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Io, mio papà e il Wrestling
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Io, mio papà e il Wrestling

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Per 20 anni Michele K. Posa ha messo voce e competenza al servizio dei programmi televisivi di wrestling insieme al collega storico Luca Franchini e ad un tag team partner invisibile, nascosto e segreto: suo padre. La scomparsa di quest’ultimo diventa la scintilla d’innesco per una retrospettiva sul percorso che ha reso realtà un sogno professionale cullato sin da bambino, andando al contempo alla ricerca delle storie più significative che legano le star del ring ai genitori e ai figli. Partendo dalla metabolizzazione del lutto, l’autore rivela così curiosità e retroscena di alcune delle leggende della disciplina, da John Cena a Batista, da Daniel Bryan a The Rock, svelando le straordinarie vicende umane di wrestler sconosciuti ai più come “il greco dorato” Jim Londos, “il prete mascherato” Fray Tormenta o il combattente sordo The Silent Warrior.
LanguageItaliano
Release dateSep 21, 2020
ISBN9791280133182
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    Io, mio papà e il Wrestling - Michele K. Posa

    Sabino)

    PREFAZIONE

    Questo non è un libro, se con il termine intendiamo un mucchio di pagine ammassate col solo scopo di intrattenere e farci passare qualche ora lieta.

    Oppure questo è un libro, se con il termine intendiamo un insieme di pagine capaci di emozionare, far riflettere, accarezzare le corde del cuore fin dentro lo scrigno dei ricordi più preziosi.

    Mick ha iniziato a scrivere Io, mio papà e il wrestling pochi giorni dopo la morte del padre. Posa senior era malato da tempo ma la sua tempra e la voglia di vivere avevano fatto sì che andasse avanti ben oltre le più rosee aspettative. Ma poi il momento, quel momento, era arrivato. E non c’è niente che ti prepari alla scomparsa di un genitore, soprattutto se ci è sempre stato e si è comportato da vero PAPÀ.

    Per affrontare quel dolore, per metabolizzarlo a un livello più profondo, Mick ha fatto quello che da sempre fanno tutti i bardi: ha scritto, cercando di raccontare la sacralità della vita e dei suoi rapporti più stretti con brutale sincerità e senza timore di nascondere il dolore. E così è riuscito nel compito di esorcizzare parte di quella sofferenza con le parole, e inoltre ha regalato a suo padre l’immortalità che sa darti solo certa buona letteratura.

    E nel farlo ci ha messo dentro anche la sua grande passione: il wrestling. Quella pazza, assurda disciplina che ama e che ha saputo regalargli una vita pubblica ricca di successi e soddisfazioni davanti ai microfoni di Sky Sport e Cielo insieme al collega Luca Franchini.

    Nell’investigare e raccontare il rapporto di alcuni lottatori con il proprio papà, Mick ha trovato solidarietà e catarsi. Nello scandire le debolezze e la nostalgia di campioni come Ronda Rousey, Brock Lesnar, Booker T, Rey Mysterio, Daniel Bryan e tanti altri, Michele ha raccontato anche il suo di padre, così come quello di tutti noi.

    Ci ha preso per mano e accompagnato nella magia che è tipica della disciplina che racconta per mestiere, andando oltre la finzione dei personaggi e delle storyline, alla radice della vita, quella vera. Fatta di padri e figli. Difficoltà e lavoro duro. Speranze e frustrazioni. Frasi dette e non dette. Bambini oggi adulti che versano una lacrima ripensando alla stretta forte del loro papà quando li teneva in alto nelle sere d’estate, a osservare quelle stelle che custodivano le perle di quei meravigliosi sogni che si hanno da piccoli.

    Federico Traversa

    Sabato 2 febbraio 2019

    Non poteva che esserci la neve. Fredda, rapida, improvvisa. Al momento e nel posto giusto.

    È tutto così perfetto – mi ero detto, avanzando verso la chiesa con le scarpe zuppe di ghiaccio.

    Alleggerendo il cuore afflitto, immaginavo che quel clima lo avessi preteso tu. Come se fosse un modo per esortare gli indecisi a intiepidirsi rintanati nei propri alloggi. Come se fosse un invito ai presenti a non disperdersi, a starti davvero vicino. Come se, al termine della liturgia, volessi rapidamente allontanare chiunque.

    E ora fuori dalle balle – avresti poi aggiunto, imponendo ai convenuti con ruvida bonaccia di riprendere la propria quotidianità e di cogliere gli attimi fuggenti del qui e dell’ora.

