Quattro Sette Otto
By Tea Provini
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Quattro Sette Otto - Tea Provini
sorella.
PROLOGO
Bianco neve.
Solchi profondi, veloci, lasciavano ghirigori che giocavano a rincorrersi sull’immacolato candore fino a pochi istanti prima ancora vergine. Le tracce scivolavano formando riccioli capricciosi che si intersecavano in perfetta armonia tra loro.
Una linea dritta, un ricciolo. L’attimo di sospensione, in attesa del momento perfetto e poi ancora giù a marcare il territorio; intorno, solo il lieve fruscio dato dai movimenti sicuri, rapidi. Ogni gesto era liberatorio, eppure programmato nel minimo dettaglio perché non vi fossero errori. Anche un solo sbaglio sarebbe risultato fatale e non se lo poteva permettere; non c’era solo il proprio futuro in ballo.
Già, il proprio futuro: era ormai segnato? Respirava a pieni polmoni per compensare la mancanza d’aria nel petto e attendeva che il cuore rallentasse appena i battiti prima di ricominciare. Un futuro spaventoso, minaccioso, eppure pensarci lasciava nell’immaginario un retrogusto dolce oltre la paura.
Una linea dritta, un ricciolo.
Se quello fosse stato il suo ultimo giorno sulla terra, con chi avrebbe voluto trascorrerlo?
1.
31 dicembre 2017
Dentro di me, solo silenzio.
Intorno a me, solo silenzio.
La stessa aria profumava di silenzio, di freddo. Il bianco che mi circondava era accecante, e solo gli occhiali da sole dalla candida montatura erano in grado di proteggere i miei occhi chiari dal riverbero del sole sulla neve. Lanciai uno sguardo al display del cellulare che segnava le 2:12 del pomeriggio, ben tre minuti dopo il presunto arrivo del pullman. Vagamente allarmata, mi domandai se avessi consultato correttamente gli orari sul sito internet; ero arrivata in treno fino a Bolzano dove un autobus avrebbe dovuto condurmi a La Villa, un ridente paesino in Alto Adige. La mia scelta di non utilizzare l’auto era stata dettata da un incidente avuto pochi giorni prima, che mi aveva costretta a trovare una valida alternativa in tempo utile; il viaggio era stato piacevole e mi aveva dato la possibilità di godere del panorama che, a poco a poco, abbandonava la pianura per far spazio alle catene montuose. Inoltre, non amavo guidare con la neve e quell’anno ne era scesa in gran quantità ammantando i campi che separavano una città dall’altra. Da La Villa avrei dovuto percorrere un tratto a piedi verso il rifugio che mi avrebbe ospitata per trascorrere la notte; speravo di non patire troppo il freddo durante la passeggiata dal momento che, nonostante avessi indossato abiti molto pesanti, sentivo dei lievi brividi che mi facevano saltellare sul posto mentre stringevo le gambe per limitare lo stimolo della pipì. Per smorzare la tensione mi concentrai sulle meravigliose case in legno dai balconcini adornati di fiori variopinti che mi riempivano la vista. A guardare il cielo terso, mi domandai se i meteorologi si fossero divertiti a fare terrorismo psicologico annunciando una tormenta nelle prime ore serali; eppure Mickey mi aveva più volte ricordato di portare abiti adeguati alla stagione.
