La strage dei congiuntivi
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La strage dei congiuntivi - Massimo Roscia
California
LA STRAGE DEI CONGIUNTIVI
MASSIMO ROSCIA
La strage dei congiuntivi
di Massimo Roscia
© 2014 – Edizioni Exòrma
via Fabrizio Luscino 73 – Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
ISBN 978-88-98848-10-2
A tutti coloro ai quali
nessuno dedica mai niente
UNO
Uno, il principio, l’unità del tutto, l’essere, l’eterno. Uno, primo numero naturale dopo lo zero, sostanza che permea di sé la materia, atomo androgino da cui si originano tutti i numeri e a cui tutti i numeri fanno ritorno. Uno, suprema realtà trascendente, motore immobile, fonte di energia, radice della vita. Uno, ente dominatore dell’inespresso e dell’indifferenziato, prodigo si concede a noi nelle sue mortali spoglie di aggettivo numerale cardinale, sostantivo, pronome indefinito, articolo indeterminativo. Talvolta, invece, ci appare nella sua raffinata variante apocopata un – come, ad esempio, nel sintagma nominale «un omicidio» – per poi tornare subito a fondersi, con quella vocale finale figlia della traslitterazione del kana, nell’indistinto egualitarismo dell’assoluto.
Asclepiade di Mirlea
Acetato di feniletile. Sembra essere proprio acetato di feniletile. Le palpebre esitano, timidi boccioli al sole di un’avara primavera che s’attarda a concedersi. Le dischiudo dopo averle sbatacchiate più volte, in maniera goffa e frenetica, come le ali di una crisalide che ha appena indossato l’abito elegante della farfalla ma non sa ancora bene cosa farsene. Metto a fuoco lentamente le prime immagini opalescenti e trascino lo sguardo verso sinistra, con sofferta indolenza.
Eccole. La parola – con quella particella pronominale finale, flaccida e atona, abbottonata stretta all’avverbio – mi sfugge dalla bocca e riecheggia monodica come un canto gregoriano. L’ominide brufoloso che mi siede accanto borbotta non so cosa, mi scruta tra il sorpreso e l’irritato, mi trafigge con uno sguardo bieco, animoso, reso aguzzo dal disprezzo, poi molla la presa facendo spallucce e liquidandomi definitivamente con uno sbuffo altezzoso.
Eccole lì, ripeto abbassando opportunamente il tono della voce. A sei metri, forse sette. Su una scrivania similvittoriana, incastrato tra una pila stratificata di faldoni usurati da diverse generazioni di dita impiegatizie e il fondoschiena impolverato di un monitor sconfitto dal tempo e cateterizzato con cavi aggrovigliati, sta un vecchio vaso di porcellana con qualche foglia eziolata e cinque rose rosse ingobbite e imploranti. Andrebbero innaffiate, poverine. La dattilografa, dai boccoli vaporosi, le labbra perfidamente sottili e i modi civettuoli – un mirra/narciso 57, a occhio – sembra curarsi più del carminio artificiale delle sue lunghissime unghie smaltate, che del colore naturale ma ormai smunto dei fiori. Un petalo screziato si stacca e cade malinconicamente a terra trascinandosi dietro un carnoso e aulente ricordo. Nell’indifferenza generale la suola in tecnofibra di un passante lo calpesta, trasformandolo in poltiglia rossastra e rendendo la scena, nel suo insieme, ancor più triste. La bellezza sta morendo, ma nessuno sembra accorgersene.
Calendario da parete con i numeri ordinali romani; donna obesa un po’ Rubens e un po’ Lucian Freud che dorme sorreggendosi la testa con la mano paffuta e rigata da vene azzurrognole; ringhiera in legno tornito dallo stile rusticheggiante; uomo occhialuto che fissa nel vuoto; cartello di uscita di emergenza la cui freccia verde Islam è comicamente spuntata; bancone in tubolare di alluminio con pannelli in formica ricoperti di pedate; alcune sagome, dal profilo vagamente umano, sullo sfondo, a fungere da logori complementi di arredo. Altre immagini impietosamente fisse che puzzano di niente, altre paradossali rappresentazioni del tempo e del suo non-trascorrere.