    Infilando le mani in tasca, passando a fianco dell’oratorio, rovistavo nei cimeli dello ieri. Ti ricordi della grande nevicata del 1985? Una bianchezza soffice. Una delizia di zucchero. Le scuole chiuse e noi fuori ad edificare un pupazzo come mai ne ho eretto altri. Tu col badile, io con slancio bambino. E alla fine ricamammo il fantoccio con una sciarpa e un naso di carota. Chissà se lo battezzammo con un nome. Fatto sta che, quale totem e altare del mio entusiasmo, restò a sorvegliare l’ingresso di casa per parecchie settimane. Alfine si arrese al tepore di una primavera d’avanguardia, non senza una strenua lotta.

    Le campane richiamano svogliate i fedeli al raduno. Sarà un funerale modesto, con poca gente. Ho chiesto agli amici che non ti hanno conosciuto di far volutamente mancare la loro presenza. E sui social nemmeno una parola. Una cerimonia intima, dunque. Potremo allungare le gambe tra le navate e anche le statue dei Santi invidieranno la nostra comodità mentre gli ombrelli resteranno appoggiati ai muri a gocciolare.

    In tasca, al sicuro, custodivo il tuo ultimo pacchetto di sigarette. Le ho offerte a familiari e congiunti dopo il conclusivo alleluia, sul gelido sagrato, e le abbiamo fumate con commossa riconoscenza. Silenziosamente, calcolando i debiti contratti che più non potremo saldare.

    Camminare da solo, privo dell’ombra dei tuoi muscoli a darmi forza, mi fa sentire un assetato che vaga nel deserto. Un vento che diventa quiete. Un letto sfornito di cuscino e coperte.

    Ti ricordi di quanto ne avremmo avuto bisogno quella volta, una quindicina di anni fa? Tornavamo da una mia diretta serale da Cologno Monzese e fummo sorpresi dalla tormenta. Occupavamo un’auto da hobbit, di seconda mano, con esigui ed economici comfort. Una galea di legno nell’era della tecnologia. Pertanto accostammo a metà del tragitto e passammo lì la notte, rincasando nel primo pomeriggio con la preziosa collaborazione dei mezzi spargi-sale.

    Nella piccola Betlemme dell’abitacolo, carenti della scialuppa del riscaldamento, parlammo sino al sonno di come quell’hobby così eccentrico del wrestling si stava tramutando in un lavoro vero. Che film la vita! E come eravamo felici, anche con poco, con i debiti sino al collo e tutto il futuro davanti. Ma a quella gioia non facevo caso. La sua pienezza mi si è rivelata tardi. Come una musica celestiale che esce da un edificio lontano, che dimentichi presto, che ti bussa all’uscio a distanza di stagioni, senza motivo, e ti riga le guance con i suoi assolo.

    L’omelia del sacerdote è ridondante ma il cuore si conforta perché a fine messa potrò leggere il congedo che ti ho scribacchiato. Cinto a singhiozzi, occhi rossi e stille di patimento, le prove in solitudine si sono rivelate un disastro. Una strana grappa da bere a brevi sorsi. Stavolta, invece, mi controllo conformando il respiro alla volontà e raggiungo il traguardo esente da inciampi. Mi piace pensare che il pilastro della tua tenacia abbia sorretto pure in questa circostanza la mia malconcia arte narrativa, riaccendendone gli ingranaggi.

    Quando il carro funebre è partito non ho avvertito alcun sollievo.

    dalla Vita al Wrestling

    Sono numerosissimi gli incidenti stradali causati da neve e ghiaccio che hanno coinvolto dei wrestler sulle strade del Canada. Uno dei più famosi ha visto quale sfortunato protagonista Tokyo Joe che il 18 marzo 1974 perse una gamba proprio in un sinistro provocato da una bufera quando era sotto contratto con la Calgary Stampede, la federazione della famiglia Hart. Appesi gli stivali al chiodo, potenziato da una protesi, Joe diventerà successivamente uno dei più rinomati preparatori della sua epoca, insegnando i trucchi del mestiere ad intere generazioni di combattenti approdati poi in WWE.

    Grazie per avermi allenato e aver creduto in me quale prima e unica allieva. Non dimenticherò mai le tue lezioni di vita – ha scritto Natalya sul suo profilo Twitter nel 2017 non appena informata della morte del vecchio maestro.

