Era di giovedì
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Era di giovedì - Andrea Fasoli
Andrea Fasoli
Era di giovedì
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Per te ragazza contraddizione,
non smettere mai di splendere
Perché ti ho e non ti ho
Perché ti penso
Perché la notte è qui ad occhi aperti
Perché la notte passa e dico amore
Perché sei qui a riprendere la tua immagine
E tu sei meglio di tutte le tue immagini
Perché sei bella dai piedi fino all'anima
Perché sei buona dall'anima fino a me
Perché dolce ti nascondi nell'orgoglio
Piccola e dolce
Cuore corazza
Perché sei mia
Perché non sei mia
Perché ti guardo e muoio
E peggio ancora muoio se non ti guardo amore
Se non ti guardo
Corazon coraza – Mario Benedetti
Premessa
Avevamo lasciato Roberto e Laura sulla terrazza del Gansevoort di New York circondati dall'affetto di amici vecchi e nuovi. Lo scrittore, grazie al suo smisurato amore, alla tenacia e all'aiuto di alcuni estranei conosciuti lungo la strada, era riuscito a liberare la donna dal folle tentativo di rapirla, e si era appena inginocchiato per chiedere la sua mano. A volte però la vita non va come le favole vogliono farci credere e, anche il loro matrimonio, dopo alcuni anni e tanti successi letterari, sembra arrivato al definitivo capolinea. Nella sua Milano Roberto, tentando di sostituire Laura, si butta a capofitto nella complicata e utopica ricerca della donna perfetta. Un viaggio omerico tra emozioni e incomprensioni che ben presto si tingerà di rosso sangue. Era di giovedì
è prima di tutto un percorso introspettivo, un viaggio non cercato ma necessario, come spesso succede nei momenti più difficili della vita, nelle pieghe della propria anima. Ci saranno dei bivi, dei temporali, delle scelte più o meno difficili da fare, potendo contare esclusivamente sulle proprie forze. É la presa di coscienza dei propri limiti e dell'umanità della sconfitta, terra fertile per ogni rinascita. É un giallo con diabolici e inspiegabili omicidi che insanguineranno e sconvolgeranno la città che però continuerà a viaggiare a tutta velocità come se nulla fosse mai accaduto. Ma Era di giovedì
è anche un viaggio nel mondo femminile visto attraverso gli occhi di un uomo innamorato dell'amore. L'unico sentimento capace di dare senso alla vita ma anche alla morte, l'unico per il quale vale sempre la pena uscire dalle proprie sicurezze e correre dei rischi. Un rischio non calcolabile, come invece credeva Roberto che, solo quando si affiderà all'incoscienza, troverà il modo per tornare a sorridere. Da molto tempo stavo pensando di dare seguito al mio primo romanzo Nessuno è mai solo
, quello più autobiografico, quello che è stato imbastito con le pagine dei miei diari, ma ho voluto aspettare l'occasione giusta per continuare quello stesso ordito. Il romanzo, come è giusto che sia, è intriso di fantasia, ma anche in questo libro ho voluto metterci qualcosa di mio, qualcosa di vero. L'ho scritto in pochissime settimane durante il lockdown perché, come sempre nei momenti più complicati, la scrittura si rivela un'ottima amica e un'infallibile medicina. Grazie, grazie alla scrittura, alle peripezie della vita e alle persone che incontriamo ogni giorno e che, senza che ce ne accorgiamo e senza che se ne accorgano, diventano speciali.