Reagisco fischiettando motivetti natalizi fuori stagione e fuori luogo, facendo scrocchiare le dita, inarcando la schiena come un balenottero spiaggiato. Sono irrequieto. Mi dondolo sulla sedia, sbadiglio di continuo senza portare la mano davanti alla bocca, rileggo per l’ennesima volta il quotidiano sgualcito che urla in prima pagina la notizia del giorno, imparo a memoria l’oroscopo, le ricette e persino i necrologi. Mi sto annoiando e non faccio nulla per nasconderlo. Il collezionista di pustole con cui condividevo l’attesa – volgare dopobarba agli estratti di polipodio e artinella¹ – si è alzato ed è andato a sedersi su una panca in ghisa verniciata con resine epossidiche di colore ambrato, all’altro lato del salone. Metamorfosi di sentimenti. Me ne accorgo dallo sguardo. Il suo disprezzo si è convertito in timore e lui, di conseguenza, ha optato per un profilo più cauto continuando a contemplarmi a debita distanza. Non lo biasimo, in fondo non ha tutti i torti. Uno che parla da solo e che zufola jingle bells a maggio non ispira grossa fiducia. E comunque non facilita alcun dialogo.
Noia.
Noioso.
Annoiarsi.
In odius.
In odio.
Odiare.
Odio.
Io odio.
Sì, io odio.
Un altro sbadiglio, più lungo e tirato del precedente, a celebrare la fenomenologia della noia. Con una pressione laterale del polpastrello dissotterro il quadrante dell’orologio dal doppio strato in cotone elasticizzato del polsino. Le lancette girano. A rilento, ma girano. È già trascorsa un’ora senza che nulla sia accaduto. Continuo a galleggiare come un organo dissezionato, imbalsamato e immerso in un vaso di formalina. Galleggio nella noia. Niente. Pare si siano dimenticati di me.
Oh, what fun it is to ride in a one-horse open sleigh.
Dopotutto se sono qui è perché me la sono cercata e merito sia il biasimo, che la pena.
Bum, bum, bum.
Mi batto tre volte il petto, senza volerlo. Colpa mia, solo e soltanto mia. Giudicatemi, punitemi, fate di me ciò che volete. Sono serenamente rassegnato. In fin dei conti la punizione è come la terapia somministrata all’infermo: è giusta e guarisce l’anima. La punizione è giusta e guarisce l’anima. Lo ripeto, senza esserne troppo convinto.
La donna obesa un po’ Rubens e un po’ Lucian Freud ha cambiato posizione. Ora dorme poggiando fiaccamente la testa sull’altra mano. L’uomo occhialuto continua a fissare nel vuoto. La ringhiera, il bancone, il calendario, il cartello con la freccia spuntata e quelli che da lontano sembrano somigliare a esseri umani sono sempre lì, immobili, al loro posto, a subire gli eventi e lo scorrere inesorabile del tempo.
Dindolò, dindolò.
Continuo a dondolarmi come un deficiente e a rimediare occhiate di riprovazione. La punizione è giusta e guarisce l’anima.
Punizione.
Giusta.
Guarisce.
Anima.
Pensandoci bene, qualche dubbio resta. Chi stabilisce, ad esempio, se sono davvero malato? Chi? Avanti, ditemi. Chi lo stabilisce? E chi prescrive la cura? E qual è la cura più idonea? Continuo a congetturare. Rimetto i miei interrogativi alla clemenza di una giuria immaginaria. E dondolo.
Dindolò, dindolò.
Dondolo. A cavallo tra la veglia e il sonno, tra la lucidità e il delirio. In piedi, entra la corte. «Dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che ha cognizione della grammatica e delle sue regole non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli dèi si prenderanno cura della sua sorte».² Apologia di Socrate e di me stesso. A colui che ha cognizione della grammatica e delle sue regole non può accadere nulla di male. Io ho studiato e le regole grammaticali le conosco bene. Eccome se le conosco. Non ho nulla da temere. Già. Tutto questo avrebbe una sua logica se la terra girasse in senso antiorario, se i giudici si limitassero a interpretare oggettivamente la norma risolvendo le controversie in posizione di terzietà e se la parola punizione fosse sempre scritta con una sola z. Ma così non è.
I giudici che abitano il nostro mondo, un mondo che gira al contrario, probabilmente non hanno mai letto i Dialoghi
e forse neanche un manuale di sintassi. I giudici mi ritengono, al pari dell’Ateniese, col-pe-vo-le e hanno già interpretato la loro legge, hanno già decretato la loro giusta punizzione, hanno già preparato la loro letale dose di cicuta, hanno già stabilito che io non rientro affatto tra le loro priorità e…
Prendo fiato e rivolgo un’altra manieristica e farneticante declamazione a un uditorio inesistente. Procedo a tentoni lungo il corridoio della confusione onirica.
