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Il grande Iran
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Il grande Iran

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Per conoscere e capire l'Iran attraverso il racconto di Giuseppe Acconcia che da più di dieci anni si occupa di questa area del mondo: un paese essenziale, forse suo malgrado, per la soluzione dei principali conflitti, dalla Siria all’Iraq fino all’Afghanistan, ma che vede oggi le dimostrazioni di protesta dei più giovani represse con la forza.L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte civili, della contraddizione, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile ma anche il paese dove tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto.Il popolo iraniano vive un momento politico, culturale, sociale e civile unico: questo ricco reportage narrativo rivela dall’interno tutta la complessità dell’attuale realtà iraniana.
LanguageItaliano
Release dateSep 11, 2020
ISBN9788898848621
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    Il grande Iran - Giuseppe Acconcia

    IL GRANDE IRAN

    Giuseppe Acconcia

    prefazione di Mohammad Tolouei

    Il Grande Iran

    di Giuseppe Acconcia

    © 2016 - Edizioni

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Illustrazioni Tuka Nayestani

    In copertina opere fotografiche di Mohammad Ghazali

    Impaginazione omgrafica, roma

    ISBN 978-88-98848-62-1

    Nota linguistica

    Nella maggior parte dei casi le parole in farsi sono state traslitterate nel modo più fedele possibile alla loro pronuncia originale. Per i termini più noti si sono invece preferite le trascrizioni comunemente usate in italiano.

    a Bi. e Vi.,

    Ro. e Te.

    Prefazione

    UN NUOVO ORIENTE

    di Mohammad Tolouei

    Traduzione dal persiano di Giacomo Longhi

    Dove collocare l’Iran, perché è così importante conoscerlo? Per rispondere a questa domanda devo fare un passo indietro e chiedermi dove si trova l’Oriente, come mai studiarlo è così importante, chi sono gli orientalisti.

    Come mai non abbiamo una parola per definire l’opposto, perché non abbiamo gli occidentalisti? Perché nessuno si preoccupa di spiegare l’Occidente a noi orientali? Niente paura, non intendo lanciarmi in un discorso postcoloniale. In Iran non abbiamo mai vissuto sotto occupazione – noi, almeno, amiamo pensare così alla nostra storia – da sentirci per forza spinti a decostruirne l’ideologia. Non abbiamo mai dovuto cambiare la nostra lingua, né tollerato un governo straniero e mai ci siamo tirati indietro quand’era il momento di combattere. Abbiamo collezionato numerose sconfitte ma altrettante vittorie, e ciò ha fatto dell’Iran un paese destinato a durare nella storia, anche se un giorno dovessero ridurre i suoi confini. Eppure, eccoci incasellati sotto l’etichetta di Oriente. Siamo un popolo orientale, e per conoscerci servono gli orientalisti. Questo intermediario è davvero indispensabile? Non potete guardarci dritto in faccia? Ma forse, ancor prima, bisogna chiedersi dove si trova per voi, l’Oriente.

    Per noi iraniani Oriente vuol dire Cina, Giappone, Indonesia, mentre per gli europei è un nome che rimanda alla Turchia e al mondo arabo, per gli americani è l’Europa e per i giapponesi l’America. Quello di Oriente non è un concetto geografico ben definito e va chiarito un po’ meglio.

    Si può pensare all’Oriente come al mondo non cristiano in contrapposizione a quello cristiano, ma si tratta di un’interpretazione poco precisa. In Cina i cristiani sono molto più numerosi di quelli che abitano l’Europa e, se dovessimo guardare alla religiosità delle persone, probabilmente filippini e peruviani sono cattolici perfino più del Papa.

    Ma l’Oriente, per come la vedo io, è dove ogni fatto sociale del presente può essere spiegato solo ripercorrendo la catena di eventi storici che l’hanno preceduto. Paesi senza una storia scritta ma dove nulla si cancella e tutto resta impresso nella memoria collettiva. In questo senso anche New Orleans, la Repubblica di Venezia e Budapest rientrano nella mia definizione. La quale è parecchio fumosa, d’accordo, ma mi aiuta a capire le ragioni per cui il cosiddetto mondo occidentale ha costantemente bisogno degli orientalisti.

    Agli occidentali non interessa leggere storie di mille o più anni fa, né rintracciare i motivi di certi atteggiamenti storici. Non sono portati per le lingue poco familiari, impostate diversamente da quelle latine. Non sanno dissimulare le proprie convinzioni tra le metafore della vita quotidiana, il loro pensiero aderisce a quello del potere, per questo ignorano quelle forme di resistenza silenziosa che non si praticano apertamente, ma soltanto a livello interiore. Stando a questa definizione si può essere occidentali ovunque, anche nel bel mezzo di Tehran. Persone che preferiscono affidare a qualcun altro il compito di comprendere e capire. Gli orientali, invece, cercano di conoscere l’Occidente senza intermediari, non si fidano di informazioni di seconda mano.

