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La passeggera
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La passeggera

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Horror - romanzo (188 pagine) - "Quando percorreva i corridoi del Paradiso o passeggiava sul ponte, quando la notte, nel buio della cabina, accanto a suo marito, non riusciva a prendere sonno, avvertiva le ali leggere della morte frullarle intorno. Allora le tornava in mente cos’era la vita quando le bruciava nelle vene e lei si consumava nella passione. Ecco, prima di finire per sempre, voleva, di nuovo, essere trascinata da quella dimensione incoerente e vertiginosa che sola riusciva a placare la sua ansia e quell’orrore del vuoto che ora aveva un nome. Morte."


Chi è la Passeggera, che naviga verso le Americhe sull’elegante piroscafo il Paradiso governato dall’altezzoso e integerrimo capitano Zocalo?

È Aquilina, la misteriosa bimbetta arrivata sulla nave come un catalizzatore di sventure, emissario diabolico di una volontà superiore che sfida la razionalità e la fermezza del capitano? È la bella e sensuale Marie Verdier, la francese moglie di un giovane imprenditore, accecata dalla passione, ricambiata, per il capitano Zocalo, che per lei sacrificherà i suoi principi e la sua stessa nave? O è la Morte, che ha preso le sembianze di un’epidemia velenosa e sconosciuta che divora corpi e menti dei viaggiatori, sprofondandoli nella paura e nel sospetto?

Tutto si lega, in questo romanzo tenuto sul filo della suspence. Anche il tempo del racconto: siamo nel 1914, la Grande Guerra è iniziata e il disordine del mondo si riverbera sulla nave e sul suo viaggio maledetto.


Daniela Frascati, nata ad Abbadia San Salvatore (Si), ha ideato e condotto per Radio Città Futura (1996) una trasmissione dal titolo “Il Pane e le Rose”. Vive a Roma dove ha lavorato come assistente parlamentare per un Gruppo. Ha curato, per lo stesso, un periodico dal titolo Inchiesta. Pubblica fin dal 2001 racconti in diverse antologie con altri autori, tra cui Camilleri, Carlotto, De Luca, Macchiavelli, Guccini, Marcialis, Ravera, Naspini, Machiavelli. Oltre ad alcune antologie personali ha pubblicato i romanzi Nuda vita ( ed. Absolutely Free), La Mala Eternità (ed Ensemble) e questo La Passeggera.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 29, 2020
ISBN9788825413137
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    La passeggera - Daniela Frascati

    Passeggera.

    Perché non l’ultima volta si deve raccontare, ma la prima. La prima volta che le cose accadono, quando accadono per sempre.

    La lunga attesa dell’angelo, Melania Mazzucco

    Prologo

    Il vento passò da 20 nodi a 40, il cielo s’ispessì di nuvole e una pioggia dura che tagliava la pelle cominciò a cadere.

    Un gruppetto di ragazzini si accalcava su uno dei ponti di copertino e guardava con stupore misto a paura le onde infrangersi sulle impervie scogliere a poco più di 6 miglia dal piroscafo.

    Il fragore dei flutti, nell’urto con i faraglioni, produceva un boato così possente da sembrare che le rocce si squarciassero.

    Era estate fatta e nessuno si aspettava una burrasca simile in questa stagione. Il vandeval, l’impetuoso vento che flagella il tratto di mare fra Tangeri e Tarifa, anticipava la forte depressione che avrebbero incontrato all’imbocco dell’oceano.

    Il passaggio dello stretto di Gibilterra, come per gli antichi marinai, conservava un patos inquietante e particolare; segnava il confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto. Ancor di più per quei Il vento passò da 20 nodi a 40, il cielo s’ispessì di nuvole e una pioggia dura che tagliava la pelle cominciò a cadere.

    Un gruppetto di ragazzini si accalcava su uno dei ponti di copertino e guardava con stupore misto a paura le onde infrangersi sulle impervie scogliere a poco più di 6 miglia dal piroscafo.

    Il fragore dei flutti, nell’urto con i faraglioni, produceva un boato così possente da sembrare che le rocce si squarciassero.

    Era estate fatta e nessuno si aspettava una burrasca simile, in questa stagione. Il vandeval, l’impetuoso vento che flagella il tratto di mare fra Tangeri e Tarifa, anticipava la forte depressione che avrebbero incontrato all’imbocco dell’oceano.

