Il ritorno dei Grandi Antichi - Parte seconda
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Fantascienza - racconti (251 pagine) - La seconda parte della nuova, grande antologia dedicata alla narrativa italiana ispirata a H.P. Lovecraft, curata da Gianfranco de Turris
Oggi, a oltre un secolo dalla pubblicazione del primo racconto di H.P. Lovecraft sui Grandi Antichi, i Miti di Chtulhu sono noti in tutto il mondo e scrittori delle lingue più diverse li hanno fatti propri. Tra questi anche gli italiani e la prima antologia di nostri autori dedicata ai Grandi Antichi risale a trent’anni fa (Gli eredi di Cthulhu, Solfanelli, 1990). Oggi, nel 2020, esce questa Il ritorno dei Grandi Antichi, che avendo raccolto ben 27 storie, alcune delle quali di una certa lunghezza, esce per Delos Digital in due parti, con i contributi in rigoroso ordine alfabetico d’autore, la prima dalla A alla G, la seconda, questa, dalla L alla V. Le storie, ovviamente, non hanno tra loro alcun collegamento di alcun genere se non quello di aver attualizzato e ambientato in Italia (quasi sempre), una mitologia dell’orrore che rende omaggio a H.P. Lovecraft, “questo genio venuto dall’Altrove” come lo definì Jacques Bergier che lo propose sulla rivista Planète negli anni Sessanta del secolo scorso, e alla sua immaginazione cosmica. (dalla prefazione di Gianfranco de Turris)
Gianfranco de Turris (Roma, 1944) è uno dei protagonisti del fantastico in Italia fin dagli anni Sessanta. Autore di numerosissimi saggi sul fantastico in generale e sulla protofantascienza italiana e l’ucronia in particolare, ha curato e scritto prefazioni di molti volumi di J.R.R. Tolkien, H.P. Lovecraft e Gustav Meyrink, ma anche di Daniel Halévy, Stanislaw Lem, Ayn Rand e Volt. Ha curato la sezione narrativa di Oltre il cielo e negli anni settanta insieme a Sebastiano Fusco diverse collane della casa editrice Fanucci. Ha collaborato con Linus e L’Eternauta. Nel 2004 ha vinto il Premio Saint Vincent per il giornalismo per il suo lavoro al Giornale Radio Rai.
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Anteprima del libro
Il ritorno dei Grandi Antichi - Parte seconda - Gianfranco de Turris
9788825413151
Nota del curatore
Quando Howard Phillips Lovecraft pubblicò nel 1917 il suo racconto incentrato su Dagon, un none non ideato da lui ma di una divinità mesopotamica, con ogni probabilità non sospettava di aver posto la prima pietra di un pantheon alieno che man mano si sarebbe accresciuto e organizzato grazie anche ad altri scrittori suoi amici. Erano gli Old Ones o Great Old Ones questi dèi indifferenti e terribili filtrati dalle stelle
. Nascevano così i Miti di Cthulhu
, come poi sarebbero stati chiamati, raggiungendo una vera popolarità che di certo nessun mostro
tanto disumano si sarebbe mai aspettato, nemmeno la Creatura del dottor Frankenstein (che almeno una parvenza umana possiede).
Oggi a oltre un secolo da quel primo racconto, i Miti sono noti in tutto il mondo e scrittori delle lingue più diverse li hanno fatti propri. Tra questi anche gli italiani e la prima antologia di nostri autori dedicata ai Grandi Antichi risale a trent’anni fa (Gli eredi di Cthulhu, Solfanelli, 1990).Oggi, nel 2020, esce questa Il ritorno dei Grandi Antichi, che avendo raccolto ben 27 storie, alcune delle quali di una certa lunghezza, esce per Delos in due parti, con i contributi in rigoroso ordine alfabetico d’autore, la prima dalla A alla G, la seconda, questa, dalla L alla V. Le storie, ovviamente, non hanno tra loro alcun collegamento di alcun genere se non quello di aver attualizzato e ambientato in Italia (quasi sempre), una mitologia dell’orrore che rende omaggio a H.P. Lovecraft, questo genio venuto dall’Altrove
come lo definì Jacques Bergier che lo propose sulla rivista Planète negli anni Sessanta del secolo scorso, e alla sua immaginazione cosmica.
Gianfranco de Turris
Il segreto del tassidermista
Giulio Leoni
Non è morto ciò che in eterno può attendere, e col volgere di strani eoni anche la morte può morire.