Capitolo 1
Quando riaprì gli occhi, si accorse che aveva perso la cognizione del tempo. Dovette aspettare qualche secondo prima di adattarsi al forte raggio di sole che entrava dalla finestra proiettando la sua gigantesca ombra lungo il pavimento di marmo. Le ginocchia gli facevano male, così a fatica si sedette sulla panca lasciando che la schiena trovasse sollievo contro lo schienale di legno. Lasciò che l'aria riempisse i suoi polmoni e poi la espulse con un lungo espiro, operazione che gli permetteva anche di tenere sotto controllo il frastuono dei suoi pensieri. Controllò, ma attorno a lui non c'era nessuno, allora diede l'ultimo sguardo al crocifisso ligneo poi abbandonò la panca. Provò a farsi leggero ma i suoi passi riecheggiarono nelle navate esattamente come nel suo cuore. Ma dove stava andando? Con ancora quel grande interrogativo a tormentarlo, si fermò sulla porta e uscì solo dopo essersi fatto il segno della croce. Roberto si incamminò lungo il marciapiede che costeggia via della Liberazione, a quell'ora ancora congestionata dagli ultimi impiegati che lasciavano i tanti uffici della zona. Il sole stava calando dietro alla Torre Unicredit, i suoi passi lenti sembravano proprio quelli che calpestavano il viale del tramonto, perché così gli appariva il suo destino, e le sue paure proiettavano ombre più grandi di tutti i grattacieli di Milano. Qualcuno che non conosceva lo riconobbe e lo salutò, il senso di educazione lo costrinse a ricambiare anche se si limitò solo ad alzare di un poco la testa allargando gli spigoli della bocca in un finto sorriso. Fortunatamente il suo appartamento era vicino, salutò Antonio alla reception e si infilò nel primo ascensore disponibile. I vetri all'interno di quella scatola
gli davano fastidio, più che altro era il suo riflesso in quei vetri, o quello che era rimasto di lui a infastidirlo, allora premette il tasto per il diciottesimo piano e non distolse lo sguardo dalle sue scarpe fino a quando le porte non si riaprirono. L'appartamento era più in ordine di lui, fatta eccezione per il letto che aveva lasciato sfatto. Uscì sul balcone, a quell'altezza l'aria si faceva più gradevole rispetto a quella respirata in strada, e rimase seduto con i suoi pensieri fino a quando il sole non scomparve definitivamente. Aveva insistito tanto con Laura per acquistare quella costosa casa proprio perché era molto luminosa, le tante vetrate permettevano la vista dei colori del cielo e una visione distaccata sulla città. Avevano scelto quella rivolta a ovest proprio perché il tramonto era il loro momento della giornata preferito, peccato che quello vissuto sul Gansevoort Park sembrava lontano alcuni secoli e non solo quattro anni. Abbandonare la periferia in cui si erano conosciuti non era stato affatto facile, nonostante il tenore di vita fosse decisamente migliorato, alcune abitudini erano state difficili da eradicare. Milano era una città che aveva preso definitivamente il volo verso una dimensione internazionale, i nuovi quartieri di City Life e Porta Nuova, dove avevano deciso di vivere, con i loro grattacieli, le architetture avveniristiche e gli spazi razionalizzati ne erano la cartolina. Tutto quel fervore e quell'elettricità perfettamente avvertita nell'aria, non erano solo il frutto di una società laboriosa e perennemente indaffarata, ma anche il frutto di un'attività artistica sempre più intensa e intenta a sperimentare nuove forme di bellezza. La sensibilità di Roberto aveva catturato tutta quell'energia e dopo il Diario di un uomo comune
anche le successive produzioni avevano ottenuto un grande successo. Oggi non era più considerato solo un bravo scrittore emergente ma a tutti gli effetti un artista stimato e influente. Quello che era successo a New York ovviamente aveva aiutato a portare il suo nome alla ribalta e la disavventura del rapimento, che era poi diventata un libro, era stata ripresa anche dal cinema che ne aveva tratto un film. Avrebbe voluto non vederlo perché, anche se non riusciva neppure lui a spiegarselo, la sola idea gli procurava molti turbamenti. Se mettere nero su bianco le emozioni di quei giorni lo aveva aiutato a superare il trauma, riviverle sul grande schermo aveva dilaniato la sua anima come una cicatrice riaperta. Alla prima di Los Angeles aveva resistito al desiderio di abbandonare la sala ma non era riuscito a trattenere le lacrime. Con il suo solito sarcasmo poi aveva dichiarato ai giornalisti che tutta quella commozione era dovuta al fatto che gli occhi di Olivia Wilde, seppur bellissimi, non avrebbero mai potuto competere con quelli di Laura. Occhi che capeggiavano in un dipinto che occupava quasi interamente una parete del salone principale. Ognuno vive le emozioni a proprio modo e con i propri tempi. Qualsiasi esse siano, arrivano come temporali improvvisi e quasi sempre improvvisamente se ne vanno lasciando solo un ricordo destinato a diluirsi tanto fino a scomparire. Roberto non si era mai abituato ai riflettori, stare al centro dell'attenzione lo metteva sempre in forte ansia e viveva con disagio le situazioni pubbliche anche se insistendo stava imparando a gestirle. Quello che invece non aveva ancora imparato era come giudicarsi. Per gli altri aveva sempre una buona parola e un buon pensiero in ogni circostanza, mentre per se stesso il metro di giudizio era