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I Pellicani
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I Pellicani

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Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.
Giulio Mozzi
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2020
ISBN9788833861166
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    Book preview

    I Pellicani - Sergio La Chiusa

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    scafiblù

    ( 12 )

    © 2020 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di settembre 2020

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione cartacea: settembre 2020

    isbn 978-88-3386-115-9

    Edizione ebook: settembre 2020

    isbn 978-88-3386-116-6

    sergio la chiusa

    i Pellicani

    cronaca di un’emancipazione

    a Betti

    I

    Non che avessi intenzione d’installarmi in casa sua, intendiamoci, ma i miei impegni m’avevano portato nei dintorni e mi pareva scorretto non andare nemmeno a vedere come se la passava. Tutto sommato era pur sempre mio padre. Mio padre? Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo. A ogni modo m’immaginavo la sorpresa: vedermi comparire dopo vent’anni, realizzato nonostante il suo scetticismo, e con tanto di completo grigio topo e valigetta da manager. Anche se va detto che il completo era un po’ sciupato, per via delle notti passate in trasferta, e la valigetta conteneva solo pochi articoli di cancelleria rubati in ditta tanto per non andarmene a mani vuote, e una mutanda di ricambio, anche, per gli appuntamenti importanti. Ma non ci avrebbe fatto caso: la gioia di rivedermi avrebbe messo in secondo piano i dettagli, e anche se c’eravamo separati in malo modo scambiandoci ingiurie sulle scale non m’avrebbe negato ospitalità per una notte. D’altra parte il tempo risolve tutto, risana i rancori, rimargina le ferite, e non era per nulla detto che rimuginasse ancora sui risparmi che gli avevo prelevato dal comodino prima di partire, a titolo di liquidazione, per così dire. « Mi trovavo a passare da queste parti per affari », avrei spiegato esibendo con noncuranza la valigetta, che ora stavo usando per ripararmi da una pioggerellina molesta che intanto che ragionavo sembrava rammentarmi con una certa minuziosa pedanteria che non avevo nemmeno un soprabito. Ma che importava il soprabito? Papà si sarebbe congratulato per la mia carriera di cui valigetta e completo grigio topo erano sintomi indiscutibili, io avrei minimizzato scrollando le spalle con aria superiore: « Ah, la valigetta dici? Sciocchezze, pensa che ho solo messo su un’impresa d’import-export, roba da nulla », e avrei chiesto se per caso c’era ancora il mio letto, lui sarebbe filato tutto contento a preparare la biancheria pulita per l’ospite illustre e tanti saluti. Al mattino sarei ripartito per la mia strada. Perché io, sia messo subito in chiaro, sono un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore.

    Appena imboccai la mia vecchia via compresi subito che le cose erano cambiate. La modernità era arrivata anche qui con la sua smania di rinnovamento, e invece del noioso complesso residenziale costruito il secolo scorso c’era ora un’aperta area sterrata che lasciava molte più opportunità all’immaginazione e allo spirito imprenditoriale: mucchi di macerie, tubi, lamiere, piloni in calcestruzzo da cui spuntavano tondini di ferro, e, più in là, il mio vecchio caseggiato, che tuttavia, isolato com’era, illividito dalla luce dei lampioni, aveva l’aria di un sopravvissuto che se ne stava imbambolato tra scure masse d’immondizia. A quanto pareva avevano spianato tutto risparmiando per qualche strana ragione quell’unico esemplare, e un secondo, che lo sovrastava invero di parecchi piani, ma che, parzialmente rivestito d’impalcature, sembrava più che altro una torre incompiuta che incombeva da dietro come l’ombra di un disegno abortito. A ogni modo il mio caseggiato era ancora intatto. Anche se il vuoto che gli avevano scavato intorno lo rendeva precario e per così dire illegittimo, come se avessero voluto metterlo in ridicolo, esporlo alla pubblica disapprovazione: che s’aspettavano? che prendesse coscienza della sua vergognosa natura di residuo e si levasse d’impaccio da solo? Dal punto in cui mi trovavo vedevo solo il lato posteriore: nudo, privo d’aperture, dava in effetti l’impressione di una cosa poco seria, un muro dietro il quale non c’era nulla, insomma la parodia di un immobile e non un immobile credibile, tanto che bisognava raggiungere l’altro lato per accertarsi che esisteva sul serio e non si trattava invece d’un fondale, un pezzo di scenografia in disuso, abbandonato in mezzo al nulla. M’incamminai perplesso tra i resti del cantiere pensando che la memoria mi stava ingannando e che in verità non avevo mai abitato lì dentro, anche perché non si poteva abitare seriamente un luogo che non esisteva, e che dietro il muro avrei trovato nella migliore delle ipotesi delle vecchie attrezzature cinematografiche, carrelli e riflettori arrugginiti.

