Poche parole che non ricordo più
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Poche parole che non ricordo più - Enrico De Vivo
quisiscrivemale
POCHE PAROLE CHE NON RICORDO PIÙ
Enrico De Vivo
Poche parole che non ricordo più
di Enrico De Vivo
Collana quisiscrivemale
© 2017 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Impaginazione omgrafica, roma
ISBN 978-88-98848-63-8
A Silvana, l’amore mio
«Semmai vergógnati con te stesso
per non aver amato abbastanza
ciò che ti lega ai clown, ai guaritori,
ai dottori dell’amore
e a tutti quelli che
fanno finta di essere se stessi
con la muta arte del sentire»
A.V.
LA CADUTA E IL CANTO
La mano sinistra del giovane pianista scivola sui bassi leggera come un fuscello e precisa come un respiro. Evoca la rovina costante, perenne, inarrestabile, che si avvicina e incombe. È una rovina senza nulla di eccezionale, è la rovina ordinaria del divenire o della Storia, portata da un vento sottile che soffia fra le tombe, tenebroso e cupo. Basta guardarsi intorno e ascoltare con attenzione: tutto è già crollato o in procinto di crollare, è il vento dei bassi che lo annuncia. Il dolore sta per coinvolgere ogni cosa.
Quasi incurante in apparenza, ma in realtà acutamente turbata, la mano destra prende a intonare il suo canto, che a volte si sovrappone al dolore penetrante instillato dalla mano sinistra, più spesso invece se ne distacca per librarsi dove è inarrivabile anche per la più grave delle sofferenze. È qui, nell’atto di tale distacco, che si intuisce che dolore e sofferenza non sono interni agli esseri viventi, innocenti, bensì provengono dall’esterno storico-naturale, rovinando su di essi senza pietà e senza posa. Gli esseri viventi, mentre dolore e sofferenza li travolgono ineluttabilmente, non possono far altro che intonare ciascuno il suo proprio canto, che – si scopre ascoltando la Caduta di Varsavia di Frédéric Chopin – è l’attività più profonda che li riguardi, o che li riguardi più nel profondo. Il canto con cui ciascun essere partecipa dell’armonia universale, innervata di dolore e sofferenza, è un movimento disinteressato, l’unico che coinvolga l’interiorità e l’amor proprio non per mero utilitarismo, ma per una necessità speciale, ossia per spingere l’individuo a rappacificarsi con il destino comune.
È la mano destra del giovane pianista che esegue il contrappunto al dolore e alla sofferenza universali, ai quali invoglia ad andare incontro senza paura. Dolore e sofferenza non riguardano mai un singolo essere o pochi sparuti momenti della vita, ma arrivano in ogni dove e in ogni tempo con la medesima intensità, travolgendo impietosamente tutto e tutti, come la mano sinistra del pianista travolge tasti bianchi e tasti neri in un glissato. L’argine all’invasione del dolore è il canto ardito della mano destra, grazie alla quale la melodia, nei brevi e singhiozzanti attimi del suo risuonare, riesce a stagliarsi sicura nell’aria fosca come un agile uccello sul mare in tempesta.
Nessuno sa da dove provenga il canto. Il canto, però, è quanto di più efficace gli esseri viventi possano opporre al dolore e alle sofferenze elargiti dalla natura mancina.
Gli animali cantano, le piante cantano, mari e monti cantano.
La mano destra aiuta gli uomini a cantare anch’essi, e a rimanere quieti mentre il divenire nel quale sono immersi li porta via e li consuma.
GARGIULO E ROSSANA
«SOLO RITMO E CADENZE»
Quella sera d’inverno era andata a finire che io e Gargiulo scappavamo a bordo della sua scalcagnata vespa bianca. Scappavamo di notte, mentre uomini armati di bastoni ci inseguivano a bordo di un’Alfetta marrone. Gargiulo diceva che conosceva un posto sui Monti Lattari dove saremmo stati al sicuro: «Vedrai, li sperdiamo facile facile, parola di Gargiulo!».
