Il grande rimbalzo
By Ugo Coppari
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Il grande rimbalzo - Ugo Coppari
IL LIBRO
Secondo la teoria scientifica del Grande rimbalzo
il ciclo vitale dell’universo è paragonabile a un eterno respiro. Un unico ed eterno rimbalzo senza un prima né un dopo, tra esplosioni, big bang, e implosioni, big crunch.
Anche nelle vite dei molti protagonisti del libro i fatti esplodono e implodono in una serrata alternanza di contesti reali ed esperienze oniriche, un rimbalzo continuo, il grande rimbalzo.
Vi accorgerete che questa raccolta è scritta come un’opera unitaria, un solo congegno, una riflessione unica sul presente. I racconti di realtà e di sogno sono ordinati in modo non casuale e si passano il testimone come in una staffetta. Potrebbe darsi che al lettore sembreranno più reali i personaggi dei sogni e che le storie vere di persone esistenti siano al limite della credibilità ma, come dice Flaiano, Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole
.
L’AUTORE
Ugo Coppari nasce a Jesi nel 1982. Ha già pubblicato Bim Bum Bam! (2006), Nove anoressiche (2007), Limbo mobile (2012) con Morlacchi Editore.
IL GRANDE RIMBALZO
UGO COPPARI
Il grande rimbalzo
di Ugo Coppari
© 2014 – Edizioni Exòrma
via Fabrizio Luscino 73 – Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
ISBN 978-88-98848-12-6
ai miei genitori
con Fede
NON SOGNARE
Trovo un pezzo di chissà cosa sulla spiaggia, nero e a forma di croce. Così fantastico un po’: sarà un vecchio cavatappi, una stella marina, un’elica, un osso, un qualcosa che perlomeno provenga da lontano. Quando torno a casa lo faccio vedere a mio padre, che mentre lo tiene in mano ne saggia la consistenza. Gli chiedo se secondo lui quel pezzo di chissà cosa può essere prezioso, ma lui me lo ridà indietro spacciandolo per l’elica di un aeroplanino. È plastica, sarà plastica: non sognare. Lo stavo per buttare e invece un ittiologo mi fa sapere che quel pezzo di chissà cosa è la vertebra cervicale di un giovane delfino.
UN UOMO
In dodici anni ho cambiato tredici case, la prossima sarà la quattordicesima. Ogni volta che ho cambiato casa ero così contento di annusare un’aria nuova, un nuovo letto, una nuova vista dalla finestra. Anche questa volta pensavo che sarebbe stato lo stesso, ma c’era di mezzo un uomo: Franco, il vicino di casa. Franco ha lavorato per più di quarant’anni come responsabile dei macchinari tessili della ditta Spagnoli. La ditta madre sorge su una collina, là sotto c’era la campagna dove vivevano i contadini che hanno mandato i propri figli a lavorare con i telai. Franco è entrato in azienda a quindici anni, ritrovandosi in pensione ancora giovane. Le giornate saranno sembrate interminabili, le notti insonni. Ma i suoi occhi sono rimasti azzurri e luminosi.
Per più di un anno ci siamo incrociati dal tabaccaio o nell’orto dietro casa. Abbiamo tagliato l’erba del giardino insieme, abbiamo aggiustato un pentolino che aveva perso il manico, abbiamo fumato sigarette sotto un pergolato, ci siamo scambiati olio e uova. Una delle sue occupazioni mattutine consisteva nel far visita alle galline. Anche io ci passavo, prima di cena. Un giorno siamo andati in macchina insieme, parlando di come i figli non sempre diano le soddisfazioni sperate. Un giorno, quando mi ha visto stendere i panni in giardino, mi ha fatto notare che nemmeno i maggiordomi fanno più questo genere di cose. Le donne, lo fanno: non gli uomini.
Ora mi ritrovo a casa di un amico, in attesa di trovare la quattordicesima casa della mia vita. Penso ancora alla stretta di mano con cui io e Franco ci siamo salutati. I suoi occhi brillavano, le lacrime stavano sul davanzale di quel silenzio con cui per molte mattine ci siamo salutati con un cenno della testa. Dopo essermene andato, per salire sull’autobus che mi avrebbe portato via, ho pensato che non lo avrei visto più. Era l’ultima volta che le nostre vite confinavano. Fra pochi anni morirà, e anche se magari passerò per un saluto, la mia vita si svilupperà da un’altra parte.
Parlavo di questo con un mio amico, che mi ospita in questi giorni di passaggio. E parlando di amore, futuro, vita e altro, mi ha raccontato un sogno che aveva fatto la sera prima. Nel sogno aveva una bambina, che ogni tanto tirava fuori dal congelatore. La sera, tornando dal lavoro, la posava sul divano e accarezzandola e abbracciandola ne scioglieva la muscolatura irrigidita dal freddo. Facendole prendere vita. E dopo essersi scambiati affettuosità per un po’, la riponeva in congelatore.
