La Terra svuotata: Il futuro dell'uomo dopo l'esaurimento dei minerali
By Ugo Bardi
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About this ebook
[...] I cambiamenti causati dall'attività estrattiva umana sono qualcosa che non si era mai verificata con la rapidità attuale in centinaia di milioni di anni di storia planetaria. Questi cambiamenti stanno trasformando la Terra in un pianeta completamente diverso. Non è detto che questo nuovo pianeta che noi stessi stiamo creando non si riveli ostile alla vita umana. Che ci piaccia o no, l'ambiente non è un giocattolo per gli ambientalisti. L'ambiente è quella cosa che ci fa vivere. E noi stiamo giocando con questa cosa che ci fa vivere come se non avesse nessuna importanza. In questo libro troverete una descrizione della situazione petrolifera e di tutte le risorse naturali, minerali e rinnovabili. Ci troverete le ragioni che ci spingono a dipendere così totalmente da risorse insostituibili e non rinnovabili. Ci troverete come la nostra fissazione con il petrolio ci stia conducendo a uno scontro con l'ecosistema causato dall'esaurimento e dall'inquinamento; uno scontro che non possiamo vincere, comunque vada. E, infine, ci troverete qualche nota sul futuro che forse vi potrà essere utile. Come si sa, il futuro non si può prevedere, ma riguardo al futuro si può essere preparati. [...]
(Dall’introduzione dell’autore)
INDICE
9 Prefazione di Luca Mercalli
11 Introduzione
Parte prima. Minerali
19 Il popolo dei minatori
59 Il regalo di Gaia: l'origine dei minerali
83 La macchina mineraria universale: energia ed estrazione
Parte seconda. Energia
113 L'ankus del re: la storia dei combustibili fossili
143 Il genio dell'energia: uranio e l'ultima speranza per la crescita
173 L'oca nella bottiglia: le energie rinnovabili
Parte terza. Sostenibilità
217 Balene e barili: come si esauriscono le risorse
242 L'isola degli angeli: modelli del mondo
267 Il cuculo che non voleva cantare; oltre il collasso
287 Conclusione
291 Ringraziamenti
292 Per saperne di più, letture consigliate
293 Fonti iconografiche e referenze
Ugo Bardi, è docente dal 1990 presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. La sua carriera precedente include periodi di studio e insegnamento presso le università di New York, Marsiglia, Berkeley e Tokyo. Attualmente si occupa di nuove tecnologie energetiche e di politica dell’energia È membro dell’associazione ASPO, un gruppo di scienziati indipendenti che studiano le riserve di petrolio mondiali e il loro esaurimento.
Ha pubblicato: La fine del petrolio, Editori Riuniti, 2003; Il libro della Chimera, Edizioni Polistampa Firenze, 2008; con Giovanni Pancani, Storia petrolifera del bel paese, Edizioni Le Balze, 2006; The Limits to Growth Revisited, Springer Briefs in Energy, 2011.
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La Terra svuotata - Ugo Bardi
Ugo Bardi
La Terra svuotata
Il futuro dell’uomo
dopo l’esaurimento dei minerali
Prefazione di Luca Mercalli
Editori Riuniti
university press
I edizione cartacea: novembre 2011
I edizione digitale: agosto 2020
© 2020 Editori Riuniti university press - Roma
Gruppo editoriale italiano s.r.l. - Roma
ISBN 978-88-6473-291-6
www.editoririuniti.it
I riferimenti ai siti presenti nel volume
sono aggiornati al settembre 2011
Questo libro è dedicato alla memoria
di Ali Morteza Samsam Bakhtiari,
geologo, studioso di storia, poeta e carissimo amico.