Gargiulo era il mio amico musicista, vecchio amico d’infanzia, che aveva trascorso tanti anni in giro per il mondo a suonare il blues. Adesso era tornato e diceva che finalmente avrebbe potuto insegnarmi tutto quello che volevo, soprattutto come si diventa poeta, che in effetti era il mio sogno di gioventù. Per la verità, era un po’ di tempo che io non pensavo più a certe cose, e dunque di preciso che cosa volevo che lui mi insegnasse non lo sapevo, o forse non lo ricordavo più. Per me bastava che fosse tornato, ero già contento così. In ogni caso, per non dispiacergli, avevo preso a fargli domande vaghe sulla poesia, alle quali lui rispondeva sempre allo stesso modo, e cioè che si trattava soltanto di imparare a seguire ritmo e cadenze. «Solo ritmo e cadenze», ripeteva, poi tutto sarebbe venuto naturale, non mi dovevo preoccupare. Aggiungendo anche: «Ricordati che con le stesse parole si possono dire cose diverse».
Gargiulo era un analfabeta ignorantone, e sentirlo parlare in questi termini mi intimoriva e divertiva insieme. Ma il suo modo di fare aveva qualcosa di convincente, e infine avevo accettato di seguirlo. Mi aveva condotto in un piccolo cantiere edile deserto, in una stradina di campagna con il Vesuvio a nord-est. Era lo stesso cantiere – rimasto tale e quale – dove andavamo da ragazzi già ammalati della vita ad ascoltare la musica dallo stereo della sua Fiat 850 e a dare aria ai nostri sogni: io a quello di diventare poeta, lui a quello di diventare musicista blues.
Erano passati tanti anni, non saprei nemmeno dire quanti. Adesso faceva molto freddo, era dicembre. Avevamo acceso un fuoco in un androne scalcinato del cantiere e Gargiulo si era messo a sfogliare dei quaderni pieni zeppi di misteriosi segni. Dopo averli sistemati su un ripiano di legno sorretto da sei mattoni di tufo, aveva cominciato prima a parlare di luna e nenie notturne, poi a cantare dolcemente, con me seduto per terra di fronte a lui ad ascoltare. Ma era durato tutto pochi minuti, perché all’improvviso erano arrivati gli uomini armati di bastone con l’Alfetta marrone ed eravamo stati costretti a scappare.
Da quel poco che avevo avuto modo di capire in quei minuti, Gargiulo aveva imparato da autodidatta a trascrivere una specie di ideogrammi molto simili alle lettere dell’alfabeto fiorite di ghirigori e di figure che si vedono disegnate nei codici. Recitava questi segni ad alta voce, cantandoli come da una partitura, con un sottile filo di voce quasi impercettibile. «Questo è niente!», mi diceva infervorato nelle pause del suo canto. «Capirai il resto quando sarai in grado di decifrare anche tu i segni che si trovano qui dentro», e sventolava i suoi quaderni.
Devo ammettere che la sua voce aveva un discreto potere incantatorio, si ascoltava come si ascolta il rumore dell’acqua di un fiume o il fruscio delle foglie, senza mai provare fastidio o stanchezza. In più, sembrava quasi non appartenere più a lui, in quanto Gargiulo era letteralmente in trance mentre eseguiva la sua performance. Io ero molto colpito da questa sua abilità ricavata dal nulla dell’ignoranza più assoluta, e cominciavo a incuriosirmi. Non riuscivo a immaginare come avesse fatto a raggiungere quella potenza espressiva. Gargiulo sorrideva quando io lo definivo ignorante, e si divertiva molto a vedere come non capissi nulla dei segni sul suo quaderno e del mistero della sua voce.