    Sotto la sua guida ho superato alcuni dei training più duri che abbia mai sostenuto – ha aggiunto Davey Boy Smith Jr –. Lui era fatto così, voleva che ogni giorno diventassi più forte. Una volta mi ha chiesto: Chi è il tuo peggior nemico? Gli risposi: Non so, credo nessuno. E lui replicò: Davvero? Non hai nemici? In realtà sei tu il tuo peggior nemico. E lo diventi quando non dai il massimo, quando ti scoraggi, quando pensi agli avversari e alle difficoltà e non ti dedichi completamente a quello che fai. Talent scout per la New Japan Pro Wrestling (NJPW), Joe non solo ha affinato le capacità di campioni orientali quali Hiro Saito, Hiroshi Hase, Jushin Thunder Liger e Hiroyoshi Tenzan ma ha anche agevolato l’approdo in Giappone di tantissime star di origine o d’adozione canadese come Bret Hart, Dynamite Kid, Owen Hart e Chris Benoit.

    Tokyo Joe supervisiona gli allenamenti di un giovane Tyson Kidd.

    Inutile girarci intorno, è stato uno dei migliori trainer di wrestling al mondo – ha confermato il pluricampione dei pesi massimi Bret the Hitman Hart –. Vederlo disciplinare e istruire i suoi studenti era come osservare un’opera d’arte. Non ho mai incontrato nessun’altra scuola in questo emisfero che investisse così tanto tempo ed energie per il miglioramento degli allievi, abbinando ciò a metodi meticolosi quanto efficaci.

    Un’epocale tormenta di neve ha portato la WWE a cancellare la puntata di Raw del 26 gennaio 2015 e a cambiare location per quella di Smackdown prevista per il giorno successivo. Televisivamente parlando, Raw fu sostituito da un episodio speciale confezionato in studio contenente delle interviste e del materiale proveniente dall’evento speciale Royal Rumble.

    Nel corso della sua storia, che ha superato i 25 anni, in nessuna altra circostanza gli agenti atmosferici avevano portato ad una decisione simile.

    In una delle vicende più criticate tra quelle ideate dalla WWE, nel novembre del 1999 la federazione propose le immagini del (finto) funerale del padre di The Big Show che venne funestato da un’incursione di The Big Boss Man che arrivò addirittura a rubare la bara del defunto, agganciandola con una fune d’acciaio ad un’automobile per poi trascinarla via dal cimitero, inseguito inutilmente dal gigante.

    Questa, però, non è l’occasione più nota in cui la compagnia ha giocato con la morte. Nel 2007, infatti, Vince McMahon saltò in aria con la sua limousine che esplose poco dopo l’ingresso nel mezzo del capo della lega. Questo finale shock di Raw, accompagnato da un comunicato stampa che trattava quei fatti come legittimi, generò parecchia confusione nell’opinione pubblica tanto che in molti non riuscirono a distinguere la finzione scenica dalla realtà. L’arco narrativo previsto dagli sceneggiatori WWE, tuttavia, fu bruscamente interrotto dal decesso di Chris Benoit e dalle agghiaccianti scoperte emerse in seguito sull’omicidio dei suoi familiari.

    Restando in tema, è impossibile non aggiungere a questa lista macabra il nome di Owen Hart, scomparso durante l’evento speciale Over the Edge del 1999 prima di un match valido per il titolo Intercontinentale contro The Godfather. Il ragazzo, pronto ad esibirsi nei panni del super-eroe Blue Blazer, avrebbe dovuto calarsi dal tetto della Kemper Arena di Kansas City (in Missouri) utilizzando un’imbragatura progettata per farlo atterrare nel ring. Un errore fatale lo portò invece a precipitare per quasi 25 metri, perendo nello schianto. La causa legale che ne seguì venne risolta con un accordo tra le parti che risarcì la vedova del wrestler con 18 milioni di dollari.

    Domenica 3 febbraio 2019

    La pioggia lava le strade. Mi ci sazio protetto da una finestra mentre asciugo le palpebre alla luce dell’alba. Intanto l’aria attorno si fa nebbia e le nuvole del passato mi riportano a noi, sotto ad una pensilina, che senza ombrelli attendiamo che passi il temporale. Chissà cosa ci indusse ad andare in centro città con il bus. Sono certo, però, che restammo lì a lungo sino a che, stremati, tentammo la sortita. Ne vennero fuori una corsa a perdifiato, come anatre in fuga da uno sparo, i vestiti bagnati fradici e una doccia fulminea e rovente fatta a turno per non ammalarci.