H.P. Lovecraft
– Ecco la chiave – disse l’amministratore. – Il casale è un paio di chilometri fuori del paese, lungo la provinciale. Non potete sbagliarvi, è l’unico edificio della zona. Potrete già effettuare una prima ricognizione dei lavori necessari.
– Pensavo d’incontrare prima il conte Morrini – fece l’architetto Cesare Marni con aria perplessa, prendendo la grossa chiave di ferro che gli veniva tesa.
L’altro gli lanciò un’occhiata sorpresa. – Il conte Morrini? Ma il conte è morto.
– Morto? Ma allora chi… – sobbalzò Marni, disorientato.
– Il conte è scomparso, da dieci anni. Si pensa che si sia smarrito nella selva del Lamone, sopra Ischia di Castro, e tre mesi fa ne è stata dichiarata la morte presunta. I suoi eredi hanno in progetto di recuperare l’immobile. Vivono su al Nord e hanno incaricato me, suo avvocato per molti anni, di tenere i contatti con voi e fornirvi tutto quello di cui potreste aver bisogno – rispose l’altro, stringendosi nelle spalle. – Del resto saprete bene cosa fare, architetto.
– Veramente non è troppo chiaro… ma chi ha fatto loro il mio nome?
– Credo un vostro ex compagno d’armi, nella Guerra. Oppure qualcuno che è stato anche lui volontario con d’Annunzio a Fiume – disse ancora l’avvocato. – Non saprei dire con certezza. Non vi accompagno – aggiunse subito dopo – la strada fino alla tenuta è sconnessa, il conte non vedeva mai nessuno e non ha mai voluto provvedere ad alcun lavoro. Non vorrei rimanere bloccato con l’auto. Comunque, l’edificio dispone della corrente elettrica e c’è un pozzo per l’acqua, dovreste aver tutto il necessario per il tempo del vostro sopralluogo. Per il soggiorno e i pasti c’è in paese la mescita, che ha una camera in affitto e, a richiesta, anche cucina.
Marni annuì, e si diresse verso la Gilera che l’aveva condotto sin lì.
– Sono sicuro che siate l’uomo giusto – lo sentì dire ancora alle sue spalle, in tono d’incoraggiamento.
* * *
Era risalito lungo l’Aurelia fino a Montalto, dove aveva fatto il pieno e riempito di benzina la latta di riserva legata dietro la sella, dubitando di poterne trovare più avanti. Quindi aveva abbandonato la statale e piegato verso l’interno, addentrandosi per una decina di chilometri in una delle zone più spopolate d’Italia. Quella Maremma un tempo preda della malaria e che tuttora era segnata da una completa desolazione, rotta solo qua e là da piccoli paesi di origine medievale, in genere poche case di conci di tufo aggrappati a una piazza e alla chiesa.
L’incarico che aveva ricevuto per posta era di provvedere alle opere di consolidamento di un antico manufatto rurale, di cui erano allegate le mappe catastali: una serie di piante e alzate risalenti al secolo prima, da cui si deduceva soltanto che doveva trattarsi di una sorta di grande casale, eretto probabilmente sulle fondamenta di un edificio più antico. Una breve nota vergata a mano faceva riferimento alla presenza di lesioni nella muratura e nelle coperture.
Per il resto, solo una tratta bancaria da valere come anticipo per le spese di viaggio e soggiorno, e il recapito di un avvocato del luogo, curatore della proprietà.
Aveva arrestato la motocicletta davanti all’ingresso dell’edificio, un portale di quercia segnato dal tempo ma ancora robusto, sormontato da uno stipite scolpito nella pietra peperina tipica del luogo. Come tipiche erano le imponenti muraglie in conci di tufo dell’edificio, una grande e solida struttura a due piani sormontata da un tetto a padiglione. Tetto i cui spioventi anche a un’occhiata esterna apparivano incurvati, sotto il peso delle tegole di cotto, con l’aria di essere ormai prossimi a cedere.
Unico elemento insolito, la scarsità di aperture. Al piano terra le poche finestre erano state tutte murate, e anche al piano superiore un’intera ala ne era del tutto sprovvista. Forse per timore di ladri, in una località così isolata, o forse come protezione dal freddo, in inverni che in quella desolazione non dovevano essere certo miti. Per fortuna l’amministratore aveva assicurato la presenza della luce elettrica all’interno, sempre che l’impianto e le lampade fossero ancora efficienti.
Fece scattare la vecchia serratura e varcò la soglia. Ma subito si arrestò, sconcertato.