    L’ingresso però c’era ancora. Lo rintracciai incuneandomi tra relitti di mobili e sacchi d’immondizia. I citofoni erano stati smontati e dal riquadro spenzolavano fili elettrici tagliati che rendevano impossibile ogni contatto con l’interno. Ma il portone era aperto, trattenuto da un mattone che lasciava giusto lo spazio per un personaggio dalla corporatura smilza, come la mia, per esempio. M’intrufolai nello spiraglio e imboccai le scale. All’interno non pioveva, notai con sollievo, circostanza che restituiva al caseggiato un rassicurante statuto di realtà, anche se c’era un silenzio che mi sembrava invece poco realistico, come orchestrato per mettermi in risalto, e infatti i miei respiri vi risuonavano un po’ troppo nettamente, e anche i miei passi, troppo sonori, risultavano poco leciti persino a me stesso, e in certi momenti rimbombavano in maniera così sinistra che arrivavo a sospettare che qualcuno mi stesse seguendo su per le scale: chi? uno dei loro sottoposti? l’avevano mandato a riprendermi? non avevano capito nulla allora della mia natura di renitente? non sapevano che non ero tipo da lasciarsi convincere dalle loro chiacchiere? o pretendevano solo che restituissi gli articoli di cancelleria? magari s’erano accorti che mancava una spillatrice e, presi dal panico, avevano spedito uno dei loro galoppini a recuperarla. M’arrestai, per prova, e anche i passi s’arrestarono. Perché tanto silenzio? Per amplificarmi? mi chiesi, e ripresi a salire con la circospezione dell’irregolare che teme d’essere scoperto e la sensazione che l’altro, il galoppino, avesse ripreso a salire con me, anche se sapevo benissimo che i passi che sentivo erano i miei e che non avevano mandato nessuno a cercarmi.

    Lasciai perdere l’idea dell’inseguitore e mi concentrai sui caratteri di novità del caseggiato, che erano rimarchevoli. Intanto, mi pareva in rovina, anche se era un’impressione cui non dovevo dare troppo credito perché mancavo da molti anni e si sa che la memoria tende a idealizzare i tempi passati, e poi va detto che non vedevo nulla perché salivo a luci spente, tastando il muro con una mano per non perdere contatto con la realtà, mentre con l’altra portavo la valigetta con gli articoli di cancelleria e la mutanda di ricambio… A proposito: dovevo indossarla per l’occasione? Tutto sommato non ci si vedeva da vent’anni… Ma via! Non si meritava simili riguardi! La mutanda sporca andava benissimo! E comunque era buio e nessuno aveva modo di notare certi particolari. Nemmeno i vecchi inquilini, che magari a quest’ora, svegliati dai miei passi, stavano sgusciando in via eccezionale dai letti e ciabattando sino alle porte trascinandosi come tardi lumaconi d’interni: m’immaginavo le teste spuntare intriganti nei corridoi, protrudere le antenne, spiare l’irregolare che saliva a movimentare l’aria morta e convenzionale nella quale vivevano. M’avrebbero riconosciuto? e in tal caso, che conclusioni avrebbero tratto? che Pellicani, il piccolo, stava andando a bussare alla porta di casa dopo avere dissipato tutte le sostanze? andava a battere cassa, insomma? a ristabilirsi da papà? ma che avevano in testa? idee rimasticate? luoghi comuni? frasi fatte? Imbecilli! Ancora più imbecilli di come li ricordassi! E avevano pure l’impudenza di dire la loro! D’altro canto, mica potevano sapere che ero solo di passaggio.

    Man mano che ragionavo avevo assunto un’andatura ancora più circospetta, anche perché non avevo nessuna voglia di mettermi a discutere con certa gente, e quindi era meglio non svegliarli e lasciarli a macerare nella loro ignoranza, e inoltre, sebbene non vedessi nulla a dire il vero, le scale mi sembravano un poco pericolanti e temevo che certi tratti particolarmente imputriditi potessero cedere sotto il mio peso imprevisto, eccessivo per un luogo che per ora esisteva solo a metà… L’immobile comunque non aveva l’aria d’essere molto animato. Anzi, a dirla tutta, sembrava spopolato, come dopo il passaggio d’una pestilenza, un flagello che s’era portati via tutti. Dov’erano spariti? Deportati? Sfollati? Espatriati? Ammetto che l’idea d’aggirarmi in un immobile vuoto mi allettava. Avevo l’impressione di essere penetrato in un mondo in cui ero il solo sopravvissuto e ciò mi dava una certa importanza agli occhi degli altri. A un tratto mi venne la tentazione di accendere le luci e mostrarmi. Ah, la vanità! sempre dietro l’angolo, pronta a metterti un interruttore a portata di mano! Infatti, proprio in quel momento, mi si presentò sotto i polpastrelli il rilievo tentatore della placca. Ma mi trattenni e continuai a salire al buio. Anche perché, nonostante la prima impressione, l’immobile poteva essere pieno di presenze ostili, e tutto sommato mi sembrava corretto che uno come me, un renitente, per così dire, procedesse nell’ombra, a tentoni, superando varie e convenzionali insidie. Inciampai un paio di volte. Tuttavia, raggiunsi intatto l’ultimo piano.