Ci siamo chiesti cosa potesse significare quel sogno, se magari aveva a che fare con la scarsità di tempo a nostra disposizione. Ma a me, stamattina, quando fuori era ancora buio, m’ha fatto pensare più che altro al diventare un uomo. Un uomo come Franco. Che congela tutte le possibili evoluzioni della propria personalità, per lasciarne fiorire una, una sola. Che prenderà forma e vita in mezzo a quel grande freddo in cui l’età adulta ci butta senza darci avvertimenti né spiegazioni.
SENZA PAROLE
Il mio lavoro consiste nel far parlare le persone. I lavori non si scelgono, ci trovano. Molti anni fa un mio amico mi aveva consigliato di provarli tutti, prima o poi avrei trovato il mio. Adesso ho questo: il pomeriggio, subito dopo pranzo, mi chiudo in una stanza con una persona che non conosce la mia lingua e che desidera impararla. Il mio compito consiste nello stimolare in lei il desiderio di parlare con me: questo stile di corsi si chiama intensivo
. Per due ore parliamo di tutto e di niente.
Spesso gli studenti che mi trovo di fronte rimangono senza parole. Ci guardiamo negli occhi, intensamente, e io rimango lì in attesa che mi dicano qualcosa. Invece di imboccarli, è come se gli cavassi le parole di bocca. Spesso ci guardiamo, per alcuni secondi, senza dire niente. Magari la loro mente è in fase di elaborazione, e io come uno specchio cerco di far leggere nei miei occhi le parole che vorrebbero dire. Quando il silenzio si prolunga, va a finire che propongo una serie di scelte. Suggerisco le mie parole ai loro pensieri. Non è un lavoro da poco, anche perché se non si instaura una complicità le mie parole non corrisponderanno mai ai loro pensieri.
Giorni fa uno degli esercizi proposti aveva a che fare con un questionario a cui lo studente deve rispondere. Si chiama Miniquestionario di Proust, perché è stato il noto scrittore francese a idearlo, all’età di undici anni. Una serie di domande che aveva sottoposto alla cugina. Una di queste chiedeva quale fosse la persona più influente che avessimo incontrato nella nostra vita. Così, mentre la studentessa che avevo lì davanti pensava a una risposta appropriata, io sono rimasto per un buon minuto a guardare il cielo macchiato di nuvole che copriva la pista d’atletica di fronte alla scuola. La stanza in cui ci chiudiamo il pomeriggio è così piccola che i nostri occhi sono costretti ad ampliarla con traiettorie dello sguardo che fuggono là fuori. Quando giro lo sguardo la studentessa svizzera mi sta fissando, propone di raccontarmi una storia.
Da giovane si trovò a far da assistente a un dottore che aveva dovuto rispondere a una chiamata di soccorso. Si erano diretti in un bosco, e lì avevano trovato un ragazzo a terra, con la gola tutta nera e una corda ancora appesa all’albero. La studentessa che mi sedeva di fronte a quei tempi aveva ventuno anni, ora ne ha trentasei. Per quindici anni quell’immagine era rimasta ben impressa nella sua mente, e quel ragazzo appena ventenne sarebbe rimasto la persona più influente della sua vita. Un morto, uno che non c’è più.
Dopo alcuni giorni ho sottoposto la stessa studentessa a una serie di domande che potessero stimolare una conversazione brillante. L’esercizio consisteva nel trovare le parole con cui identificare l’oggetto delle domande. Esempio: Si può tenere in mano
, penna
; Non si può comprare
, l’amicizia
. Quando arrivo a una domanda talmente semplice da lasciar presupporre una risposta altrettanto scontata, ecco che comincio a pensare che in fondo le parole saranno anche importanti, ma per quel che bastano. Sia con i nostri connazionali sia con gli stranieri stiamo lì a sparare mucchi di parole, ne ascolteremo un paio, alcune rimarranno impresse, le altre riempiranno le ore. Perché poi tutto ha a che fare con quegli occhi che ci legano, almeno così mi è sembrato in quel momento. Perché quando alla domanda Una cosa dietro cui puoi nasconderti
non mi sono sentito rispondere muro
o porta
, ma denaro
, ecco che allora mi è sembrato così ridotto il vocabolario delle nostre conversazioni che in fondo parliamo tutti la stessa lingua. I gatti, le persone, i fiumi. C’è chi ci metterà un minuto, a rispondere, chi un’era geologica.
IL POSTO FISSO
Era il compleanno di Marta, compiva trentadue anni. Della vecchia compagnia ne erano rimasti pochi, alcuni si erano sposati, altri avevano deciso di spegnersi. Gli unici rimasti erano per l’appunto