    Torno al fatto che anche l’Iran viene inglobato nell’idea di Oriente e la sua realtà letta secondo semplificazioni. Un orientalista è tenuto a ignorare molti approcci storici funzionali, quando per essere imparziale e comprendere a fondo quei paesi dovrebbe soltanto andare a ritroso nel loro passato. L’orientalista, in realtà, è un intermediario inviato dall’Occidente che racconta nei suoi scritti l’atmosfera degli eventi a cui si è trovato ad assistere, adattandola alle aspettative del suo lettore.

    Nei suoi reportage, ad esempio, Edward Browne descrisse in termini così occidentali la Rivoluzione costituzionale da spingere un americano, Howard Baskerville, a recarsi in Iran per combattere al fianco di chi rivendicava la libertà fino a sacrificare la propria vita. Per la Bbc e la Cnn, invece, raccontare la Rivoluzione del ’79 e l’attacco all’ambasciata americana non è stato altrettanto facile. Gli occidentali non riuscivano a capire come mai gli iraniani avessero reagito in quel modo, nemmeno i generali più esperti erano stati in grado di prevedere il corso degli eventi. Cos’era successo? Forse le semplificazioni dell’orientalismo si stavano rivelando inefficaci. Con le proteste del 2009 in Iran e, qualche anno dopo, con la primavera araba, gli orientalisti sono rimasti nuovamente delusi: non avevano nessuna spiegazione a portata di mano e sono stati incapaci di risalire ai movimenti sociali che erano alla base di questi eventi. E se l’ondata di migranti non avesse raggiunto l’Europa, forse a nessuno sarebbe interessato cosa spingeva queste persone, più a est, ad abbandonare le loro case.

    L’orientalismo non pare in grado di spiegare l’Oriente e forse per gli occidentali è arrivato il momento di provare a comprendere da soli la sua complessità, senza intermediari.

    *

    Mohammad Tolouei (1979), scrittore iraniano, esordisce nel 2007 con il romanzo La vittima del buon vento. Vincitore nel 2011 del prestigioso premio Golshiri con la raccolta di racconti Io non sono Jeannette, mentre alcuni racconti del suo ultimo libro, Le lezioni del padre (2014), sono stati tradotti in italiano e pubblicati sulla rivista «Internazionale».

    TEHRAN

    Questo libro è il frutto di dieci anni di vita e ritorni in Iran. La conoscenza di questo paese si è rivelata un’esperienza unica sia per la complessità della realtà iraniana sia per le persone incontrate. L’idea, forse ardita, di partire per l’Iran era nata nel 2004 dopo lunghi viaggi tra le strade del Medio Oriente. Il mito della Persia degli Achemenidi e il grande fascino della Rivoluzione del 1979, raccontata come una leggenda moderna da Michel Foucault, hanno trasformato la mia idea in necessità di capire.

    Nel tempo vissuto a Tehran ho cercato di vivere il più possibile immerso nella società persiana. L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte civili, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile. Ai miei occhi, il popolo iraniano vive un momento politico, culturale, sociale e civile unico. In Iran, tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto.

    Tehran è una città bizzarra. Vista dall’alto sconvolge con i suoi 15 milioni di abitanti che si riversano su strade straripanti di macchine, taxi e moto. L’attento osservatore noterà che il canto del muezzin o i minareti delle moschee non invadono i luoghi della città come avviene in altri paesi.

    Quella di Tehran è una ricchezza degradante che si trasforma in povertà nel sud. A nord si innalza una montagna alta più di 6000 metri e innevata quasi tutto l’anno, oasi di libertà e di incontri fugaci. A sud si trova un bazar grande quanto una città, con moschee, venditori, caravanserragli e vecchi hammam, grandi parchi dove famiglie e giovani restano per ore di giorno e di notte fumando un qeliun (narghilè). Per i ragazzi sono davvero pochi i caffè aperti fino a mezzanotte dove ci si concede maggiore libertà.

    Le librerie su via della Rivoluzione espongono locandine dimenticate di opere di Nietzsche e Khayyam. Botteghe piccolissime vendono pane in forni di pietra o espongono frutta e frullati da bere intorno a piazza della Rivoluzione. Murales inneggiano ovunque all’Intifada palestinese e ricordano i martiri della guerra contro l’Iraq.