Mickey. Era da parecchio che non lo vedevo; l’ultimo nostro incontro risaliva a sei mesi prima, a una rimpatriata con amici della nostra adolescenza, e ora stavamo per ritrovarci a passare addirittura il Capodanno insieme. Eravamo otto ragazzini che nutrivano grandi speranze per il futuro e trascorrevano il proprio tempo insieme facendo il bagno nel laghetto, suonando la chitarra e raccontandosi storie di paura intorno al fuoco. Nessuno giudicava gli altri per la propria storia personale, con la quale doveva fare i conti durante i mesi di scuola; eravamo liberi di essere noi stessi e ci volevamo bene per quello che eravamo. Per me la vita era quella fatta di risate, sguardi innamorati, di quell’euforia provata durante le vacanze il cui ricordo in attesa dell’estate successiva mi dava la forza di affrontare un altro anno in solitudine, velate prese in giro da parte dei compagni di scuola, e le proposte dei miei genitori per stimolarmi a uscire di casa e stringere amicizie di cui non sentivo il bisogno. Sapevo che i ragazzi del lago
– così avevamo soprannominato la nostra compagnia – mi avrebbero aspettato l’anno successivo e quello dopo ancora, ed era sempre stato così da quando avevo tredici anni fino ai diciotto. Poi il residence in cui alloggiavamo, ricco di chalet in legno perfettamente eco integrati nel territorio e gestito dai genitori di Mickey, aveva chiuso per fallimento e i nuovi proprietari ne avevano ricavato una Villa moderna che si prestava a location per matrimoni e pubblicità, e fruttava molto di più in termini economici. Joshua, il fratello maggiore di Mickey da parte materna, aveva dovuto rinunciare agli studi per lavorare in un negozio di vendita e riparazione di biciclette, suo grande hobby, e Mickey si era arrangiato a svolgere una serie di impieghi occasionali fino a quando aveva deciso di dedicarsi totalmente alla propria passione: la fotografia. Il suo talento era innegabile, e l’aver vinto importanti premi in giovane età aveva concretizzato la possibilità di farne una professione.
Dal primo momento in cui ci eravamo visti, in una squallida piazzetta del paese nella quale sorgeva il residence, ci eravamo tacitamente dichiarate anime affini
; a lui avevo dato il mio primo bacio, dettato più dalla curiosità che da vera passione, prima di decidere che eravamo destinati a essere solo buoni amici. Il tempo ci aveva dato torto dimostrando che eravamo ben più che amici: eravamo fratello e sorella. Figlia unica e troppo timida per stringere amicizie in una città dispersiva come Milano, avevo sempre sentito la mancanza di una figura di riferimento con la quale confidarmi e avevo trovato in Mickey il mio punto fermo. Mi bastava guardarlo per ricominciare a respirare quando ero in preda alle mille paranoie che il mio carattere tendente al pessimismo mi causava e, sebbene una volta chiuso il residence ci fossimo allontanati, spinti dalla costruzione di una vita adulta
, era bastato l’avvento dei social network per tornare a ricucire i rapporti, non solo con lui, ma tra tutti i membri del gruppo. Dopo tante chiacchierate sul gruppo Facebook e WhatsApp, ci eravamo ritrovati nel mese di giugno ed era come se non ci fossimo mai lasciati; avevo avuto modo di riabbracciare gli amici più cari e di conoscere meglio altri membri del gruppo con cui, da ragazzina, sembravo aver poco da spartire. Dovevo ammettere che con una persona in particolare avevo socializzato fin troppo, e il pensiero che a breve ci saremmo rivisti mi aveva tolto il sonno da un paio di giorni…
Una figura in blu in lontananza mi distrasse dal pensiero di quanto era successo appena sei mesi prima, e strizzai gli occhi affaticati dal bagliore della giornata per osservare meglio chi fosse. Forse era uno dei miei amici che, all’ultimo momento, aveva deciso di raggiungerci coi mezzi pubblici? A mano a mano che la figura in blu si avvicinava, notavo che non si trattava affatto di una persona in attesa del pullman, ma del pullman stesso; rabbrividii avvolta dal giaccone in piuma d’oca e, sfregando le mani per ritrovare sensibilità alle dita, afferrai lo zaino pronta a partire.