Prefazione
di Luca Mercalli
Poco a valle delle piste da sci del Sestriere, nel cuore delle alpi Cozie, in quello che oggi è il Parco Naturale della Val Troncea, vi sono le miniere abbandonate del Beth. Furono aperte nel 1860 per estrarre calcopirite, dalla quale si otteneva zolfo (42% del peso del minerale) e rame (7-8%). Le gallerie di ingresso si trovano a quote tra i 2.300 e i 2.850 metri, in un territorio impervio e soggetto a un inverno lungo e severo. La vita dei minatori era estremamente rude, si dormiva in gelide baracche a quota 2.700 metri, il trasporto del minerale a valle, ostacolato per molti mesi dall’abbondante innevamento, avveniva su slitte (lèse) e carrette trainate da muli; solo nel 1898 fu realizzata una teleferica. Il 19 aprile 1904, dopo imponenti nevicate, un’enorme valanga uccise 81 minatori. In seguito alla tragedia la miniera funzionò parzialmente solo d’estate e poi, dopo il 1910, chiuse definitivamente, non potendo più sostenersi economicamente. Passò più volte proprietà e nel 1914 le sue strutture metalliche furono vendute come rottame ad uso bellico. Oggi è una curiosità per escursionisti.
Questa sorte è toccata anche a tante altre miniere alpine, quasi sempre povere e situate in zone morfologicamente e climaticamente difficili, sebbene strategiche per gli approvvigionamenti delle circostanti pianure: il «Taglio del ferro» e le miniere di cobalto di Usseglio, in alta Valle di Viù, le miniere di Brosso in Valchiusella, le miniere di Cogne in Val d’Aosta, le miniere d’oro di Alagna Valsesia, tanto per citarne alcune. Finché la mano d’opera era disponibile a costi irrisori e senza alcuna garanzia sanitaria e di sicurezza per i minatori, si è grattato tutto ciò che la montagna poteva dare, ma allorché i costi sono aumentati e il rendimento minerario è sceso sotto una certa soglia l’abbandono è stato inevitabile, e l’approvvigionamento si è orientato su altri giacimenti, anche molto lontani.
L’attività mineraria delle Alpi, spesso iniziata in epoca preistorica, dopo millenni di sfruttamento è giunta al termine: il meglio è già stato estratto e goduto, ora non restano che le briciole. È solo questione di tempo, un tempo che oggi corre veloce sotto la spinta degli inediti appetiti di sette miliardi di individui, e poi anche tutte le altre miniere del mondo diventeranno come le silenziose gallerie del Beth.
Questo libro di Ugo Bardi, uno tra i rari docenti e ricercatori che si mettono anche a disposizione della divulgazione e della partecipazione civile, ci racconta la storia del nostro complesso rapporto con i minerali e con la sostenibilità a partire dai primordi fino ad oggi, quando si affaccia la concreta possibilità che l’esaurimento generalizzato delle nostre sorgenti estrattive si stia rivelando una realtà di cui dobbiamo cominciare a preoccuparci.
Luca Mercalli
Introduzione
L’11 settembre del 2001 è una data che tutti si ricordano per via degli attentati alle torri gemelle di New York; un evento che ha cambiato la visione del mondo per molti di noi. Anche per me, quel giorno sono cambiate molte cose; ma per un altro motivo. Mi ricordo che quella mattina girellavo in una libreria di Berkeley, in California, ancora sotto shock dopo aver visto il crollo delle torri in televisione. Curiosando fra gli scaffali, mi capitò in mano un libro intitolato Il Picco di Hubbert: la scarsità di petrolio prossima ventura. Era scritto da un geologo americano, Kenneth Deffeyes. Mi bastò una scorsa a quel libro per ricavarne una piccola rivelazione; una di quelle illuminazioni che ti capitano ogni tanto nella vita. Quell’11 settembre del 2001 è stato decisamente un giorno particolare per me.
Prima di allora, di petrolio me ne ero occupato sempre, ma in modo diverso. Per uno che fa il chimico di mestiere, il petrolio è un po’ come la Colt 45 per il pistolero dei film western: non è detto che la devi usare a ogni momento, ma la tieni sempre a portata di mano. Così, avevo cominciato la mia carriera studiando argomenti correlati alla raffinazione del petrolio e avevo continuato a lavorarci sopra per molti anni. Ma era la prima volta che trovavo dei dati che rispondevano a una domanda che mi ero sempre fatto: il petrolio esiste in quantità finite, e quanto ancora potrà durare?