    Accendo la Tv e su Cielo c’è Luca Franchini alla telecronaca di Raw e Smackdown. Mercoledì, mentre come adesivo incollava la voce alle gesta dei campioni, io al tuo fianco ripetevo di volerti bene. Tu non potevi già più parlare. Eppure bramavi replicare, ci hai provato quattro volte ma la bocca ha reso solo suoni muti. Così ti ho accarezzato la guancia sussurrando di non sforzarti, aggiungendo che ogni cosa che dovevi dire o fare l’avevi detta e fatta. Ti sei acquietato sorridendo, proprio come il ticchettio di queste gocce sulle imposte degli infissi.

    Mi definivi un tipo d’acqua. Colpa delle gare di nuoto giovanili. Della nostalgia perpetua per il mare. Del lago che ci saluta ogni mattina con boschi vanitosi che vi ci si specchiano a pavone. Delle estati in solitaria in Grecia tra miti, isole e avventure. Ti ricordi quando arrivai terzo al trofeo Nord-Padania? Fu una memorabile finale dei 100 metri dorso. Staccai male dai blocchi ma recuperai ad ogni virata, planando come un gabbiano in zona medaglia. E poi le congratulazioni del coach, i compagni che ti spettinano i capelli, la cerimonia di premiazione sul podio e la nostra allegria che si tramuta in un enorme trancio di pizza d’asporto da condividere.

    Ieri le onoranze funebri Galli mi hanno consegnato le foto commemorative da distribuire ai parenti. Ho approvato anche la disposizione provvisoria del colombario una volta che le tue ceneri verranno coricate al fianco della bara di mamma. So bene che sino a che ti è stato possibile camminare andavi ogni giorno a trovarla e se il calendario indicava una vostra ricorrenza le portavi in silenzio e senza clamore un fiore speciale. Tuttavia facevo spallucce, intendendo che quelle erano cose private tra di voi e che un’interferenza sarebbe stata sgradita come un crampo al polpaccio.

    Lo scorrere dei minuti si è fatto lento. Serro i globi oculari e al loro riavvio credo di aver sopito per ore. La sveglia mi gela con un responso che parla di pochi minuti. E ho la testa pesante, le gambe molli, il collo anchilosato. Chiuso e sigillato in un rammarico al colesterolo. Come se fossi precipitato in un’altra dimensione. È evidente che non so affrontare ciò che mi disorienta. Ogni tanto piango, per pochi attimi. Poi tutto torna come prima o quasi.

    Ti ricordi quella volta che affittammo un pedalò ad Albenga? Ci spingemmo sino all’orizzonte e ai miei dieci anni era concreta l’illusione di navigare verso l’infinito. Al ritorno in spiaggia non mancò la merenda con il cocco acquistato da un ambulante. Oggi il mio contro in banca grasso non può restituirmi niente di quell’abbondanza.

    Mi pare che il meglio della mia vita se ne sia andato in punta di piedi.

    dalla Vita al Wrestling

    Il wrestler nuotatore più famoso di sempre è probabilmente Lord James Blears, inglese che nel 1940 fu addirittura selezionato per la squadra olimpica senza però poter rappresentare la propria nazione a causa della Seconda guerra mondiale. Durante quest’ultima, affidandosi alle sue doti natatorie, riuscì persino a sopravvivere a un affondamento stabilendosi successivamente negli Stati Uniti. Qui, appoggiandosi all’amicizia con Stu Hart, diede il via ad una felice carriera nel ring che lo portò ad affermarsi pure come attore.

    Non solo: Blears e la sua famiglia sono stati anche tra i primi surfisti a divenire noti al grande pubblico (ottenendo il soprannome di first family of surfing). Il figlio Jimmy, ad esempio, vinse il campionato mondiale del 1972 mentre la figlia Laura, di una bellezza paradisiaca, sfiorò l’impresa in più di una circostanza. Ciononostante, è passata alla storia per esser diventata la testimonial della vodka Smirnoff, con la sua seducente effige in costume stampata sui manifesti diffusi in tutti i bar della nazione (le è inoltre attribuita una relazione sentimentale col wrestler Don Muraco). Trasferitosi alle Hawaii, per lustri Blears ha organizzato eventi di wrestling in quell’area vestendo altrove i panni del telecronista, del manager, dell’arbitro e del dirigente, interpretando una delle figure autoritative fittizie della All Japan Pro Wrestling per quasi trent’anni e lavorando a stretto contatto con Giant Baba e altri miti dell’epoca.