    L’Università di Tehran, punto di partenza di numerose proteste negli ultimi anni, è un luogo surreale. Tra le facoltà collegate da ampi viali alberati tra giardini, moschee, immagini di ayatollah, ho incontrato studenti e attivisti che, con una passione rara in Europa, si confrontano parlando di Habermas, Foucault, Gramsci, Sartre, Dostoevskij, di Hedayat, Shamlu, Mulla Sadra, Hafez, di democrazia, di comunismo, di anarchia, di giornali, di proteste. Si tratta di ragazzi spesso limitati da regole che vorrebbero infrangere nella vita quotidiana, nei loro rapporti politici, familiari e sociali.

    Questi studenti continuano a incontrarsi in luoghi angusti per scrivere giornali, preparare dibattiti, organizzare incontri, cercare contatti con organizzazioni non governative per la difesa dei diritti degli studenti, con il rischio di essere arrestati e puniti. L’ambasciata italiana a Tehran si trova poco lontano dall’università, in una stradina stretta, l’unica della città con un nome non persiano: Neauphle-le-Château. Qui ho passato alcuni mesi di lavoro tra il 2004 e il 2005 e qui sono poi tornato ogni tanto. Grazie al mio lavoro nella sezione politica dell’ambasciata ho potuto incontrare numerose personalità della società civile, politica, economica e accademica iraniana le cui parole arricchiscono questo scritto.

    Sono arrivato per la prima volta a Tehran alle sei della mattina. Tehran all’alba, a maggio, era bellissima. Il tempo trascorso lì ha cancellato i miei sguardi sofferenti. In una città così poco accogliente si scorgeva talvolta il vivere tremendo di uomo povero, che si barcamenava ogni giorno. È una città tagliente, Tehran, piena di gente, macchine, strade giganti con alberi ai lati e con l’acqua corrente. Acqua corrente, proprio che corre, per le strade, lungo i canali, a dare linfa agli alberi e per pulire le mani. Sì, alcuni usano sciacquarsi le mani nell’acqua che scorre. Quest’acqua proviene dal nord, dalla montagna, e scende, scende giù per chilometri. Si riempie di bottiglie, spazzatura e scorre, scorre. Più la gente si fa povera più l’acqua è sporca. Più scorre, più si vive con niente.

    Tehran contraddice Tehran. Il nord si culla in una quiete occidentale. Il sud si distrae tra le brevi stradine o i grandi bazar. La via che ricorda la Rivoluzione del 1979 separa i due volti, le due contraddizioni. Le stesse che creano i mali di un paese bellissimo, di una terra per tanto tempo isolata, continuamente messa a tacere e manipolata.

    Cammino tra le vie del mercato. Ci sono moschee dovunque, preghiere continue nel sole del giorno e deserti di niente nel buio notturno. Giunto a piazza Imam Khomeini, la vecchia piazza Tupkhaneh, mi incammino dove i venditori di frutta frullano papaia e carote, proseguo e inizia la festa. Stradine tortuose, persone che passeggiano; lunghi i veli, gli hejab, delle donne più vecchie, piccoli i maqna‘eh delle giovani.

    Si mangiano zuppe cotte in pentoloni giganti, ne servono un mestolo in una ciotola fonda. Fagioli, ceci, lenticchie, pasta, tutto coperto di verde: è l’ash-e reshteh. Patate, carne, ceci e pomodoro, da schiacciare con un martello e mangiare con lunghi pezzi di pane in compagnia: è l’ab-gusht. Ci sono sughi di melanzane o di carne e grossi kebab. Tengo nella mano del pane, lo riempio con cipolla cruda, pomodori arrostiti, carne o pesce, spruzzo un po’ di limone e aggiungo un boccone di riso: questo sì che è un vero kebab. Il pane viene cotto in grandi forni a legna alla cui base sono distribuite delle pietre che formano dei buchi sul pezzo oblungo di impasto.

    A nord la gente passa le serate d’estate o si rotola nella neve dell’inverno. Ragazzi e ragazze insieme per mano salgono sulle stradine strette, con cascate e torrenti che si inerpicano fino in cima.

    Spostarsi in città è uno spasso senza precedenti. Gridando motor, si ferma una moto; salto dietro, negozio sul prezzo. Altrimenti c’è il taxi, si va in sei, tre avanti e tre dietro, se riesco a pronunciare bene le due parole necessarie nessuno capisce che sono straniero e vado dovunque pagando pochi toman. A nord nei concerti si sente il suono del tar, uno strumento medioevale alquanto popolare, mentre alcuni pittori preparano capolavori come fossero lunghi documentari.