Quella sera, però, come dicevo, il mio apprendistato sarebbe finito ancor prima di avere inizio. Mentre scappavamo verso la montagna a bordo della sua vespa scalcagnata, a un certo punto Gargiulo, con mia grande sorpresa, mi aveva chiesto di scendere e di imboccare una stradina che mi avrebbe riportato al paese. Diceva che dovevo cavarmela da solo, lui avrebbe continuato a scappare verso i Monti Lattari. «Ma chi sono questi uomini che ci inseguono?», avevo provato a chiedergli prima che sparisse. «Sono degli uomini…», aveva risposto lui con aria rassegnata e leggermente sospesa, «…e ho detto tutto». Mi aveva ricordato, con queste ultime parole, una celebre battuta dell’attore Peppino De Filippo, perciò mi ero messo a ridere. Ma nel frattempo lui – che a ripensarci adesso di Peppino De Filippo aveva gli identici baffi, e anche lo stesso sguardo – era già sparito.
Mentre nell’aria fredda e buia imboccavo la stradina che mi avrebbe riportato al paese, sentivo il motore della vespa farsi sempre più lontano e pensavo che non l’avrei più rivisto.
TRADIMENTI, SLANCI E UNO SCIANCATO
Mi sbagliavo. Seppure dopo tanti anni, in una luminosa giornata di primavera il mio amico Gargiulo è venuto ancora a farmi visita. Credevo fosse morto, e invece è tornato a bussare alla mia porta. Si è fermato qualche giorno, abbiamo mangiato e bevuto insieme, abbiamo fatto lunghe passeggiate in montagna. Questa volta aveva un’aria trasognata e non era di molte parole, ma sembrava addirittura più giovane rispetto a quella sera che l’avevo visto dileguarsi a bordo della vespa bianca.
Non abbiamo chiacchierato quasi per niente, anche se io avevo continuamente l’impressione che avesse qualcosa di importante da dirmi. Mentre pensavo che forse volesse riprendere i suoi insegnamenti interrotti tanto tempo fa, tentavo di invogliarlo a parlare: gli ho chiesto se stava lavorando, se si era sposato, dove era stato tutti questi anni. Ma lui mi guardava senza rispondere, oppure accennando un lieve sorriso disteso che in passato raramente gli avevo notato; per come lo ricordavo io, era quasi sempre imbronciato o pensieroso.
A casa mia ha trascorso quasi tutto il tempo a sfogliare vecchi libri di fotografie sulla Cina, seduto nel cortile all’ombra del noce. Ogni tanto mormorava qualcosa sul Fiume Giallo, illuminandosi per pochi attimi come se contemplasse una visione. Una mattina, senza alcun preavviso, mi ha chiesto di accompagnarlo alla stazione perché doveva partire, ma questa non era una novità, faceva sempre così. Provavo una gran malinconia per la sua partenza, cosa che non mi era mai capitata in passato in occasioni analoghe, nemmeno quando era sparito a bordo della sua vespa scalcagnata.
Durante il tragitto verso la stazione di Napoli, Gargiulo si era soffermato a osservare tre matrone africane dalle sfavillanti vesti verdi e gialle, che, sedute a un tavolino di un bar, chiacchieravano e bevevano tè alzando la voce e gesticolando. Mentre le guardava, aveva preso a parlarmi con foga, come se si fosse finalmente ricordato di una cosa importante. Mi parlava di un film la cui trama è molto semplice e banale: un marito esce di casa sapendo che la moglie lo tradirà, e tutto quello che succede tra la sua uscita di casa e il suo ritorno è una serie infinita di eventi prosaici, infarciti di ulteriori microscopici tradimenti, che sembrano corrispondere a tutti gli eventi possibili e immaginabili sulla faccia della terra. «Costituiscono un cosmo perfetto», diceva Gargiulo, «perché soltanto il tradimento illumina e rende sensata ogni esperienza umana».
A questa affermazione apodittica, proferita con il tono delle grandi verità, seguiva il mio imbarazzato silenzio, mentre era chiaro che lui continuava a rimuginare, come suo