Si aspettava una tipica casa colonica, con al pianterreno gli ambienti di soggiorno e cucina, e a fianco il deposito per gli attrezzi, la legnaia e il fienile, con le stanze da letto relegate al primo piano. Quello che si trovò davanti era invece un unico grande ambiente, interrotto soltanto da alcuni pilastri di sostegno dei solai superiori e occupato da lunghi tavoli su cui si affollava una grande quantità di forme indistinte, come statue allineate nella sala di un bizzarro museo.
La poca luminosità che entrava dalla porta spalancata rendeva difficile capire esattamente di cosa si trattasse. Cercò a tentoni un interruttore e lo fece scattare. Una dopo l’altra, una serie di lampade sospese si accesero, inondando di una luce giallastra tutto lo spazio.
Trattenne a stento un’esclamazione. Non si trattava di statue, come aveva pensato di primo acchito, ma di animali imbalsamati, decine di esemplari allineati in diversi stati di lavorazione. Opere complete in ogni particolare, con occhi vitrei che parevano rimpiangere la vita perduta, si alternavano a semplici abbozzi, elementari scheletri di fil di ferro che sembravano prepararsi a una vita non ancor definita, abbozzi che, invece di essere l’ultima testimonianza di esseri che avevano vissuto, apparivano come tentativi di un Demiurgo stranito, incerto sulle forme definitive da dare alle proprie creazioni.
– Un laboratorio di tassidermia – mormorò tra sé Marni. – Ma che diavolo…
Si guardò attorno, oppresso da una sottile inquietudine. Tra la massa di animali sparsi sui tavoli, mammiferi e uccelli, notò anche più di un esemplare esotico, che aveva visto solo attraverso le tavole dei giornali di viaggi e le illustrazioni dei romanzi d’avventura. C’era anche un settore riservato alla fauna marina, con pesci e crostacei dalle forme più bizzarre. Un insieme caotico e apparentemente privo di senso, simile più a una Wunderkammer barocca che non a una moderna raccolta scientifica. Chissà se anche il loro autore non avesse riservato un posto per sé, sospeso in eterno tra i più rari esemplari del suo museo…
Scacciò in fretta quel pensiero macabro e si volse a esaminare la struttura. Aveva dispiegato in un angolo libero dei tavoli le carte portate con sé. Ma si convinse subito che sarebbero state poco utili: nel corso del tempo l’edificio aveva sopportato un numero indefinito d’interventi, uno dei quali doveva essere stato l’eliminazione di tutti i tramezzi. In terra erano ancora visibili le tracce delle mura rimosse, di cui restavano solo quei pochi elementi che, entrando, aveva scambiato per pilastri.
Alzò lo sguardo, preoccupato dall’enorme peso del solaio che gravava sulla sua testa, adesso privo di quasi tutti i sostegni. Per cominciare, voleva farsi un’idea dello stato del tetto.
Sul fondo si vedeva una scala di mattoni, che lo condusse al piano superiore. Marni si fece avanti con cautela, saggiando il pavimento ad ogni passo. Il solaio sembrava sopportare il suo peso, e il piano conteneva, come aveva immaginato, le camere adibite alla vita quotidiana, ancora con le tracce di chi le aveva occupate.
Un primo ambiente doveva essere stato lo studio dell’antico proprietario. Una grande scrivania di rovere e una sedia di legno, che insieme a una libreria addossata alla parete costituivano il solo arredo della stanza. Faceva seguito quella che era stata la stanza da letto, sulla cui parete di fondo era appoggiato un alto scaffale, stranamente vuoto.
Si guardò intorno, perplesso. Al suo occhio abituato alle planimetrie qualcosa non tornava, la superficie complessiva del piano era palesemente inferiore a quella del locale sottostante. Eppure la parete di fondo non recava traccia di aperture che lasciassero presagire un altro ambiente al di là di esso. Colto da un’intuizione improvvisa, spinse di lato lo scaffale, che con un piccolo sforzo ruotò su dei cardini nascosti, rivelando una porta metallica dietro di esso. C’era affettivamente qualcos’altro oltre a quel che vedeva.
Si chiese il perché di questo occultamento, mentre saggiava la maniglia, senza riuscire a vincerne la resistenza. Forse il conte si era voluto ritagliare un buen retiro riservato, magari per dar corso a qualche sua altra passione meno commendevole? Magari con qualche signora del luogo desiderosa di discrezione, pensò, accennando a un sorriso. Il foro della serratura sembrava otturato da qualcosa, come se la chiave si fosse spezzata nella toppa o fosse inserita dall’interno. Provò ancora, poi scoraggiato fece ritorno nello studio, rinviando a dopo la soluzione dell’inaspettato mistero.