La risposta di Deffeyes non era piacevole. L’esaurimento del petrolio non era una cosa per un lontano futuro; era qualcosa di cui già allora cominciavamo a sentire le conseguenze. Deffeyes esponeva il concetto di «Picco del petrolio» e spiegava che non voleva dire esaurimento. Voleva dire, piuttosto, costi talmente alti che la maggior parte di noi non avrebbe più potuto permettersi di usare il petrolio con la stessa noncuranza con cui l’abbiamo fatto fino a oggi. Questo avrebbe costretto l’industria a ridurre la produzione, generando così quel massimo produttivo che viene chiamato a volte «Picco di Hubbert» dal nome del geologo americano, Marion King Hubbert, che aveva proposto il concetto per la prima volta, negli anni Cinquanta. Secondo Deffeyes, il picco globale di produzione avrebbe potuto verificarsi entro i primi due decenni del ventunesimo secolo.
Quell’11 settembre del 2001, tante cose sono andate al loro posto, tante domande hanno avuto una risposta; incluso le vere ragioni dell’attacco alle torri gemelle di New York. Era un’altra salva delle «guerre per il petrolio» che non erano certamente cominciate allora e che sarebbero comunque durate ancora a lungo nel tentativo di controllare una risorsa che si fa sempre più scarsa. Da allora, è cominciata per me una ricerca che ha cambiato la mia vita. È stata la ricerca delle ragioni del nostro rapporto con il petrolio, del perché non ne possiamo più fare a meno e di cosa ci succederà via via che lo consumiamo, fino al giorno in cui, alla fine, quel poco che resterà sarà talmente costoso da estrarre che lo lasceremo dentro i pozzi. Un giorno, il petrolio sarà soltanto un ricordo del passato; è inevitabile. Quel giorno potrebbe non essere così lontano da non dover cominciare a preoccuparcene ora.
Con gli anni, mi sono accorto che il problema non è soltanto del petrolio, ma di tutte le risorse minerarie che utilizziamo: dai combustibili fossili (carbone e gas in aggiunta al petrolio) a tutti i metalli, i semiconduttori, i materiali da costruzione e quei preziosi fosfati senza i quali l’agricoltura non potrebbe produrre abbastanza cibo da sostenere sette miliardi di persone. Tutte queste sono risorse esauribili, nel senso che, a furia di estrarle e «consumarle» (ovvero trasformarle in rifiuti), finiremo con rimanere senza. E non è soltanto questo il problema; il fatto di trasformare le risorse in rifiuti ci crea enormi problemi di inquinamento, il principale dei quali è il riscaldamento globale creato dai prodotti di combustione degli idrocarburi e del carbone. È una vera tenaglia quella che ci sta schiacciando fra due problemi: esaurimento e inquinamento.
Tutte queste cose non mi erano ancora chiarissime in quel giorno dell’attacco alle Torri Gemelle di New York, ma cominciavo già a intuirle. Così, tornato in Italia, ho cominciato a studiare il petrolio non più come una serie di molecole da raffinare ma come parte di un ciclo economico ed ecologico planetario. Più tardi, ho conosciuto di persona Kenneth Deffeyes, l’autore del libro che mi aveva messo su questa strada. Ho anche conosciuto Colin Campbell, fondatore di aspo, l’associazione per lo studio del picco del petrolio. È stato Campbell a incoraggiarmi a continuare con gli studi che avevo cominciato a fare. Ho conosciuto anche tanti altri studiosi che si erano interessati al picco del petrolio. Jean Laherrere, geologo francese co-fondatore di aspo e straordinario analista dei dati petroliferi, Matt Simmons, finanziere americano esperto di petrolio che mi ha messo sulla strada di riesaminare e rivalutare il lavoro de I limiti dello sviluppo del 1972, Ali Morteza Samsam Bakthiari, geologo iraniano capace di recitare Dante Alighieri in italiano a memoria, e tanti altri che sarebbe troppo lungo citare.