    I ragazzini abituati alla terraferma e cresciuti nell’ignoranza e nella miseria, fin da lontano avevano visto sorgere dal mare le sagome scure che interrompevano la piatta linea dell’orizzonte. Due montagne che parevano unite tra loro e, a mano a mano che il piroscafo ci si avvicinava, si separavano lasciando libero il passaggio alla navigazione. Affascinati da quella vista erano corsi verso il parapetto chiamandosi l’uno con l’altro e ora, ammutoliti e spersi, guardavano lo spettacolo, di una forza prodigiosa, che la natura offriva.

    Erano una dozzina, tutti maschi tra gli otto e i dodici anni, usciti come ratti dalla pancia della nave dove era confinata la terza classe ammorbata dagli odori dei corpi ammucchiati in promiscuità. Per cunicoli e paratie nascoste, la banda dei ragazzini aveva trovato la strada della cambusa e lì si saziava di ogni sorta di provviste. Quelle ruberie erano un gioco, una sfida all’ordine rigoroso che regnava sulla nave, ma anche il segno di chi è avvezzo ad agguantare la sopravvivenza in qualsiasi modo. Molti viaggiavano da soli, imbarcati per raggiungere un padre o un fratello nel Nuovo Mondo, altri, i più piccoli, erano al seguito di famiglie tanto numerose che la madre faceva fatica a contarli tutti.

    Attaccata alle loro calcagna un’unica femmina. Una bambinetta di cinque, sei anni. Un esserino scuro e brutto, tutta pelle e ossa e un cespuglio di capelli neri come un’ala di buio, che era comparsa dal nulla.

    Anche lei, arretrata in un angolo, guardava lo spettacolo del mare in tempesta. Abituata alla terra pietrosa e consumata dai venti in cui era nata faceva fatica a capire il mondo mobile nel quale era stata sbalzata. Un luogo aperto ma confinato, una prigione galleggiante, in balia di un mostro liquido che, scatenato, voleva inghiottirli.

    Seguiva il branco perché aveva trovato il modo di sfamarsi. Eppure era il loro zimbello. La torturavano con la cattiveria innocente dei bambini; la deridevano perché non sapeva parlare né fare i loro giochi. Ma ognuno, senza confessarlo, ne aveva paura.

    Se ne stava quasi sempre da parte, gelida e insondabile quanto l’acqua degli abissi e quando i loro scherzi si facevano troppo malevoli da lei spurgava un abominevole sentore d’incubo e uno spaventoso frullare d’ali riempiva l’aria e rintronava nelle orecchie come se migliaia di uccelli stessero per attaccarli.

    Intanto, i fulmini cadevano da ogni parte, non c’era distanza di tempo tra la luce e il tuono. Il mare era tutto un bagliore quasi si fossero spalancate le porte dell’inferno.

    I ragazzini erano terrorizzati; i più piccoli urlavano e strattonavano gli altri per tornare al coperto, i grandi fingevano coraggio ma, anche loro, non vedevano l’ora di scappare.

    All’improvviso, un rombo più violento degli altri squarciò il cielo sopra le loro teste e da lì vennero giù, come un solo corpo in caduta libera, decine e decine di gabbiani agonizzanti. Si schiantarono sulle assi del ponte in uno sfracello di carne e di piume. Lo stridio delle loro gole era un urlo di dolore.

    Il gruppetto addossato al parapetto era immobilizzato dal ribrezzo e dall’orrore. Poi, in preda al panico, ci fu un fuggi fuggi generale. Incuranti di dove mettessero i piedi calpestavano l’ammasso di uccelli, schiacciando teste, corpi, ali, in un impiastro di penne e sangue.

    L’unica che rimase fu la bambina.

    Si era fatto un silenzio innaturale. Anche le folgori cessarono; solo il vento schiaffeggiava l’aria con violenza.

    In quel silenzio scavato nell’occhio del tifone, la piccola avanzò in mezzo ai volatili, tra i morti e gli agonizzanti e, con compassione, ne prese uno tra le braccia. Lo cullava emettendo un suono perfettamente somigliante al loro verso.

    Fu un richiamo.

    A frotte altri gabbiani arrivarono. L’aria intorno al ponte ne fu satura.

    Volarono in cerchio sopra i cadaveri, si abbassarono e risalirono in spirali concentriche.

    Si udiva solo lo sbattere potente delle loro ali.

    All’unisono, lanciarono uno stridìo straziante; un acuto d’addio per i loro simili morenti.

    1

    Il piroscafo si chiamava Il Paradiso. Era una bella nave. Tirata a lucido perfino nella classe turistica dove si ammassavano i poveracci che andavano a cercar fortuna nelle Americhe.