***
Mentre l’autobus saliva lentamente lungo i tornanti che avrebbero messo a dura prova lo stomaco di chiunque, ma per fortuna non avevano alcun effetto su di me, il mio naso stava schiacciato al finestrino come se volesse uscire dallo spazio ristretto dell’abitacolo per respirare l’atmosfera pulita dei quasi millequattrocento metri d’altitudine. Non mi capitava spesso di trascorrere le vacanze in montagna ed ero entusiasta di quell’opportunità; ricordavo che, dopo aver accettato la proposta di Mickey di passare il Capodanno insieme in un rifugio altoatesino, gli avevo chiesto se ci sarebbero stati tutti i ragazzi e lui, cercando forse di risultare ironico senza riuscirci troppo, aveva risposto: Sì, viene anche Maurizio
. Avevo percepito all’istante i muscoli del mio corpo tendersi, soprattutto quelli del basso ventre. Possibile che solo pensare a Maurizio mi agitasse a quel punto? Quel che era successo sei mesi prima era stato eccitante da togliere il fiato, ma era un capitolo chiuso a doppia mandata ed era stato Maurizio a stabilirlo; a suo dire, il suo stile di vita da musicista bello e dannato
non avrebbe agevolato una relazione e a me andava bene così, o meglio, me l’ero fatto andar bene. Ora, però, il pensiero di rivederlo mi turbava… Cosa avrei provato stando a stretto contatto con lui, per un’intera notte? Mi avrebbe potuta evitare limitandosi a qualche banale parola scambiata in compagnia, oppure mi avrebbe ricordato perché, quando eravamo ragazzini, era soprannominato il Bocca
sciorinando imbarazzanti aneddoti sulla nostra breve ma intensa notte di sesso, che avrebbero ucciso la sottoscritta di vergogna davanti ai suoi amici del cuore. Più importante, io cosa volevo che facesse Maurizio? Se ci avesse provato con me, gli avrei resistito? E perché, poi, avrei dovuto farlo? Erano sei mesi che non frequentavo nessuno e l’ultimo ragazzo di cui mi ero infatuata si era rivelato una delusione così grande da avermi fatto perdere ogni fiducia nel sesso maschile, per non dire nel genere umano; sarebbe stato così terribile se mi fossi concessa il bis con un musicista sexy e inaffidabile? Non avrei fatto del male a nessuno… anzi, del buon sesso di Capodanno avrebbe potuto, almeno in via temporanea, lenire le mie ferite sentimentali. Eppure, stupidamente, temevo l’opinione di Mickey; con me il fratellone sapeva essere tanto protettivo quanto saccente, dall’alto dei suoi undici mesi in più, e piuttosto che vedermi soffrire avrebbe preferito che mi chiudessi sotto una campana di vetro senza fare le esperienze che, sbagliando, mi avrebbero permesso di vivere e imparare la vita. Quando il suo bisogno di proteggermi si faceva eccessivo, non mi esimevo dal farglielo notare ribadendo nervosamente il concetto che non ero più una bambina, ma sapere che Mickey non approvava le mie scelte mi lasciava l’amaro in bocca come se sentissi di averlo deluso. Be’, avrebbe dovuto cominciare a farsene una ragione: avevo quasi trent’anni e quindi ogni diritto di divertirmi senza dovermi sentire, per questo, una ragazza troppo leggera. Mentre pensavo a come avrei gestito i miei sentimenti nei confronti di Maurizio e tenuto a bada la preoccupazione di Mickey al riguardo, mi abbandonai alla sonnolenza che, cullata dal dolce scivolare del pullman sulla neve, si stava impadronendo di me.
Quando mi svegliai, avvertii come un rombo di tuono all’altezza del petto. Il cuore martellava a un ritmo frenetico lasciandomi un ronzio nelle orecchie come una cascata in lontananza che, con un suono sordo, scroscia inarrestabile e furiosa. Dove mi trovavo? D’istinto mi alzai proprio quando il bus prendeva una curva stretta, ritrovandomi subito a sedere con un brusco sbalzo. Guardai fuori dal finestrino cercando scioccamente di intuire dove fossimo arrivati; non ero mai stata in quei luoghi e non avrei potuto capire quanto distante fossi dalla mia destinazione.