«O giodici, o miei protervi e temerarii giodici, o neghittosi e ribaldi calunniatori, o foschi ed appassionati detrattori, fermate il passo, drizzate il capo, acconciate il parruccone bianco fabbricato col crine del cavallo Pegaseo, voltate gli occhi, tirate il fiato e prendete la mira».³
Ma quale mira! Lo so. Con questa tragica vicenda dell’assessore, avete altro a cui pensare. Per voi io non sono l’imputato, per voi io non sono il colpevole, per voi io, semplicemente, non esisto.
Io.
Non.
Esisto.
Punto.
Dindolò, dindolò.
Continuo a dondolare restandomene comodamente seduto. La mia attesa sarà ancora lunga, si trasformerà in agonia. Ma merito davvero tutto ciò?
Torno all’orologio, a quei granelli di sabbia troppo spessi per passare attraverso lo stretto imbuto della clessidra, al tempo cristallizzato che non ne vuole proprio sapere di scorrere. Allora ripiego nuovamente sulla colpa, su quel vago concetto di responsabilità morale che talvolta viene maldestramente travasato nell’istituto giuridico. Riflettendoci con attenzione, la punizione dovrebbe essere proporzionata in base all’entità della colpa e la mia, tutto sommato, non può considerarsi una colpa grave. Credo. E poi non sono del tutto convinto che il castigo, qualunque esso sia, possa cancellare una colpa. La colpa resta. Nessuna punizione può restituire la purezza e l’integrità dell’innocenza. È come la verginità: una volta persa, non si riacquista più.
Forse aveva ragione Metastasio. Parte di penitenza è confessare la colpa, conoscerla, arrossirne. O forse no. Farò di tutto, farò del mio meglio, mi pentirò, arrossirò, confesserò, sarò punito, ma lo so già: resterò eternamente colpevole.
Giudici, colpe, punizioni, pentimenti… Donne obese un po’ Rubens e un po’ Lucian Freud che dormono, uomini occhialuti che fissano nel vuoto, banconi, calendari, cartelli…
Lascio correre la mente. Periodare franto, citazioni a singhiozzo, strutture ipotattiche, pensieri in libertà vigilata, congetture prive di connessioni, piccoli espedienti per tenere attive le sinapsi tentando di raggirare subdolamente il tempo. Ma il tempo è astuto, molto astuto e non si fa certo trarre in inganno dai miei giochetti inoffensivi. L’attesa si protrae. Ancora niente. Dia-mine. Il diavolo si fonde con il dòmine a voce alta, troppo alta. Mi tappo subito la bocca con il palmo e soffoco sul nascere l’esclamazione blasfema evitando così di attirare altri sguardi obliqui. Basta con le elucubrazioni e i dondolii, riprendo a fischiettare.
The horse was lean and lank, misfortune seemed his lot.
Il cavallo era pelle e ossa e il suo destino sfortunato.
Me lo ricorda anche la canzoncina di Pierpont.⁴ Destino sfortunato. La polizia è alle prese con l’omicidio del secolo e, neanche a farlo apposta, io mi ritrovo qui, proprio oggi, proprio qui, in stato di fermo, dopo una notte passata in cella con i chemiorecettori delle mucose nasali massacrati da pareti ammuffite, avanzi di cibo e di umanità andati a male, negazioni dell’esistenza, panni sporchi, carta straccia, mozziconi di sigaretta, lattine accartocciate, piscio, sperma, sangue e vomito, un vomito particolarmente ricco di muco, acido cloridrico, rennina, pepsina e chissà quale altro pestilenziale enzima digestivo.
Ora sono in questo pseudo-salone atemporale, libero dall’olezzo e dalle sbarre ma prigioniero dell’orologio, in attesa che il mio destino si compia risolvendosi nel gioco delle colpe e dei castighi. Da uno stato di cattività a un altro. Adesso i miei nuovi compagni di cella si chiamano andirivieni-incessante, attesa-snervante, vociare-molesto e, il più insopportabile di tutti, nessuno-sa-dirmi-nulla. Piccoli progressi verso la libertà? Me lo auguro. Ancora uno sguardo alle statiche lancette, l’ennesimo.
Tic tac, tic tac.