    Il capitano Ippolito Zocalo la governava con perizia e autorità. Era un uomo alto con una pelle da vecchio, bruciata dal sole e ispessita dalla salsedine. L’austera fierezza con cui misurava le distanze tra lui e gli altri lo rendeva un uomo assolutamente unico. E solo.

    Il bastimento era organizzato secondo una gerarchia che procedeva per strati e compartimenti, separati tra loro da intercapedini comunicanti solo in alcuni punti strategici.

    Marie e Gérard Verdier si erano imbarcati su Il Paradiso dal porto di Marsiglia. Viaggiavano in seconda classe. Erano una coppia borghese molto affiatata. Lui, proprietario di una piccola industria di colori, aveva avuto l’occasione di espandere la sua produzione di vernici al fosforo attraverso un contratto con un ricco americano di Minneapolis. L’americano gli aveva proposto d’impiantare negli Stati Uniti un nuovo opificio e di perfezionare la vantaggiosa relazione d’affari che avevano instaurato. Così Verdier aveva colto l’occasione per trasformare quel viaggio di lavoro in una crociera fuori programma assieme alla moglie, che amava molto e non aveva voluto lasciare da sola nella nuova casa acquistata dopo i buoni esiti degli affari. Si erano imbarcati tutti e otto sul piroscafo. Loro due, i cinque figli, compreso l’ultimo nato di neanche un anno, e la tata, signorina Noëlle Beguin.

    Faceva molto caldo.

    Era il 12 luglio 1914.

    Solo sedici giorni più tardi l’Europa sarebbe entrata in guerra.

    2

    La bambina si chiamava Aquilina, avrà avuto sì e no sei anni e non era di nessuno. Si trovava su quella nave spedita come un pacco regalo al signor Alejandro Viamonte, fotografo ambulante a Perdida, sconosciuta cittadina ai confini del Nuovo Messico.

    Quando era salita sul bastimento aveva un fagotto di stracci, un talloncino di cuoio legato al polso con il suo nome e l’indirizzo del signor Viamonte, e un cartello appeso al collo, una specie di messaggio dai tratti svolazzanti che l’inserviente di un circo aveva fatto compilare dallo scritturale in servizio sulla banchina del porto.

    Il messaggio diceva: Per il personale della nave: questa bambina viaggia da sola, abbiatene cura. Tutte le formalità d’imbarco sono state assolte e il suo biglietto regolarmente pagato per la terza classe.

    Poi, quella specie di avviso scomparve e, senza quel segno di riconoscimento, sparì anche lei. Si mescolò alla teppaglia infantile che saliva ai ponti superiori dalla terza classe, spinta dalla curiosità ed estenuata dalla noia della traversata, andandosi a intrufolare negli angoli più oscuri e proibiti. In questo modo, mischiata al branco dei piccoli migranti che eludendo i controlli facevano razzia di viveri nella cambusa, si procurò il cibo e sopravvisse nei primi giorni.

    Conservava ancora legato al polso il talloncino con il nome e l’indirizzo cui era destinata. Qualcuno dei ragazzini più grandi, in quell’afasia analfabeta in cui tutti si dibattevano, era riuscito a fatica a decifrare la scrittura ampollosa con la quale erano vergate le poche righe e ora, un po’ per gioco un po’ perché quella bambina lieve e cupa come un alito di buio metteva soggezione, la chiamavano signorina Viamonte. Lei parlava poco perché dalla sua bocca usci vano parole tanto gutturali e aspre che tutti, di nascosto, ridevano e le rifacevano il verso. Viveva da clandestina. Nessun adulto, fatta eccezione per un vecchio che le sbavava addosso, notò la sua pre senza sulla nave, almeno fino alla mattina in cui l’addetto alla sala macchine, mentre scendeva a dare il cambio al suo collega della notte, la trovò a guardare l’orizzonte catturato dall’oceano. Da allora le sue giornate sul piroscafo divennero noiose e interminabili.

    Novilia, l’addetta alla pulizia delle camere cui il capitano Zocalo l’aveva affidata, la teneva malvolentieri. Quella strana creatura pareva non dormire mai. In qualunque ora della notte i suoi occhi ardevano come carbone vivo.

    Novilia, impaurita, si alzava a sedere sul letto facendosi il segno della croce: – Maria Santissima abbi pietà di una povera peccatrice – e giù a litaniare parole incomprensibili.