Il conte Morrini doveva comunque essere un uomo dalle vaste curiosità, a giudicare dalla mole di quanto giaceva sulla scrivania. Pile di libri e di riviste dalle vistose copertine multicolori, ingrigite dalla polvere, insieme a diverse lettere dalle buste con francobolli esteri, la ricoprivano completamente.
Ne prese una a caso, e vi diede una rapida occhiata. Era scritta in inglese, lingua di cui aveva una conoscenza appena superficiale. Apparentemente una corrispondenza di tipo formale, scritta a macchina su carta intestata, Weird Tales. The Unique Magazine: lo stesso titolo di una delle pile di riviste ammucchiate a fianco.
Incuriosito, Marni ne sfogliò una copia. Un centinaio di pagine fitte di testo, immagini, pubblicità di prodotti esotici. Ma era soprattutto la copertina a colpire l’occhio, una tavola a colori accesi, il cui autore sembrava indulgere a fantasie abbastanza corrive: in quello che sembrava un antro sotterraneo una donna seminuda, avvinta dalle spire di un minaccioso serpente, si contorceva disperata. E in primo piano ecco che accorreva il salvatore, brandendo una spada del tutto incongrua con il suo borghesissimo completo marrone.
Marni scosse il capo, con un sospiro. All’interno dalle immagini e da qualche parola che comprendeva ebbe la conferma che doveva trattarsi di una rivista di racconti popolari fantastici, grotteschi. Mostri, scienziati dall’aria stralunata, cimiteri… Oltre a esserne un lettore, il conte doveva anche aver avuto uno scambio epistolare con la sua redazione, a giudicare dalla corrispondenza che vedeva.
Cosa poteva avere in comune un singolare tassidermista con i redattori di una rivista di storie strampalate? Tornò a deporre la lettera, stringendosi nelle spalle.
Accanto alle riviste c’era un piccolo classificatore di legno, e dentro altra corrispondenza, tra cui un nutrito numero di bolle di spedizionieri e fatture commerciali. Ne sfogliò qualcuna, colpito dalla loro provenienza dagli angoli più remoti del pianeta. Sembrava che il conte, oltre che con il mondo della fantasia, fosse in contatto anche con tutto il mondo reale, da cui faceva giungere gli esemplari più strani per dar corso alla sua passione. Certo, doveva essere stato un uomo di larghi mezzi, per permettersi di farsi recapitare colli perfino dai lontani mari del Sud, anche se nell’arredamento spartano delle sue stanze non si scorgeva traccia di questa sua ricchezza.
Ma ora aveva altro da pensare, più che alle bizzarrie dell’antico proprietario. Le travi del tetto apparivano corrose dai tarli, e in più punti avevano già ceduto, ma per valutare il pericolo di crolli e i lavori necessari aveva bisogno di esaminare anche il tratto al di là della porta sbarrata. L’ostacolo era solido, e sarebbe stato necessario l’uso di una buona attrezzatura per averne ragione. Decise di tornare dall’amministratore, nel caso avesse lui la chiave.
– Purtroppo non so nulla della porta che dite, ho messo piede in quella casa solo poche volte, e non più da molti anni – disse l’avvocato, dopo averlo accolto nello studio. – E non ho altre chiavi, a parte quella che vi ho consegnato. Il conte era un uomo stravagante, lo avrete constatato. Non amava le visite, e non faceva nulla per nasconderlo. Aveva una sola passione…
– La tassidermia?
– Sì, ha dilapidato un’intera fortuna per procurarsi gli animali da imbalsamare. Almeno si fosse limitato a volpi e pappagalli; era sempre alla ricerca di esemplari rari, a volte unici. Li faceva venire dai luoghi più remoti, senza badare a spese. Ebbe anche dei guai, con le leggi che regolano il commercio di animali, ma riuscì sempre a cavarsela. Credo che avesse rapporti con ambienti abbastanza oscuri in quel mondo, ma io non ho mai voluto saperne, capite, con la mia professione…
Marni assentì con un cenno. – Per la porta vedrò di cavarmela da solo. Quanto al conte, m’è sembrato di capire che oltre agli animali imbalsamati coltivasse anche un altro interesse, la narrativa popolare, il genere fantastico. Ho visto un gran numero di libri e riviste di quel tipo.