«Mi scusi». Rialzandomi e reggendomi forte ai sedili, raggiunsi il conducente che pareva non essersi nemmeno accorto di me. Guardai l’interno del bolide e notai che non vi era più nessuno oltre a me; speravo che non stesse andando in deposito perché altrimenti non avrei saputo come tornare indietro; a voce più alta ripetei le mie scuse per il disturbo e domandai all’autista quanto mancasse alla fermata. La Villa, disse, capolinea della corsa, distava ancora dieci minuti quindi non era il caso di preoccuparsi. Sembrava scocciato dal mio intervento, come se fossi una ragazzina ansiosa e sprovveduta… Così, anziché allietare la sua silenziosa guida con qualche chiacchera, mi rimisi accucciata al mio posto senza più distrarmi. Non avrei mai immaginato che il paese in cui ero diretta fosse tanto isolato dalla civiltà; era pur sempre una località turistica di quattromila anime, ma a osservare fuori avremmo potuto anche trovarci sull’Everest tanto era sconfinato il nulla che ci circondava. Ebbi giusto il tempo di rivolgere uno sguardo alla mia immagine riflessa nel finestrino per controllare che fossi accettabile e rendermi conto che aveva iniziato a nevicare fitto, prima che si intravedesse un agglomerato di abitazioni che preannunciavano il capolinea. Consultando l’ora sul telefonino notai che ero di poco in ritardo sulla tabella di marcia e, dopo essermi concessa un buon caffè nel primo bar del paese per fare pipì e scrivere al gruppo WhatsApp che ero arrivata a La Villa, mi misi in marcia.
Mickey mi aveva spiegato come raggiungere il rifugio; in realtà bastava attraversare il campo che si stagliava davanti alla fermata dell’autobus in direzione del bosco, e cercare la casetta in legno col pupazzo di neve che lui avrebbe creato come segno distintivo. Nonostante non fosse l’unica casa nel boschetto, saremmo stati abbastanza isolati da rendere necessaria una lista di informazioni per non sbagliare strada, così aveva distribuito delle pezzuole color celeste sui rami degli alberi da seguire: chissà quanto tempo aveva impiegato a disseminare quegli indizi? Era sempre stato appassionato di cacce al tesoro, ricordai sorridendo mentre entravo nella vegetazione; non avevo un buon rapporto con le boscaglie dato il mio carente senso dell’orientamento e, se non fosse stato per quegli straccetti che sventolavano dagli alberi così fitti, avrei avuto serie difficoltà a raccapezzarmi.
Un fruscio mi fece sobbalzare.
Cosa mai poteva produrre quel rumore? Scioccamente pensai di aver calpestato qualche rametto, ma guardando a terra ricordai che la neve fresca sulla quale stavo camminando attutiva i miei passi. I fusti erano ammantati di bianco, e mi guardavano silenziosi ma beffardi. Ero davvero troppo suggestionabile, ma odiavo la natura e quel che poteva nascondere.
Un altro fruscio, stavolta più vicino.
Mi voltai di scatto, il cuore in gola, rabbrividendo per il freddo pungente che il piumino non riusciva del tutto a placare e per la tensione. Quando qualcosa di piccolo e marrone mi balzò davanti, urlai come una pazza isterica. Un topo, Cristo santissimo! Provai a scappare, ma la neve rallentava il movimento degli scarponcini; mi sembrava di camminare nell’acqua solo che, a differenza delle passeggiate in mare, qui mi trovavo in pericolo di vita. La sola visione, il solo pensiero di quella bestia di Satana aveva avuto il potere di aumentare la mia sudorazione e il battito cardiaco, lasciandomi con un tremore diffuso in tutti i muscoli in preda alla scelta primordiale combatti o fuggi
; di combattere contro quel piccolo figlio di puttana non se ne parlava nemmeno. Mi restava la fuga, ma dove sarei potuta andare? E se ce ne fossero stati altri? Ecco che tornava, lo potevo vedere mentre cercava di nascondersi tra i rami di un albero segnato da Mickey. Se non se ne fosse andato da lì, non mi sarei mai potuta avvicinare all’albero e non avrei raggiunto il rifugio; l’unica soluzione era chiamare Mickey e domandargli se… La coda.
Ora che il roditore si era mosso, potevo osservare meglio la lunga, folta