Nel 2002, ho invitato Colin Campbell in Italia a presentare il suo lavoro in una conferenza che ha tenuto all’università di Firenze. Dopo la conferenza, io e un gruppetto di ricercatori italiani ci siamo riuniti nel mio ufficio e abbiamo fondato la sezione italiana dell’associazione per lo studio del picco del petrolio: aspo-Italia, che si è rivelata negli anni un crogiolo di menti brillanti e originali. Ci siamo messi a studiare non solo il petrolio, ma tutte le risorse, sia rinnovabili che non rinnovabili, e a proporre soluzioni in termini di «sostenibilità». Forse un concetto abusato, certo, ma l’unico che ci dà una speranza per il futuro.
Molto del lavoro che ho fatto in questi 10 anni è stato di divulgazione, più che altro su internet, sul sito di aspo-Italia e sul mio sito che si intitola «Effetto Cassandra». Ma non ho fatto solo divulgazione; piano piano, sono entrato nell’argomento al punto di pubblicare diversi articoli su riviste scientifiche internazionali e sono anche entrato nel gruppo degli autori di The oil drum un sito internet specializzato in argomenti petroliferi e di risorse minerali. Nel 2003 avevo pubblicato La fine del petrolio, il mio primo libro in assoluto. Come succede spesso in Italia, molti libri di scienza passano inosservati e anche questo non è che sia apparso sulla lista dei best-seller. Ma ha avuto successo in altri modi. Apparentemente, a molta gente ha fatto lo stesso effetto che aveva fatto a me il libro di Deffeyes sul picco di Hubbert che avevo trovato in quella libreria di Berkeley, l’11 settembre del 2001. Negli anni, ho ricevuto molte lettere di persone che mi hanno scritto «questo suo libro ha cambiato la mia visione del mondo». In più, La fine del petrolio si è rivelato un libro singolarmente profetico. Rivisto oggi, a distanza di alcuni anni, è impressionante notare quante cose scritte nel testo poi si sono avverate o si sono rivelate essere come descritte; dall’aumento dei prezzi del petrolio al disastro dell’invasione dell’Iraq. Non mi prendo nessun merito per questo valore profetico del libro; è un merito che va a quelli che mi hanno insegnato queste cose: Campbell, Laherrere, Deffeyes, Bakhtiari e tanti altri.
Seppure non obsoleto, La fine del petrolio è comunque un libro che ha ormai quasi dieci anni. Così, lo stesso editore che l’aveva pubblicato nel 2003, Editori Riuniti, mi ha invitato a trasformarlo in una nuova pubblicazione. Inizialmente, l’idea era di fare solo un aggiornamento ma, lavorandoci sopra, mi sono accorto che avevo tante cose in più da dire di quante non ne avessi 10 anni fa. Il risultato è stato un libro completamente nuovo che abbraccia un campo ben più vasto e dove ho condensato tutte le cose che ho scoperto da allora. Ho scoperto come l’esaurimento del petrolio è solo un caso particolare di una tendenza molto più generale, che riguarda tutte le materie prime. Ho scoperto l’importanza del concetto di eroei (Energy Return for Energy Invested), il ritorno energetico sull’energia investita che governa tantissime cose al mondo, incluso l’estrazione dei minerali. Ho scoperto come il picco del petrolio sia correlato a dei modelli già noti in biologia e in economia. Ho scoperto la potenza dei modelli che possiamo usare per capire il futuro (non per prevederlo, che è cosa assai diversa). Ho scoperto come il futuro di oggi era già stato immaginato molti anni fa con il libro I limiti dello sviluppo del 1972, tanto vituperato e insultato ma che, alla fine si rivela incredibilmente profetico. E ho scoperto tante altre cose. I cambiamenti causati dall’attività estrattiva umana sono qualcosa che non si era mai verificata con la rapidità attuale in centinaia di milioni di anni di storia planetaria. Questi cambiamenti stanno trasformando la Terra in un pianeta completamente diverso. Non è detto che questo nuovo pianeta che noi stessi stiamo creando non si riveli ostile alla vita umana. Che ci piaccia o no, l’ambiente non è un giocattolo per gli ambientalisti. L’ambiente è quella cosa che ci fa vivere. E noi stiamo giocando con questa cosa che ci fa vivere come se non avesse nessuna importanza.