    La mattina quando cominciava il turno di lavoro e la lasciava sola nella cabina provvedeva a sistemare sul tavolo un’abbondante colazione, qualche libro illustrato e una bambola di pezza che, presa dall’entusiasmo del primo momento, aveva fatto con le sue mani.

    La bambina, indifferente e muta, non sfogliava nemmeno una pagina di quei libri pieni di disegni straordinari di cui Novilia era tanto orgogliosa e nei quali investiva una parte dei suoi risparmi; non mostrava la minima attenzione per la bambola; appena toccava quel cibo dal gusto dolciastro e appiccicoso. Beveva con avidità l’intero bricco di latte e, prostrata, si lasciava cadere sulla poltrona, cominciando a emettere un sibilo sottile, lungo e tenebroso, da sembrare pura immaginazione.

    La cabina diventava tutto un frullare d’ali. Ombre misteriose arrivavano da tutte le parti. Entravano attraversando la dimensione che quel suono spalancava. Nessuno poteva vederle perché l’indizio più insignificante di presenza umana le avrebbe fatte scappare. Ma il loro passaggio non restava nascosto.

    Appena Novilia metteva piede nella stanza sentiva l’odore carbonchioso che lasciavano nell’aria. Le prime volte si precipitava verso Aquilina, le tastava la fronte, le dava qualche schiaffetto leggero sulle gote senza colore, provava a farle bere dell’acqua. Poi, visto inutile ogni tentativo di farla tornare in sé e constatato che non correva pericolo alcuno, l’abbandonava a quell’inabissamento del corpo mettendosi a riassettare la confusione che si era prodotta nello spazio angusto e malagevole.

    C’erano brandelli di tessuto dappertutto, ma di una tale leggerezza ed evanescenza da sembrare che rilucessero. C’erano canapugli sparsi ovunque, e penne; piume di uno scurissimo colore fuligginoso e altre impalpabili e sericee come petali.

    Novilia moriva di terrore, ma non aveva il coraggio di raccontare a nessuno ciò che trovava nella cabina al suo ritorno. Faceva pulizia in fretta e andava a nascondere tutti quegli spennacchiamenti nei bidoni della spazzatura vicino alle cucine anche se non serviva a nulla.

    Appena apriva un cassetto o sollevava un abito da una sedia ecco che quelle piume inesorabili cominciavano a galleggiare nello spazio della stanza come cose di un altro mondo.

    Aquilina usciva dalla trance, ma i suoi occhi, due buchi neri senza fondo, vagavano ancora con le ombre.

    Novilia cominciò a tremare la volta che le raccontarono di un gabbiano morto trovato nella cabina dei signori Chapman.

    Per prima cosa si precipitò nel suo abitacolo con uno spaventoso presentimento, tutto, però, era nella più completa normalità. Anzi di più. Aquilina, afflitta di solito da quell’apatia che faceva pensare a qualche ritardo nello sviluppo, rigirava tra le mani la bambola di pezza e se la studiava con straordinario interesse. La giovane tirò un respiro di sollievo, salutò con un segno della mano la ragazzina che la guardava di sottecchi infastidita da quell’improvviso controllo, richiuse la porta con circospezione, si rassettò la divisa e camminò spedita verso la cabina dove era accaduto il fattaccio.

    Lungo il corridoio c’era un gran fermento. I signori della prima classe discutevano agitati.

    – Che scandalo, come si può permettere un simile affronto? – diceva un signore corpulento a un piccoletto in compagnia di un’affascinante bionda. – Quell’animale morto sul letto… È senz’altro un messaggio inquietante. Io non mi sentirei tranquillo nei panni di Chapman, avrà qualche nemico occulto; dicono abbia fatto investi menti azzardati e poco chiari.

    – Chi può dirlo! – rispondeva l’altro. – E se fosse un segno premonitore? Su questa nave ci sono troppe cose che non vanno. Troppa marmaglia nei bassifondi.

    – Mi ha raccontato Heilen Scott che stiamo tutti rischiando il contagio – aggiungeva petulante la bionda – giù non si contano più i malati. Quei pezzenti si sono imbarcati già infetti. Siamo un ospedaletto navigante. Sono ormai tutti preda di un male sconosciuto, un’epidemia dicono.

    Novilia chiese permesso e passò oltre. C’erano altri capannelli e molta agitazione anche tra il personale della nave.

    Arrivò affannata davanti alla porta della camera dei signori Chapman. Era una delle stanze di cui si doveva occupare da quando la cameriera del settore aveva cominciato a manifestare strani sintomi e il capitano l’aveva fatta sparire nel carname di terza.