corto, troppo corto. Quell'insicurezza di fondo lo spingeva a premere sempre sull'acceleratore alla ricerca di quella che per lui rappresentava la perfezione. Un lavoro immane, cresciuto di pari passo con la notorietà e di conseguenza con le aspettative, che man mano si era preso tutte le sue energie e ovviamente anche tutto il suo tempo. Per dirla tutta si era preso anche qualcosa che lui riteneva più importante delle energie e del tempo, si era preso Laura. La donna, dopo il matrimonio aveva resistito, aveva lasciato correre, aveva provato a essere comprensiva, aveva rispettato i suoi modi sapendo che lui si stava sforzando di fare altrettanto, ma aveva presto capito che si stavano infilando in un vicolo cieco. Allora aveva provato a reagire, gli aveva parlato più volte cercando di farlo ragionare, vedendo le sue crisi gli aveva consigliato di farsi aiutare, ma era finita per andare lei in terapia per curare le crisi di panico, fino a quando un giorno era scoppiata e se n'era andata senza nemmeno sbattere la porta. Passato lo shock, Roberto aveva provato a ricucire lo strappo ma sapeva di aver sposato una donna orgogliosa e a niente erano valse le sue suppliche e a nulla erano serviti i suoi tentativi. L'aveva persa e lui ne era l'unico responsabile. L'aveva persa per sempre. Sempre, il loro amore doveva essere per sempre, mentre adesso era il vuoto a esserlo. Non era riuscito ancora a parlarne con nessuno, si era chiuso nel suo silenzio isolandosi dal mondo, una cosa non così rara tanto che, con ogni probabilità, nessuno dei suoi amici si era preoccupato pensando si trattasse del solito momento creativo. Roberto rientrò in casa quando ormai si era fatto buio. Non aveva voglia di cucinare così recuperò il telefono per ordinare qualcosa a domicilio, ma proprio mentre stava per inviare la richiesta pensò che tutta quella solitudine fosse troppa anche per lui. Rinunciò all'ordine e compose il numero del Miscusi di piazza Minniti e prenotò un tavolo. Ci era stato parecchie volte con Laura, sapeva che si mangiava bene, non era lontano da casa e gli avrebbe permesso comunque di godersi una breve passeggiata. A parte le visite alla Chiesa, erano giorni che era rinchiuso in casa, vedere qualcuno poteva essergli sicuramente d'aiuto. Le speranze furono però disattese perché, subito dopo essere giunto al ristorante, il cameriere nel farlo accomodare gli chiese notizie di Laura costringendolo a mentire. Anche la vista di tutte quelle coppie felici intente a cenare guardandosi negli occhi non fece altro che angosciarlo. Mangiò velocemente, maledicendosi di essersi ficcato in una situazione prevedibilmente claustrofobica e uscì provando a evitare le strade e i luoghi più frequentati. Nella semi oscurità della biblioteca degli alberi, si sdraiò su uno dei grossi lettini di legno e rimase a fissare il vuoto. Poco più in là, nascosti dalle fronde dei salici, sentiva le chiacchiere di un gruppo di ragazzi e l'odore della cannabis che stavano fumando. Lui fissò l'ipnotica intermittenza delle luci di segnalazione sulla cima dei grattacieli senza smettere di pensare a Laura. Non sapeva se sarebbe riuscito a vivere senza i suoi occhi azzurri. Non sapeva niente, tutte le certezze erano crollate quando se n'era andata. Quello che aveva provato nei giorni del rapimento non era niente in confronto a quello che sentiva trafiggergli il petto in quegli istanti. Non c'era più nulla da fare, non c'erano banditi e rapitori da inseguire. L'aveva persa e il colpevole era solo lui e tutti i suoi stupidi limiti. Si mise a piangere. Le fontane di Gae Aulenti zampillavano a festa, le loro luci si specchiavano nei vetri dei grattacieli che parevano toccare il cielo. Perché tanta grandezza, perché tanta bellezza se mancava la pietra miliare della sua felicità? Avanzò un passo alla volta con uno sforzo disumano, gli sembrò che qualcuno avesse messo delle pietre nelle tasche dei suoi calzoni. Si fermò ancora. Il traffico della notte scorreva veloce lungo via Melchiorre Gioia, alla sua sinistra una gigantografia di Will Smith diceva che tutti i geni erano nati matti. Lui si sentiva molto matto e poco genio. Alzò la testa perché da lì poteva vedere casa sua. Quello che rimaneva di casa sua, quello che rimaneva della sua vita. Come erano lontane le passeggiate sotto i viali alberati di Lambrate con Laura che non finiva mai di parlare ingarbugliandosi in discorsi filosofici che lui amava ascoltare trattenendosi dallo scoppiare a ridere. Fece gli ultimi gradini e si infilò nella torre Solaria, Antonio era ancora lì al suo posto, attento e preciso come sempre.
«Buonasera Roberto» disse con gentilezza.
«Buonasera Antonio» rispose lui cercando di raggiungere il più velocemente possibile l'ascensore.
«Qualcosa non va?» Era praticamente impossibile che a quell'uomo sfuggisse qualcosa.
«Ma no, nulla di che» provò a giustificarsi.
«Sicuro? Ha una faccia.»
«Dice che sono stanco?»
«Le va un caffè?» Roberto sapeva che quella era la solita scusa per fermarsi a confessarsi.
«Grazie ma l'ho già preso, forse sarebbe meglio una camomilla» aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno.
«Credo proprio di poterla accontentare» armeggiò nella scatola delle capsule e ne estrasse due alla camomilla che infilò nel piccolo distributore automatico nascosto alla vista in uno degli armadi della hall.