In questo nuovo libro troverete una descrizione della situazione petrolifera e di tutte le risorse naturali, minerali e rinnovabili. Ci troverete le ragioni che ci spingono a dipendere così totalmente da risorse insostituibili e non rinnovabili. Ci troverete come la nostra fissazione con il petrolio ci stia conducendo a uno scontro con l’ecosistema causato dall’esaurimento e dall’inquinamento; uno scontro che non possiamo vincere, comunque vada. E, infine, ci troverete qualche nota sul futuro che forse vi potrà essere utile. Come si sa, il futuro non si può prevedere, ma riguardo al futuro si può essere preparati. Da quando mi occupo di petrolio ben poco di quello che è successo nel mondo mi ha preso veramente di sorpresa. Questa è stata una cosa utile per me, e credo che potrà essere utile anche a voi. Buona lettura!
U. B.
Parte prima
Minerali
You load sixteen tons, and what do you get?
another day older and deeper in debt
St. Peter, don’t you call me, ‘cause I can’t go
I owe my soul to the company store
Estrai sedici tonnellate e cosa te ne viene?
Hai un giorno di più e sei ancora più indebitato
San Pietro, non chiamarmi ancora, perché non posso andare
Sono in debito della mia anima allo spaccio della compagnia
Dalla canzone Sedici tonnellate di Merle Travis, 1946.
Il popolo dei minatori
Forse la storia più commovente che ci è arrivata dal mondo delle miniere è quella di Henry Russell¹, immigrato scozzese negli Stati Uniti. Nel 1927, intrappolato sul fondo di una miniera di carbone in Virginia, scrive a matita su un foglietto di carta le sue ultime parole di addio a suo padre e a sua moglie. Da quella miniera non uscirà vivo e a noi rimane impresso quello che scriveva alla moglie: «come ti amo, Mary». È soltanto uno sprazzo che ci arriva da un mondo lontano del quale sappiamo poco. Se cerchiamo nella letteratura, non troviamo quasi niente a proposito delle miniere e dei minatori. Più che altro, qualche canzone popolare come quella intitolata Sedici tonnellate scritta da Merle Travis nel 1946 sulla base di quello che si ricordava aver sentito dire da suo padre, minatore di carbone sempre indebitato con la sua compagnia mineraria. Se cerchiamo nella storia della pittura, non ci troviamo nessuna immagine: i pittori non erano interessati al mondo buio e ristretto delle miniere. Se poi cerchiamo di ricordarci il nome di qualche protagonista del lavoro delle miniere, ce ne può venire in mente soltanto uno: Alexej Stakhanov che, secondo la propaganda sovietica, avrebbe estratto nel 1936 l’improbabile quantità di oltre 200 tonnellate di carbone in un singolo turno. Così facendo si è guadagnato un posto nella storia con il termine «stakanovista», oggi inteso come un’offesa.
Figura 1. Il volto del duro lavoro del minatore;
a tutt’oggi il mestiere più rischioso che esista.
Più che dall’arte e dalla letteratura, ci possiamo rendere conto di cosa poteva essere il mondo dei minatori leggendo i rapporti sull’industria mineraria che, più di una volta, ci fanno rabbrividire. Forse il più agghiacciante di tutti è il rapporto della Commissione sulle miniere di Lord Ashley, del 1842², che aveva esaminato le condizioni di lavoro dei minatori inglesi. Fra le tante cose, leggiamo che si usavano comunemente bambini per scavare e trasportare il carbone; questo semplicemente perché potevano passare attraverso dei tunnel più stretti, e quindi meno costosi. Leggiamo dettagli come quello di una bambina di otto anni che racconta di essere addetta ad aprire e chiudere uno sportello all’interno di un passaggio di una miniera e che lo fa stando al buio quasi tutto il tempo. È ovvio: una candela costa soldi, e a che serve tenerla accesa quando non ce n’è bisogno? La bambina può stare al buio. Leggiamo tante altre cose che oggi ci fanno impressione ma che, evidentemente, erano il risultato della dura realtà di quei tempi.