L’avvocato accennò un sorriso. – Questo era un altro aspetto del suo carattere… originale. A volte sembrava un fanciullo mai cresciuto, parlava di quelle sciocchezze di cui si riempiva la testa con l’entusiasmo di chi ha scoperto una nuova religione. Quante volte l’ho visto alla fermata della corriera, in attesa che il postale da Viterbo arrivasse con l’ultimo numero delle riviste cui era abbonato, spedite addirittura da oltre oceano! Quasi con la stessa ansia con cui attendeva gli spedizionieri che gli recapitavano gli esemplari da imbalsamare.
– Strana passione. Avrei immaginato che seguisse pubblicazioni di natura scientifica, legate alla biologia – osservò Marni.
– Ma per lui quelle fantasie erano scienza! Negli ultimi tempi aveva addirittura iniziato una corrispondenza con i redattori di una di quelle riviste che riceveva dall’America. Volete sapere la verità, architetto? – mormorò l’altro, abbassando la voce. – Il conte Morrini era pazzo, ecco il fatto! E non mi sorprenderei se si fosse suicidato, nella boscaglia.
Dopo essersi accomiatato, s’era recato nell’emporio del paese, per procurarsi un piccone e un piede di porco. Poi aveva sostato nella mescita sulla piazza, per consumare un rapido pasto, ed era già il crepuscolo quando raggiunse di nuovo il casale.
La porta era solida, più di quanto avesse creduto a prima vista. Sembrava più quella del caveau di una banca che non la porta di un casale di campagna.
Attaccò la parte dei cardini con il piede di porco, ma questi erano più resistenti del previsto e non accennavano a cedere. Passò allora a usare il piccone per cercare a poco a poco di svellere dal muro lo stipite d’acciaio, in modo da liberare il riscontro del chiavistello. Il cemento con cui era stato ancorato alla parete era di buona qualità, e le grappe conficcate nel tufo lunghe e resistenti. Il lavoro procedeva lentamente, e non era neppure giunto a un quarto dell’opera quando dovette arrestarsi, piegato dalla fatica. Era madido di sudore, nonostante la bassa temperatura. Lasciò il piccone e si trascinò verso la sedia accanto alla scrivania, cercando di riprendere fiato.
Si stava sventolando con una delle riviste, quando la sua attenzione fu attirata da una lettera scivolata fuori dalle pagine. La missiva era in inglese, datata agosto 1925, ma negli intervalli tra le righe, scritte a penna con una grafia minuta, c’erano delle frasi a matita, di una mano evidentemente diversa. Probabilmente la traduzione del testo effettuata dallo stesso conte.
Mio caro signor Morrini, ho trovato sconvolgente la fotografia che mi avete inviato, e la descrizione che l’accompagnava. Esse confermano in modo inaspettato quanto da me scritto già anni fa, frutto allora di un sogno che ora non esito a definire profetico. Ma quello che mi avete rivelato va oltre i limiti del mondo onirico, ingenerando la terribile certezza che la realtà sia di gran lunga più orrenda della più perversa immaginazione. Il mare custodisce orrori ancestrali. Sto pensando di dar forma narrativa a tutto questo, nella speranza che in questo modo il mio grido d’allarme venga raccolto da un maggior numero di lettori, di quanto non farebbe un articolo scientifico. Aspetto con grande interesse, e confesso con non minore angoscia, altre vostre notizie in merito. Il vostro ansioso amico, H.P.L.
Marni depose la lettera. Chissà chi era quell’HPL che era stato così in confidenza con il tassidermista, e cosa potevano avere in comune i due? Prese a rovistare nel resto della corrispondenza, e trovò un altro foglio firmato con la stessa sigla. Qui lo scritto era accompagnato da una serie di disegni a penna, strani simboli del tutto indecifrabili e schizzi di quelli che sembravano improbabili fiori tropicali, oppure animali scaturiti da una fantasia malata, che conferivano un tono sinistro al testo.
Uno in particolare era ripetuto più volte, con piccole varianti fra le diverse versioni. Una sorta di strana forma bulbacea, da cui spuntavano peduncoli e altre protuberanze nella parte alta, che nell’aspetto ricordava un carnoso fiore tropicale. Sembrava che il misterioso HPL avesse tentato più volte di disegnarlo, correggendo ogni volta qualche particolare per meglio avvicinarsi all’immagine che doveva avere in mente.