Ma non si vede nessuno. Tento di reagire all’inerzia tornando ai miei più abituali esercizi. Inspiro profondamente, a occhi chiusi. Niente più puzza di morte, solo semplici metaboliti secondari. Essenze resinose, intense, persistenti. Sono le travi di legno di conifera che rivestono il soffitto. Abete rosso, più probabilmente larice. Saturano l’aria, ma non sono le uniche sostanze volatili odorose che riesco a percepire. Valeriana, acido urico, ammoniaca… Sudore. Non ho dubbi. È sudore.
Riapro gli occhi e seguo a ritroso quelle tracce pungenti, molecola dopo molecola, fino alla fonte. Individuo con facilità il proprietario delle ghiandole apocrine sotto accusa. È lui, è il poliziotto che staziona nervosamente vicino alla monumentale stampantefaxscannerfotocopiatricemacchinaperilcaffè tutto-in-uno. Lo esamino con attenzione. Alto, magrissimo, ossuto e dinoccolato quanto un burattino di legno a grandezza naturale; di primo acchito, un’ordinaria acqua di colonia, di quelle che si comprano in saldo al supermercato rovistando tra le ceste delle offerte speciali, le giacenze di magazzino e gli articoli fuori produzione.
Il tutore dell’ordine armeggia con una cartuccia d’inchiostro. È palesemente agitato. La camicia blu avion è macchiata da due giganteschi aloni sotto le ascelle. Le tempie sono imperlate da goccioline ipercinetiche che, inglobandosi l’un l’altra come il mercurio, diventano un’unica goccia-madre.
Osservo la scena al rallentatore. La stilla di sudore staziona per un po’ sullo zigomo dell’infelice pierrot, poi viene giù. Riga il volto con la sua scia salina, si stacca dal mento ispido, cola sul linoleum e va a far compagnia al ricordo dei petali o a quel che ne resta.
Plop.
Continuo a scrutarlo. Si deterge la fronte con il dorso della mano ansimando spazientito. Sta inutilmente tentando di inserire la cartuccia. Ma è al contrario. Si vede da qui. La macchina si difende e, quasi schernendolo, gliela risputa indietro. Lui si guarda intorno e china il capo lasciando che i capelli lisci gli scendano davanti agli occhi come un sipario a fine spettacolo. Non ci sono applausi o richieste di bis. Il suo volto è rabbuiato. Al contrario i tre milioni di ghiandole sudoripare uniformemente distribuite sulla sua rinsecchita superficie cutanea si accendono e si spengono come luminarie natalizie. La flora batterica ascellare è in subbuglio. L’uomo suda copiosamente. Sbuffa. Sembra una centrale termoidraulica sul punto di esplodere. Sbuffa più forte. Si volta di continuo, convinto che qualcuno stia ridendo alle sue spalle. Ma, sebbene il commissariato oggi sembri la stazione centrale all’ora di punta, nessuno – eccetto il sottoscritto – lo sta degnando della minima attenzione. Spiacente. Senza pubblico non c’è teatro.
Insiste. La sua tenacia è comunque lodevole. Ruota la cartuccia ma, ancora una volta, nel senso sbagliato. Mi fissa per qualche istante e io ripago la sua tragicomica inettitudine con un sorriso appena accennato. Niente da fare. Non riesce a venir fuori dal quel circolo vizioso ansia-sudore, sudore-ansia. Alla fine, quando gli aloni umidicci e scuri si sono ricongiunti dietro la sua schiena gracile in un unico grande arabesco di matrice kandinskiana, rinuncia definitivamente, molla la capricciosa cartuccia e si allontana agitando con furia le braccia. È un canneto strapazzato dalla tramontana.
Wooosh.
Il brusco mulinare di quegli arti esili e nervosi genera un violento spostamento d’aria. In una delirante sinestesia, sento le sue ascelle ululare, vedo le onde fetide illuminarsi, avvicinarsi ineluttabilmente, raggiungermi, colpirmi. Puzza. È un afrore penetrante, fastidioso quasi quanto un congiuntivo invertito con un condizionale.
Per fortuna il lezzo dura solo un attimo, poi viene assorbito del tutto dall’oleoresina naturale di benzoino. L’aroma arriva a folate intermittenti ed è piacevolmente dolce, vanigliato e balsamico. Troppo facile: è carta d’Armenia. Eccola lì. Piegata a fisarmonica, lasciata convenientemente in un posacenere a deodorare un ambiente che ne ha davvero bisogno.