E non era solo questione delle miniere di carbone inglesi. Lo sfruttamento e il maltrattamento dei minatori doveva essere una cosa comune in tutto il mondo, anche se ci sono pochi dati in proposito. Per esempio, ci arriva dal 1910 un rapporto sulle condizioni di lavoro delle miniere di zolfo siciliane, quando le visitò T. Booker Washington, un leader politico americano che si batteva per i diritti dei neri e dei poveri. Ci racconta di come i bambini fossero comunemente utilizzati per l’estrazione dello zolfo. Erano maltrattati e picchiati e, per costringerli a lavorare, si usavano le lampade da miniera per bruciare loro i polpacci³. Abbiamo delle foto che mostrano come, ancora negli anni 1950, i minatori di zolfo in Sicilia lavoravano completamente nudi nelle miniere. Era perché faceva caldo, certo, ma non poteva non essere anche il risultato di una volontà di umiliare i lavoratori. Per una storia più recente, Chiara Sasso, nel suo libro del 1993 Ferite di miniera, ci racconta delle difficili condizioni dei minatori del Sulcis, in Sardegna, sfruttati e costretti a lavorare in condizioni difficilissime fino a pochi decenni fa.
Figura 2. Una ragazza mentre tira un carretto
all’interno di una miniera di carbone inglese
in un’incisione del XIX secolo.
I minatori reagivano a questi maltrattamenti organizzandosi. I sindacati dei minatori in Inghilterra sono stati una forza politica importante fino agli anni 1980, quando il declino della produzione di carbone inglese ne ha ridotto enormemente il potere e l’influenza. Lo scontro con il governo di Margaret Thatcher, nel 1984-1985, si risolse in una dura sconfitta per i minatori che, da allora, non hanno più giocato un ruolo politico significativo. In altri casi, le società dei minatori erano illegali e quindi costrette alla clandestinità. È questo il caso dei Molly Maguires nell’Ottocento, società segreta di lavoratori irlandesi negli Stati Uniti che era composta principalmente di minatori. Si sa poco dei Molly Maguires, salvo il fatto che subirono una durissima repressione politica, non priva di vari casi di giustizia sommaria amministrata dai vigilantes dell’industria mineraria. Sicuramente, ancora oggi nei paesi più poveri si sfruttano i bambini per estrarre dalle miniere e i minatori adulti muoiono ancora di silicosi. Ma di queste cose, non si legge quasi mai sui giornali, se non quando qualche incidente spettacolare causa molte vittime.
Anche se tendiamo a ignorarlo, tuttavia, il lavoro nella miniera è parte della nostra storia. È con le miniere che è nata la rivoluzione industriale; è stata questa la molla che ha fatto succedere quasi tutto quello che è successo negli ultimi due o tre secoli. La nostra è una società che è nata e che vive sui minerali, che non potrebbe esistere senza minerali. Alla fine dei conti, siamo un popolo di minatori. Curiosamente, però, non ci poniamo spesso la domanda del come e del perché ci troviamo a essere così profondamente dipendenti dai minerali, quanto a lungo potremo continuare a estrarli e utilizzarli e quali effetti ha su di noi questo sconvolgimento planetario che chiamiamo «attività mineraria». Per capire queste cose, dobbiamo esaminare la storia delle miniere e dei minatori. È una storia che parte da molto lontano, da quando è nato il popolo dei minatori.
Per miliardi di anni di storia del nostro pianeta, i continenti sono stati soltanto deserti spazzati dal vento e dalla pioggia: senza né piante né animali. La vita, in quei tempi remoti, era solo acquatica: creature minuscole, monocellulari, che vivevano negli oceani. Poi, circa mezzo miliardo di anni fa, le cose sono cambiate. È successo quasi all’improvviso; perlomeno sulle scale di tempo geologiche. C’è stata una vera e propria esplosione di vita che ha generato gli animali e le piante multicellulari; creature che hanno poi colonizzato i continenti, trasformandoli da deserti in foreste ricche di vita. Le piante sono state i primi minatori del pianeta con le loro radici; meccanismi per assorbire minerali dal sottosuolo.