    Sono stato io ad aprire la strada ai wrestler americani in Giappone – ebbe a dire –. Organizzai il tutto con Rikidozan. Quest’ultimo mi conosceva, quando venne a lottare negli Stati Uniti lo fece qui alle Hawaii. Mi chiese di inviargli quattro ragazzi per un mese. Ci andai io con altri tre combattenti e fu la prima volta che il suo pubblico si trovò dinnanzi degli invasori da fischiare. Il resto è storia.

    Appesi stivali e monocolo al chiodo, James Blears è comparso nel film/documentario The Endless Summer del 1966, ancora oggi considerato una pietra miliare per la diffusione in tutto il mondo della cultura e dei valori dei surfisti, diventando così una figura di riferimento intramontabile in ben due discipline sportive differenti.

    Laura è stata la prima surfista a trasformarsi in una celebrità nazionale, con partecipazioni a noti programmi televisivi e un’apparizione senza veli sull’edizione di PlayBoy del luglio 1975. In foto, un pochino avanti con l’età, mostra con orgoglio un cartellone pubblicitario che la raffigurava nelle stagioni ruggenti della carriera.

    Una sua immagine in topless che sfida le onde sulla tavola divenne uno dei poster più venduti degli anni ’70 – ci ricorda l’Enciclopedia del Surf, confermando il successo della ragazza come icona trasversale della cultura pop americana.

    Attualmente ai margini della scena che conta, la Grecia ha regalato alla disciplina il leggendario Jim Londos, star del ring negli anni ’30 e ’40 e autentica calamita al botteghino grazie a fattezze statuarie sviluppate dopo durissimi allenamenti. Nativo di Argo, è da molti analisti considerato il più grande draw della storia del pro wrestling, ovvero l’atleta che ha movimentato con la sola presenza il maggior numero di tifosi verso arene, stadi e palazzetti sportivi.

    Tra il 1917 e il 1946 è stato il numero uno per incassi in tredici anni diversi – ha scritto a tal proposito Jim Cornette –. Riuscì nel solo 1931, durante la Grande Depressione dovuta al tracollo azionario della borsa di Wall Street, a smuovere per più di trenta volte un pubblico superiore alle 10mila unità. L’impresario Morris Sigel, che aveva base a Houston, ha stimato che Londos abbia fatto incassare oltre 5 milioni di dollari di allora, 90 milioni al cambio attuale, per eventi svoltisi tra il 1930 e il 1935, ovvero gli anni peggiori della crisi, quando la disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse il 25%.

    Tra il 1926 e il 1956 Londos ha saltuariamente combattuto anche nella natia Grecia, portando ogni volta folle oceaniche al Panathenaic Stadium di Atene. Il suo match clou è datato 22 ottobre 1933 quando, di fronte ad almeno 80mila spettatori (alcune fonti dell’epoca citano una presenza a ridosso dei 100mila), sconfigge Kola Kwariani in circa 46 minuti.

    Dopo la morte della madre Emilia, che in gioventù gli aveva ripetutamente salvato la vita, il pluricampione mondiale Bruno Sammartino iniziò a visitarne la tomba almeno una volta a settimana. Si fermava lì, a parlarle in italiano, ricordando di quando il suo coraggio mise al sicuro la famiglia durante il feroce stanziamento nazista nel paese natio di Pizzoferrato, in Abruzzo.

    Mia mamma ha dimostrato un coraggio da leone in circostanze difficili e critiche – ha spesso ribadito il fuoriclasse del ring –. I sacrifici che fece sono semplicemente straordinari. Onestamente, al suo posto, io non so se mi sarei dimostrato capace di fare quello che ha fatto lei.

    È la promessa di una madre che guarda negli occhi i figli. È un patto che chiede fede prima che fiducia. È la speranza che si fa parola dinnanzi ad una nuova, problematica scorribanda al villaggio durante il grande conflitto mondiale.

    Io ritornerò! Sempre. Così è stato anche quando una vedetta avveduta e attenta l’ha intercettata, conficcandole un proiettile in una spalla. Emilia (in foto con Bruno) non è caduta. Ha continuato a correre. A schivare le altre pallottole. A guadagnare un metro dopo l’altro per portare vivande e vesti alle sue creature. E quella volta che fu catturata e poi buttata su un carro insieme

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