    Il titolo di questo libro, Il Grande Iran, è sì un riferimento agli intrighi russi, statunitensi e britannici, paesi che hanno manipolato la Persia sin dall’Ottocento, riportati nel classico di Peter Hopkirk Il Grande gioco, ma rispecchia anche il tentativo di spiegare quanto sbagliato sia stato il progetto dell’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, di Grande Medio Oriente. Se la politica estera della Repubblica islamica non ha mai assunto un atteggiamento aggressivo dopo il 1979 e neppure ha perseguito forme di esportabilità del modello khomeinista, ci ha pensato la cieca politica estera Usa a creare il mito del Grande Iran: un paese ora essenziale, forse suo malgrado, per la soluzione dei principali conflitti, innescati proprio da attacchi esterni, dalla Siria all’Iraq fino all’Afghanistan.

    Nel prossimo capitolo mi concentrerò sull’Iran della dinastia Qajar a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, un impero tribale con una società civile già vivace e brillante. Proseguirò poi raccontando la Rivoluzione islamica del 1979 e i grandi eventi che l’hanno preceduta lungo il XX secolo. Racconterò quindi gli anni del riformismo di Mohammad Khatami (1997-2005), che ho vissuto in prima persona anche in riferimento a interviste con attivisti dei movimenti, esperti e politici. Racconterò le proteste del 2009 e del 2011 contro il presidente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad (2005-2013). Infine, mi occuperò della svolta moderata del presidente Hassan Ruhani, eletto nel giugno 2013, e dell’accordo sul nucleare, viaggiando attraverso le principali città iraniane.

    L’IRAN DEI QAJAR

    In Iran, alla fine dell’Ottocento, clan, tribù e villaggi formavano «un piccolo mondo in sé»,[1] condizione che impediva la formazione di vere e proprie classi sociali. In questo vacuum, un despota era capace di governare senza interferenze rilevanti. Tuttavia, l’élite al potere della dinastia Qajar non può essere definita come composta da despoti, da una parte per la decentralizzazione dello Stato (ne è un esempio il sistema di irrigazione) e dall’altra per l’assenza di una forte burocrazia centralizzata.

    L’Iran dei Qajar era una società tradizionale e islamica dove i cambiamenti sociali erano limitati. Inoltre, l’opposizione politica si mescolava con l’eresia dei gruppi eterodossi, per esempio i Babi, ma anche con minoranze religiose come i cristiani ortodossi e i cattolici, gli ebrei e gli Zoroastriani. Questi gruppi ricevevano asilo e protezione soltanto nelle moschee o nei templi, in edifici reali o uffici del telegrafo, all’epoca appena costruiti. Anche le missioni straniere provvedevano spesso alla protezione dei fuorilegge.

    In un certo senso, l’Iran della dinastia Qajar era un impero tribale dove paradossalmente anche la diffusa pratica di prendere ostaggi era un modo per mantenere la sicurezza. Né una parziale burocrazia centralizzata né l’esercito aiutavano i sovrani Qajar nel controllare le province e i governatorati. Per queste ragioni, da un lato il governo dipendeva dagli ‘ulama’[2] per l’amministrazione della giustizia e i servizi pubblici. Dall’altro, la corte dipendeva dai mercanti (per esempio commercianti, banchieri, intermediatori finanziari) per l’approvvigionamento e la cessione di capitali.

    Quindi, burocrati, soldati, ‘ulama’ e mercanti costituivano i quattro gruppi elitari dell’Iran dei Qajar. Nonostante questo, non si trattava di gruppi chiusi. Prima di tutto erano impegnati nell’acquisire proprietà e investire i profitti nell’acquisto di terreni. In secondo luogo, matrimoni tra le figure prominenti di tali élite rappresentavano una pratica comune.[3] Tuttavia, le fluide relazioni esistenti tra questi quattro gruppi possono essere considerate una prova dell’evoluzione verso la modernizzazione del paese.

    I SOVRANI QAJAR E LA DEBOLEZZA DELLO STATO

    L’Iran dei Qajar era ancora una società rurale con forti divisioni tra comunità e conseguenti rivalità. Nonostante ciò, queste comunità autonome delle aree rurali hanno provveduto a un «protezionismo funzionale per i contadini».[4] Per questo la figura del governatore, nelle province, era usata strategicamente dai Qajar per accrescere la ricchezza attraverso un sistema di tassazioni ed estorsioni illegali. Quindi, nel loro sforzo di persianizzazione, gli shah Qajar hanno reso più complesse le relazioni tra comunità e tra tribù. Nelle principali città iraniane, tuttavia, la protezione dei quartieri era assicurata da vari tipi di istituzioni formali e informali: corti e corporazioni. Lo shah usava la corte per cooptare famiglie tradizionali come mezzo di controllo della società.

    Sebbene gli osservatori europei fossero impressionati dai poteri formali degli shah Qajar, che potevano controllare i prezzi dei mercati, gli ufficiali dell’esercito e un sistema giuridico arbitrario, i monarchi iraniani temevano anche i più irrilevanti atti di opposizione perpetrati da piccole minoranze. In questo senso, avevano un potere molto limitato fuori da

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