Certo, come minatori le piante non sono mai andate a grandi profondità. Si sono limitate allo strato di suolo fertile, l’humus; qualche metro al massimo. Però, la loro attività come minatori è stata intensa e continua per centinaia di milioni di anni. L’humus è una miniera planetaria che non solo contiene i minerali necessari per la vita delle piante e degli animali, ma li raccoglie e li ricicla continuamente. Questi minerali sono la base di un gran numero di reazioni chimiche che creano le strutture delle forme viventi: dal legno delle piante ai tessuti degli animali. Per mettere insieme queste strutture e mandare avanti la grande macchina che è la biosfera ci vogliono 27 elementi chimici diversi. Di questi, solo quattro (idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto) si possono prendere dall’atmosfera o dall’acqua. Tutti gli altri devono arrivare dal terreno; ovvero dall’humus, disciolti dagli acidi umici e assorbiti per mezzo delle radici. Fra questi, il prezioso fosforo; elemento essenziale per gli acidi nucleici. Un altro elemento essenziale per le proteine è lo zolfo e poi ci sono tutti i metalli: calcio, potassio, sodio, magnesio, ferro, rame, zinco, cromo, manganese, vanadio e tanti altri, tutti indispensabili – anche se alcuni in piccolissime quantità – per far funzionare gli intricati meccanismi che costituiscono il metabolismo degli esseri viventi. Animali e piante hanno ugualmente bisogno di questi elementi; la differenza è che gli animali non li estraggono dal sottosuolo, li possono solo prendere dalle piante o da altri animali.
Durante gli ultimi 500 milioni di anni, sulla Terra ci sono stati periodi glaciali, periodi di surriscaldamento, grandi estinzioni e catastrofi planetarie causate da asteroidi ed eruzioni vulcaniche. Ma, nel complesso, la vita della biosfera è cambiata poco; con le piante sempre occupate a estrarre minerali dal terreno e gli animali ad assorbirli dalle piante. Tutto veniva poi riassorbito e rimesso a disposizione in quell’immenso laboratorio chimico che è lo strato di humus. Oggi, si stima che ogni anno la biosfera produca circa 56 miliardi di tonnellate all’anno di nuova biomassa sulla superficie terrestre⁴. Degli elementi che compongono questa biomassa, la parte estratta dal terreno è intorno all’1%, il resto viene dall’atmosfera e dall’acqua. Tuttavia, se considerate che il ciclo dura da centinaia di milioni di anni, vedete che le piante hanno estratto e utilizzato quantità immense di minerali. Lo hanno fatto sempre con parsimonia e riciclando tutto. Non è mai successo che i minerali della biosfera siano finiti e neppure è mai successo che le piante si siano trovate soffocate dai loro stessi rifiuti.
Ma oggi qualcosa è cambiato. Da un paio di milioni di anni o poco più, un tempo recentissimo rispetto ai tempi geologici, c’è una specie sulla terra che appartiene al regno animale ma che fa una cosa che nessun animale aveva mai fatto prima di allora. È una specie che utilizza i minerali della crosta terrestre direttamente; senza il tramite delle piante. È un popolo di minatori che scava, trivella, frantuma ed estrae: siamo noi esseri umani. Siamo partiti circa due milioni e mezzo di anni fa quando i nostri antenati hanno cominciato a raccogliere le pietre che gli servivano come strumenti da taglio e da percussione. Ma, con i millenni, l’attività mineraria umana è aumentata enormemente. Gli esseri umani estraggono oggi almeno dieci miliardi di tonnellate all’anno di materiale dalla crosta terrestre: perlomeno dieci volte di più di quello che fanno le piante. E non solo; gli umani non si limitano ai 27 elementi usati dalla biosfera; estraggono e utilizzano tutti gli elementi presenti nella crosta terrestre; e anche qualcuno di più che hanno loro stessi creato. Gli umani, poi, scavano a profondità ben superiori a quelle accessibili alle radici delle piante: le loro trivellazioni arrivano a chilometri di profondità. L’attività dei minatori umani non è soltanto scortecciare o bucherellare la crosta terrestre: è trasformarla in modo profondo con immensi crateri, con montagne demolite, con minerali che erano rimasti sepolti per milioni di anni e che, ora, sono riportati in superficie e sparpagliati ovunque. La composizione chimica delle terre emerse e del mare sta cambiando, come pure quella dell’atmosfera. Con la loro attività mineraria, gli esseri umani stanno trasformando la Terra in un pianeta completamente diverso.
Figura