    Dentro, in piedi, il capitano Zocalo, alto e imponente, la bocca serrata, una fenditura che tratteneva la collera. Un’ombra cupa negli occhi lo faceva apparire ancora più inaccessibile.

    Il signor Chapman camminava avanti e indietro teso e preoccupato. La moglie piangeva a piccoli singhiozzi, con studiata eleganza, seduta sull’ampio divano color pervinca, asciugandosi le lacrime con un prezioso fazzoletto di pizzo chantilly.

    Novilia entrò nella stanza in punta di piedi mentre il capitano Zocalo si era avvicinato alla donna e, accennando un leggero inchino di congedo, invitava il signor Chapman a seguirlo nel suo ufficio.

    – Torno subito, cara – disse l’uomo alla moglie con aria che voleva essere rassicurante e invece comunicava inquietudine.

    Non appena i due uomini furono usciti dalla stanza la signora Chapman si alzò con decisione e rivolta a Novilia che aspettava, ordinò: – Presto, tolga di mezzo quell’orribile copriletto.

    Il tono era carico di spregio quasi il tolga di mezzo fosse rivolto a lei. Indifferente alla sua presenza, si aggiustò le calze di seta fissandole alle giarrettiere e prese a riordinarsi la pettinatura che si era scompigliata durante il trambusto.

    Novilia sfilò via il copriletto di raso bianco, al centro del quale si potevano distinguere due macchioline di un rosso brillante, non senza provare un brivido d’orrore. Uscì dalla stanza per prendere il cambio dal carrello portabiancheria e rientrando colse nello specchio di fronte alla porta l’immagine della signora Chapman a bocca aperta, con il pettine sospeso a mezz’aria. Un vertiginoso mulinello di piumette veniva su dal letto dove, poco prima, avevano trovato il gabbiano morto.

    Novilia fu presa alla gola dallo stesso odore fuligginoso che da qualche tempo impregnava la sua cabina.

    – Che diavolo sta succedendo? – urlò la signora Chapman appena si fu ripresa dalla meraviglia. – Presto, presto, fermale! – e con gesti scomposti cercava di scacciare quelle nappette svolazzanti.

    Novilia non sapeva da che parte cominciare; tra sé, balbettò: – Signorina Viamonte, la vuoi finire? – e per miracolo quel biancume vaporoso si depositò sul pavimento.

    Stese in fretta il copriletto pulito, raccolse come poté le piume e fuggì via lasciando l’americana allibita.

    Attraversò il corridoio di corsa decisa a parlare con Aquilina, ma un ostacolo le si parò davanti.

    – Mi scusi – disse facendosi da parte per lasciar passare l’uomo in divisa.

    La voce sicura del capitano la trattenne.

    – Non va bene che il personale si metta a correre per i corridoi.

    – Mi scusi… Mi sono spaventata per quanto è accaduto ai signori Chapman.

    – Non è successo proprio niente. Un gabbiano morto. Cosa vuole che sia un gabbiano morto? Non diamo adito a dicerie; è solo un episodio increscioso, una stupida beffa per gettare discredito. Non c’è da preoccuparsi, è tutto sotto controllo. Continui il suo lavoro. – – Va bene, capitano – annuì Novilia facendosi rossa per il compiacimento di quel parlare confidenziale che il capitano aveva voluto rivolgerle.

    Rinunciò al proposito di interrogare Aquilina almeno fino a sera. Ma al suo rientro la trovò più malridotta del solito, con un visetto scosso e livido che la spaventò e la fece preoccupare. Inquieta chiamò Lorena, la sua amica infermiera.

    – Questa ragazzina ha bisogno di un buon sonno. È troppo affaticata.

    – Ma se non si muove mai da qui! – esclamò Novilia.

    – Devi occuparti più di lei o il capitano Zocalo si arrabbierà con te.

    – Speriamo che non abbia il contagio, piuttosto.

    – Non mi pare – la rassicurò – non ha febbre.

    Un paio di giorni dopo, la scena del gabbiano si ripeté, questa volta nella cabina di una signora di mezza età che viaggiava da sola. Il povero gabbiano, di una stazza ragguardevole, giaceva al centro del grande letto con un atteggiamento così umano da suscitare ribrezzo. Aveva avviluppato attorno alla testina ciondolante un grottesco fazzoletto di trina macchiato di sangue.

    La signora provocò un gran baccano, svenne,

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