Mancava la traduzione, ma la presenza di punti esclamativi quasi ad ogni riga sembrava provare un analogo stato di eccitazione del mittente, come nell’altra missiva. Solo un passo era stato voltato in italiano, verso la fine: – Sono convinto che sia in Antartide il centro dell’orrore, e tra i suoi ghiacci l’estremo rifugio della follia – seguito da una serie di coordinate geografiche che si riferivano a una latitudine nell’estremo sud del mondo. E poi, in chiusura, un altro breve passo: – State attento, il pericolo è grande, sia per il corpo ma soprattutto per la vostra mente!!!
Peccato non poter leggere quanto aveva scritto a sua volta Morrini, pensò, per suscitare tanto angoscioso allarme. Ma il conte non sembrava aver conservato copia della sua corrispondenza, concluse dopo un rapido esame delle carte sulla scrivania. Peccato, si ripeté, ma era tempo di riprendere il lavoro, se voleva tornare in paese prima di notte.
Tornò ad attaccare con rinnovata energia la cornice di cemento, che ormai cominciava finalmente a sgretolarsi. Dopo un ultimo colpo, la serratura cedette e la porta finalmente si aprì, ruotando sui cardini con uno stridio metallico.
Un passaggio oscuro apparve davanti ai suoi occhi, che sembrava immettere in uno spazio ampio e semivuoto. Solo al centro la forma confusa di un lungo tavolo, simile a quelli del piano inferiore. Si volse verso la parete, cercando a tentoni l’interruttore, facendolo scattare.
Mosse un passo avanti, prima di arrestarsi di colpo e arretrare contro la parete, puntellandosi con la schiena per non scivolare a terra. Soffocò un conato di vomito che gli era salito alla gola; poi, annaspando in cerca di aria, tornò a fissare la scena ora illuminata davanti ai suoi occhi.
Il centro della stanza era occupato da un lungo tavolo metallico, su cui era distesa una forma ributtante, una sorta di otre traslucido della lunghezza di quasi tre metri, coperto da una pellicola trasparente che lasciava intravedere le ombre confuse di organi interni. Alla metà del quale spuntava una corona di lunghi tentacoli, che ora giacevano inerti sparsi intorno al tavolo, mentre una delle estremità terminava con una protuberanza di forma pentagonale, ai cui vertici si aprivano quelle che apparivano come bocche orrende, fornite di denti affilati.
Ma non era solo l’aspetto ripugnante di quell’essere, uscito da chissà quale abisso marino, a riempire di orrore il luogo: accanto alle pseudo-bocche informi giaceva a pancia in giù il corpo di un uomo, abbandonato sul tavolo a braccia aperte.
Il conte Morrini! sussultò tra sé Marni. Ecco dov’è….
L’uomo doveva esser stato colpito da un malore mentre era intento alla sua opera di imbalsamatore, chiuso nel suo laboratorio riservato agli esemplari rari e proibiti e di cui nessuno sapeva l’esistenza. E si era spento da solo, tra i suoi mostri prediletti. Chi lo aveva cercato dopo la scomparsa, digiuno evidentemente di esperienze nel campo edile, non aveva immaginato che potesse esistere un altro laboratorio nascosto. Altro che suicidio nel bosco!
Facendosi coraggio si avvicinò al cadavere, cercando di non guardare verso l’essere disteso accanto. Il corpo dell’uomo appariva relativamente integro, conservato da una sorta di mummificazione naturale, il volto…
Si raggelò. Metà della testa era scomparsa. Come strappata via da un morso titanico… E frammenti delle ossa s’intravedevano ancora all’interno di una delle bocche orrende…
Morrini non era morto per un malore! Mentre inebetito si arrendeva a questa agghiacciante scoperta, percepì con la coda dell’occhio un movimento alla sua destra. Uno dei tentacoli si era mosso, sollevandosi da terra, e altri lo stavano seguendo, in un risveglio dagli inferi.
Gettò un urlo e fece un balzo indietro, inciampando e finendo a terra, per poi voltarsi con uno scatto disperato arrancando carponi verso l’uscita, mentre alle sue spalle qualcosa si stava muovendo con un sinistro sciabordio di acque ancestrali.
Appena fuori si gettò con tutte le sue forze contro la porta metallica, fino a richiuderla. Riuscì a puntellarla inserendo la punta del piccone tra l’anta e lo stipite, mentre dall’altra parte qualcosa vi urtava contro, facendola vibrare.
Era sconvolto, in preda a un tremito nervoso che per alcuni attimi