mi parla di farfalle?
Il lettore dovrà avere un po’ di pazienza, ma tutto sarà disvelato. Per farlo, è necessario partire dal mio illuminante incontro con Jeremy Olek.
Ho conosciuto Jeremy Olek nel maggio del 2020, a Huston, in piena pandemia Covid 19. Mi trovavo laggiù per partecipare a un convegno sul tema del diversity management nelle organizzazioni. Rimasi molto impressionato dal suo intervento. Per i contenuti, certo, ma soprattutto per il modo con cui scelse di comunicarli. Propose in particolare il tema dell’identità e di come, in fondo, la crescita di ogni individuo corrisponda proprio alla ricerca della sua essenza. Pose il tema con grande semplicità, raccontando la sua storia, non la sua storia professionale, proprio la sua vicenda di vita. Il modo genuino e quasi infantile col quale si mise a nudo di fronte alla platea, sorprese un po’ tutti. Sarebbe stato più facile raccontarci delle sue esperienze come alto dirigente di una delle più grandi compagnie finanziarie americane, ma no, Jeremy fece altrimenti e condivise col pubblico, in modo che definirei intimo
, la sua esperienza di vita. Raccontò in particolare di quanto la sua esperienza di padre adottivo abbia influito sulla sua crescita personale, ma anche professionale.
Un po’ tutti lo ascoltavamo con curiosità, ma io fui attratto in modo tutto particolare. C’era infatti una ragione in più che destava la mia attenzione, una singolare coincidenza che in qualche modo ci univa. Al termine del suo intervento, mi feci largo tra i tanti che si avvicinavano per complimentarsi con lui e riuscii a parlargli nel mio inglese maccheronico. Gli spiegai che anche io, come lui, avevo una figlia adottiva brasiliana e anche io, come lui, avevo una moglie keniana. Jeremy si dimostrò stupefatto e contento.
Mi prese in simpatia, tanto che la sera stessa, su suo invito, cenammo insieme. Mi portò in un ristorante spagnolo dove, mi spiegò, amava celebrare gli incontri o gli eventi importanti. Mi sentii naturalmente molto onorato e in effetti colsi la magia di quella locanda rustica ed elegante insieme, dove ogni parola, chissà mai perché, acquistava un peso più significativo. Forse in passato quei locali ospitarono qualche confronto intellettuale o evento spirituale e l’anima del luogo, il genius loci, vi permane ancora.
Sta di fatto che la sangria e lo cherry produssero i loro magici effetti. Jeremy mi parlava ispirato e la luce nei suoi occhi pareva illuminare l’intera saletta che ci era stata riservata. Ogni tanto, al fine di interiorizzare compiutamente le parole che ci scambiavamo, ci concedevamo qualche attimo di silenzio, momenti nei quali celavamo l’emozione dietro un sorso di sangria.
Fu davanti a un tipico piatto valenciano chiamato fideua negra, una paella di spaghetti corti, cotti nel nero di seppia, che mi chiese di me. Non so davvero come potè comprendere appieno le mie parole: come già dicevo, parlo un inglese tutto mio. Eppure sembrava attento e curioso, quasi catturato dai concetti che cercavo di esprimere.
Gli raccontai della mia attività di coach, di ciò che avevo elaborato sui temi della leadership e del talento e condivisi con lui i principi intorno ai quali avevo costruito il mio approccio al coaching.
Quando, iniziando ad argomentare, gli dissi che secondo la mia visione, people don’t change, mi guardò incuriosito. Strana affermazione per uno che fa il coach, deve aver pensato. Questo significa forse - proseguii - che volgendo il nostro sguardo a ritroso e rammemorando come eravamo, ad esempio, cinque anni fa, vedremmo la stessa persona che siamo oggi? Certamente no, ma oggi, rispetto a quella persona apparentemente diversa, non siamo cambiati, siamo cresciuti. Questione di lana caprina? Non credo. Credo infatti che gli individui crescano facendo l’esatto contrario di cambiare: cresciamo allineandoci progressivamente con la nostra più autentica essenza. Non è emulando modelli vincenti, ma che non ci appartengono, che possiamo ottenere risultati significativi. Il peggior originale è preferibile alla migliore imitazione. Quando osserviamo comportamenti inediti in una persona che ci aveva abituati altrimenti, siamo portati a pensare che quella persona sia cambiata, ma in realtà ha solo agito una parte diversa di sé che da sempre le apparteneva, ma che nella relazione con noi sceglieva di non esprimere o magari, succede, reprimeva. Ma allora, fa tutto il nostro DNA? Non abbiamo possibilità di influire sul nostro comportamento? No, no, non è certo così. Proseguii spiegando a Jeremy come individuals are manifold and contradictory. Ricordo che lui, ascoltando queste parole, si portò verso di me, appoggiando i gomiti al tavolo e aggrottando la fronte. Ho avuto la fortuna di frequentare alcuni allenatori di grandissimo successo nel mondo del calcio e della pallavolo. Da quell’esperienza nel mondo sportivo, ho appreso poche cose, ma quelle poche sono divenute fortissimi principi di riferimento. Tra questi, quello più ispirante è forse il seguente: ogni allenatore gioca le sue partite con i giocatori che ha e non con quelli che vorrebbe avere. Cosa significa? Significa, ad esempio, che per un allenatore, non ha senso spendere tempo a recriminare sui risultati che si potrebbero ottenere con una diversa rosa di giocatori: Ah se avessi questo o quel giocatore! Ah se quel giocatore fosse un po’ più…fosse un po’ meno…
Anche noi in fondo giochiamo con i giocatori interiori
che ci appartengono, che la sorte ci ha riservato. Sta a noi utilizzare al meglio i nostri giocatori
. In qualità di allenatori di noi stessi
, possiamo integrare le diverse attitudini di ciascun nostro giocatore interiore. Non ci comportiamo sempre allo stesso modo e in differenti contesti, emergono diverse parti di noi, talora fino a farci apparire persone diverse
- accompagnai queste ultime parole col gesto delle dita a indicare le virgolette - Ebbene, quelle parti di noi rappresentano i nostri giocatori interiori, l’integrazione delle parti rappresenta invece il nostro team interiore, il team di cui siamo gli allenatori. Non è poi così importante avere tanti giocatori di talento nel nostro team interiore, ciò che davvero conta è far giocare la partita giusta al giocatore giusto, valorizzando le diverse e peculiari attitudini di ciascun giocatore. Il viatico del nostro successo possibile, non consiste dunque nell’esortare noi stessi a cambiare, dovrei essere più…., dovrei essere meno…, non sono abbastanza…, sono troppo….
, non consiste nel reprimere questa o quella parte di noi, nel tenere un giocatore in panchina, il vero atto di volontà consiste nel mettere a frutto compiutamente ciò che davvero siamo: l’integrazione delle attitudini più autentiche di ciascuno dei nostri giocatori interiori, nessuno escluso. Attitudini più autentiche? Ma per migliorare, non è forse necessario eliminare i difetti?
Ormai ero un fiume in piena, stupito e orgoglioso dell’attenzione che stavo ricevendo, e argomentai al mio amico come people develop by enhancing talent, not by reducing defects. Jeremy mi guardò come se gli avessi letto nel pensiero, come se la nostra sintonia intellettuale avesse raggiunto la vetta estrema. Gli sorrisi e ripresi il mio eloquio, ma con un ritmo più lento. Non siamo i nostri limiti, siamo i nostri talenti,