«Dove andrà in ferie quest'anno?» Roberto provò a spostare la rotta di quella conversazione in realtà già scritta.
«Quest'anno siamo alternativi, facciamo un viaggio in Danimarca» usò il plurale senza aggiungere altre spiegazioni perché comunque la confidenza che avevano sviluppato nel tempo permetteva di omettere alcuni dettagli della vita personale.
«Una terra meravigliosa, sono sicuro vi stupirà!»
«Ci siete stati anche voi?»
«Sì, tre anni fa siamo stati qualche giorno a Copenaghen e Aarthus.» rispose Roberto sospirando a quei ricordi.
«Ecco qui la camomilla, aspetti che prendo anche lo zucchero» Antonio appoggiò i due bicchieri di plastica sul tavolo.
«A Copenaghen dovete assolutamente visitare i giardini di Tivoli.»
«Non ne ho mai sentito parlare.»
«È il più antico parco divertimenti del mondo, ma è anche uno dei principali centri di aggregazione della città. Se siete più coraggiosi di me, potete anche fare un giro sulle montagne russe.»
«Certo, ci andremo sicuramente» i due interruppero la conversazione e bevvero entrambi un sorso.
«Milano è vuota anche questo week end» Roberto cercò nuovamente di portare la conversazione su argomenti più futili.
«Vero, la situazione è tranquilla. Fino a quando il clima sarà questo, nei week-end ci sarà sempre l'esodo vero il mare.»
«Buon per noi che dobbiamo rimanere qui» ci fu un'altra pausa e bevvero nuovamente un sorso.
«Non vedo Laura da un po’» si intuiva quanto Antonio sapesse fare il suo lavoro, che evidentemente non era solo quello del portinaio, e chissà quanti segreti conosceva di quel palazzo e dei suoi abitanti.
«Già, anche io» rispose Roberto dopo aver bevuto quanto rimaneva della camomilla e aver riposto con un grande sospiro il bicchiere vuoto.
«Le donne sono complicate» disse Antonio fissandolo probabilmente per intercettare la sua reazione «dicono una cosa e ne vogliono un'altra, non dicono nulla e vogliono dire tutto.»
«Forse le donne non fanno per me, Antonio.»
«Non credo sia vero, lei ha tutto quello che le donne desiderano.»
«I soldi? La fama? I viaggi?» Domandò tristemente.
«Non solo quello, lei è anche una persona di un grande livello, è colto, sensibile e le sa emozionare.»
«Sono molto abile anche a farle scappare.»
«Sa perché?»
«No, non lo so.»
«Perché lei ci tiene troppo» rispose Antonio sarcastico.
«E cosa dovrei fare?»
«Farsi desiderare un po’ di più.»
Roberto capiva cosa volesse intendere l'amico, ma in realtà Laura lo aveva piantato perché si era sentita messa in disparte, scavalcata dalle attenzioni che dedicava al suo lavoro «Pensavo di aver dato tutto a Laura, in realtà ho sbagliato tutto. Lei voleva me e io nemmeno mi rendevo conto che mi stavo allontanando giorno dopo giorno.»
«Sono le persone a cui vogliamo bene, quelle di cui ci fidiamo di più, quelle di cui siamo più sicuri, che finiamo per trascurare.»
«Perché non mi sono reso conto di niente?» Roberto non faceva altro che tormentarsi.
«Perché quando vogliamo troppo bene rischiamo di dare tante cose per scontato.»
«Sì, forse ha ragione.»
«Vedrà che tutto si sistemerà» il receptionist cercò di consolarlo capendo dagli occhi lucidi di essersi spinto troppo a fondo.
«La ringrazio, adesso è meglio che vada» Roberto non ce la faceva più, doveva tornare alla sua solitudine per sfogare tutto il dispiacere «grazie per la camomilla, mi serviva proprio.»
«Buonanotte Roberto.»
«Buonanotte.»
Salì nel suo appartamento e oscurò tutti i vetri. La città là fuori gli dava fastidio, gli sembrava impossibile che continuasse a vivere, a muoversi a divertirsi senza sentire il dolore che lui stava provando. Si buttò sul letto senza spogliarsi con le braccia larghe, come se fosse stato crocifisso. Pianse ancora, poi si addormentò. Fu il suono lontano del telefono a ridestarlo. Lo cercò a tentoni scandagliando il letto con le mani e, ancora con la testa frastornata e gli occhi offuscati, provò a capire chi potesse chiamarlo alle tre del mattino anche se ne aveva il sospetto.
«Pronto.»
«Ciao Roberto, ti disturbo?»
«Ciao Dirk» i suoi sospetti divennero certezze.
«Stavi scrivendo?»
«No.»
«Cosa stavi facendo?»
«Dirk, a Milano sono le tre