Rosa, larice, sudore e papier d’Arménie. Quattro su quattro, un k altissimo nella scala olfattometrica di Kreutz.⁵ E senza contare profumi e dopobarba. Ho rilevato distintamente tutte le sostanze odorose, ne ho valutato intensità e provenienza, ho proceduto al loro riconoscimento. Infallibile, come sempre.
Del resto la natura non fa mai nulla per caso e io ne sono la riprova vivente. Non ci credete? Vi basti il mio identikit. Ho un naso smisurato, fisicamente smisurato intendo, conficcato al centro del viso ma portato con discreta disinvoltura. Mi tocco l’elefantesca proboscide per verificare che sia ancora al suo posto. È lì, immobile, baricentrica, dominante, totemica. Il mio volto – sormontato da una capigliatura di un castano sbiadito, arruffata e infeltrita come un vecchio berretto di lana fatto ai ferri dalla nonna – ruota intorno al monumentale triangolo di pelle e cartilagine. Completano la disarmonica simmetria due braciole di maiale, grandi, rosse e penzolanti, attaccate ai lati della testa al posto delle orecchie, che mi fanno somigliare a una di quelle maschere tradizionali zairesi utilizzate nei riti di iniziazione dei giovani guerrieri. Non si può certamente dire che io sia un bell’uomo, decisamente no, ma la natura segue sempre un suo schema logico e fortunatamente si diverte nel gioco delle compensazioni. Dove ha risparmiato in estetica, ha voluto e saputo riequilibrare con altre capacità. Avrò anche un nasone, due orecchie a sventola e un’improbabile zazzera, ma mi tengo stretti il mio olfatto ipersviluppato, un buon udito e un altrettanto buon senso dell’umorismo, una casa di proprietà tre-vani-doppi-servizi-e-cucina-abitabile in un quartiere residenziale, un discreto gruzzolo in banca, due lauree e un quoziente intellettivo abbondantemente sopra la media. E poi io non sono così maldestro. Io le cartucce delle stampanti le so cambiare.
Metto le narici a riposo. Modifico ancora una volta le priorità sensoriali attivando i miei giganteschi padiglioni auricolari. Gli odoranti cedono il passo a migliaia di onde sonore che provengono dal salone prospiciente e si insinuano nel condotto uditivo fino alla membrana timpanica. Vibrazioni, cellule, fibre, nervo acustico, segnali bioelettrici e cervello.
– Io… rinnovare… permesso… soggiorno.
Soffio di vento, finestre che sbattono.
– In fondo al corridoio, terza porta a sinistra. Dopo il distributore automatico di bevande. C’è scritto Ufficio stranieri.
Driiiin.
– Commissariato di polizia, buongiorno.
Brusio multietnico in sottofondo.
– Il giudice ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere.
Il cigolio di una poltroncina reclinabile poco oliata.
Driiiin.
Qualcuno che impreca in una lingua che non conosco.
– No, Sardellitti non c’è, è andato alla sacar.⁶ Passala all’anticrimine.
Uno starnuto.
– Voi due potete andare.
Ticchettio scalpitante sulla tastiera di un computer.
– Tocca a lei. Avanti.
Tubi al neon che friniscono come cicale impazzite.
– Voglio il mio avvocato.
Un altro starnuto.
– Non capisco. Può ripetere? Un attimo. Prendo nota. Giova cercar di sapienza il regno… Ma cosa sta dicendo. Chi parla? Pronto? Pronto? Pronto?
Prolungato crepitio di fogli di carta appallottolati e lanciati nel cestino. Distanza notevole, parabola arcuata e canestro da tre.
– Vorrei denunciare un furto.
Cellulari che deturpano l’etere con raccapriccianti suonerie polifoniche.
E poi silenzio.
– …
Un breve silenzio a introdurre il dramma collettivo.
Breve.
Silenzio.
Dramma.
Collettivo.
La volta celeste si copre e oscura le stelle; la volta celeste è velata di nubi e la pallida luna non brilla. Sulla terra pian piano calano le tenebre. È l’elegia del servo sofferente. È l’apocalisse.
– Assolutamente sì… Assolutamente no.
Fastidiosa sovrapproduzione di avverbi. Inutili iperboli utilizzate per rendere ancor più perentorie normalissime affermazioni o negazioni. Ma perché la gente non riesce più ad accontentarsi di un semplice sì o un semplice no? Era quasi più sopportabile il cigolio della poltrona reclinabile.