    II

    Imboccato il corridoio, notai una luce provenire dall’ultima porta e m’immaginai l’imbecille che mi stava aspettando con la lampada accesa, trepidante per il ritardo, scrutando a ogni momento l’orologio. Dopo tanti anni non s’era ancora rassegnato? Mi veniva da ridere a pensarci. M’incamminai tuttavia con la massima serietà verso la luce che spuntava sempre più nettamente sotto la porta, e aveva, ora che ci pensavo, un’aria illegittima, e persino polemica, anche perché l’intero caseggiato se ne stava al buio e la luce vi risaltava come una nota di protesta, un’anomalia che in verità non s’adattava al carattere di mio padre, che per quanto ricordassi non aveva nulla di sovversivo e non amava nemmeno mettersi in mostra, ma piuttosto tiranneggiare nel privato, al chiuso delle mura di casa.

    Raggiunto l’appartamento potei verificare che c’era in effetti il suo nome, anche se a voler essere precisi era scritto a penna, e per di più su una strisciolina di carta che, attaccata con lo scotch su un’altra etichetta, aveva tutta l’aria d’una soluzione improvvisata. La porta inoltre non era chiusa, ma solo accostata, e anche questa era una circostanza sospetta perché mio padre non era tipo da lasciare porte aperte, e anzi aveva un’insana passione per le serrature e le cambiava così spesso e senz’avvertire che m’era capitato più volte di restare chiuso in corridoio ad armeggiare inutilmente con le chiavi sotto lo sguardo sospettoso dei vicini: possibile che non riesca a entrare? che non ce la racconti tutta, il furfante?… Misi da parte ogni riserva e mi decisi, ma, spinta la porta, mi ritrovai tutt’intero, incorniciato in uno specchio, e per un momento ebbi come l’impressione di non essermi mai mosso di casa, di essere io stesso lì ad aspettarmi: « Toh, chi si rivede! », sembrava volermi dire l’io rimasto in casa, anche se la valigetta che teneva in mano suggeriva che il tizio fosse invece in procinto di uscire e solo la mia comparsa l’avesse trattenuto. A meno che non stesse in casa con la valigetta per darsi il tono d’uno che stia per partire. Magari erano anni che stazionava lì in attesa dell’occasione di mostrarsi in pubblico, e solo per un caso sfortunato l’agognato pubblico s’era presentato alle tre di notte, un’ora in cui risultava poco credibile che uno uscisse per ragioni di lavoro. A chi voleva darla a bere con la sua valigetta? Sembrava in effetti impacciato, come sorpreso in una sua recita intima, un suo trastullo, come un signore di mezza età che, finalmente solo in casa, libero da obblighi e convenienze, si travesta per esempio da Batman e passi il tempo a rimirarsi il costume da pipistrello, tentando anche certi fallimentari voli domestici tra mobili e specchi. Per un attimo ci scrutammo sospettosi, poco convinti l’uno dell’altro. Poi conclusi che tutto sommato ero stato io a creare il personaggio con la valigetta e come l’avevo creato potevo comodamente cancellarlo appena la sua vista m’avesse stancato. Rassicurato, entrai senza troppo badare a quell’altro che chiudeva la porta rinunciando a uscire.

    Superato l’ingresso però due pantofole da pensionato mi si misero tra i piedi in un modo così spudorato che pensai subito a una provocazione. Sembravano messe lì premeditatamente. Le punte erano rivolte verso i vani interni, pronte per essere calzate, come per suggerire l’itinerario. Cosa stavano a rappresentare? un’indicazione stradale? un segnale? un monito? semplici pantofole, senza secondi scopi? e allora perché le aveva lasciate proprio lì? per i visitatori? perché non sporcassero il pavimento? Che mio padre avesse simili attenzioni era poco credibile. Tuttavia, mi tolsi le scarpe e provai le pantofole, che risultarono essere della mia misura. La coincidenza mi mise di cattivo umore, anche se bisognava riconoscere che le pantofole da pensionato erano piuttosto comode. Mentre i piedi si acclimatavano, io non perdevo tempo e valutavo la lama di luce che balenava sotto la porta della camera da letto. Dunque mio padre era in casa, e invece di dormire mi aspettava con la luce accesa. Bene. Ma perché non veniva a salutarmi? mi portava rancore? pensava ancora ai risparmi che gli avevo portato via? o mi scambiava per uno sconosciuto e se ne stava lì, chiuso in camera, terrorizzato all’idea che un ladro gli fosse penetrato in casa? Ma allora perché lasciare la porta aperta? Non era da lui! Non poteva trattarsi di mio padre! Impossibile! Doveva esserci un altro. Un irregolare magari. Uno che s’era insediato in maniera illecita nell’appartamento e ora stava valutando

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