– Ma… vediamo… Un attimino… boh… So mica…
Evidente regressione del linguaggio verbale.
– L’apposito modulo. La-la-la.
Lallazioni di neonati quarantenni improvvidamente assegnati all’ufficio relazioni con il pubblico.
– Ecco. I nuovi turni escono domani. Proprio così. Domani li trovi sulla bacheca.
Iperestensioni dell’indicativo presente sul futuro.
– Diciamo… cioè… diciamo… praticamente…
Demarcativi esplicativi che, abbandonati a sé stessi, fluttuano nel nulla deprimente di un non-discorso.
– Marescià, ti piace ’sto bracciale.
’Sto, ’sta, ’sti e ’ste. Forme aferetiche che prendono il definitivo sopravvento sugli aggettivi dimostrativi.
– Sì. Oggi fa più caldo del solito. Del resto non esistono più le mezze stagioni.
Monumenti alla banalità, culto dell’insulsaggine.
– Ti piace? Lo vuoi venduto?
Lo vuoi venduto? Ma come parlano? Inizio a rimpiangere la noia e il silenzio.
– Giuro. Se lo sapevo non lo facevo.
Se lo sapevo non lo facevo? Oddio.
– La copia della denuncia ce l’ho lasciata a Martini in amministrazione.
Ce l’ho lasciata? Basta. Vi prego. Non ne posso più. Vorrei intervenire per riportare un po’ di ordine grammaticale, ma sono circondato. Sono solo contro tutti. Mi gratto a sangue il dorso della mano per placare i nervi, per distrarmi, ma non ci riesco.
Finisco col subire passivamente la diffusa incapacità di costruire frasi sintatticamente accettabili.
Subire.
Passivamente.
Diffusa.
Incapacità.
Costruire.
Frasi.
Sintatticamente.
Accettabili.
Niente da fare. Mi rassegno alla tragedia.
Driiiin.
– Commissariato di polizia, buongiorno.
Driiiin.
– Deve componere il cinque finale.
Driiiin.
– Entro venerdì non ce la facciamo. Siamo obesi di lavoro.
Driiiin.
– Sembra che può bastare.
Driiiin.
– Secondo il nostro avvocato non ci siamo resi conti della gravità della situazione.
Driiiin.
– Ero sicuro che era qui. Credo che è andato via.
Driiiin. Driiiin.
– Se ogni tanto mi dasse retta!
Driiiin. Driiiin. Driiiin.
Lo spettrogramma impazzisce. I telefoni iniziano a squillare contemporaneamente, i suoni, le voci e gli errori si moltiplicano, si rincorrono, si sovrappongono, si destrutturano, si rimescolano fino a diventare strepito indistinguibile. Provo a prendere singolarmente le parole, i toni intermedi, le consonanti pronunciate a metà, le vocali slabbrate, gli accenti tonici gettati alla rinfusa, i borbottii, i trilli, gli scampanellii, i battiti, i sibili, i rimbombi, le vibrazioni e gli altri caotici effetti acustici – perché di questo, in fondo, si tratta – per isolarli, analizzarli e interpretarli, ma faccio fatica.
Propst⁷ abbatté tutti i muri degli uffici e inventò l’open space perché sognava un grande ambiente lavorativo libero, flessibile, dinamico, interattivo, trasparente e democratico. Ma il sogno non si è mai avverato e la sua rivoluzione architettonica ha prodotto soltanto questi enormi stanzoni sovraffollati, rumorosi, maleodoranti e sgrammaticati.
Un’orgia di pannelli e cubicoli, corridoi ampi, ipnotizzanti e fluidodinamici quanto gallerie del vento, sale che paiono antri infernali e orde di impiegati-automi che vanno avanti e indietro incessantemente, prendendo a martellate la sintassi, sorridendo con sorrisi finti, inseguendo traiettorie alienanti e curvando ad angolo retto come pac-man nel suo labirinto. L’aria è irrespirabile e sovraccarica di stress, ignoranza, ipocrisia, frastuono, metantiolo⁸ e, forse, odio.
– Causa del decesso?
– Lesioni cerebrali dirette. Il cervello è stato perforato e lacerato in più punti. Il numero, la direzione e l’estensione delle linee di frattura presuppongono una serie di impatti molto violenti.
Mi concentro sulle voci provenienti dalla cella