131a GAF
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Info su questo ebook
Dopo l’8 settembre del ‘43, i soldati italiani in Francia si trovano isolati e con scarso equipaggiamento. I tre ufficiali abbandonano le divise e partono per un viaggio di rientro tra le Alpi e le colline liguri, evitando le strade e le città costiere controllate dal nemico.
È un cammino rischioso e faticoso, che rinsalda la loro amicizia e li porta a conoscere altri patrioti che combattono contro il Terzo Reich e la Repubblica Sociale di Mussolini al fianco delle formazioni partigiane.
Le loro convinzioni sulla fedeltà alla Patria vacillano mentre si battono contro i tedeschi, i fascisti e il maggiore Reeder delle SS, un nemico personale perfido e crudele.
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Anteprima del libro
131a GAF - Tolomeo Litterio
dell’editore
Nota dell'autore
La Guardia alla Frontiera-GAF è stato un corpo militare istituito nel 1934 per consentire agli alpini e alle forze di polizia di ottenere il controllo dei confini e di operare al di fuori del territorio nazionale.
Essa aveva il compito di proteggere la frontiera dell'Impero, in special modo il Vallo Alpino del Littorio. Era costituita da truppe di fanteria, di artiglieria e del genio, che aveva il compito di realizzare le fortificazioni difensive.
In tutto contava circa sessantatremila uomini con duemila pezzi di artiglieria e mille mortai.
A essi furono aggregati reparti dei Reali Carabinieri e della Milizia volontaria fascista nazionale.
Il suo motto era: Dei sacri confini guardia sicura
.
Era suddivisa in comandi di settore (uno per ogni catena alpina), da cui dipendevano i gruppi di batterie posizionate in forti o capisaldi.
Ogni gruppo era formato da batterie di artiglieria sempre pronte o, all'occorrenza, da batterie a rapida mobilizzazione.
La storia tratta del 1° gruppo di artiglieria GAF dislocato sopra Mentone, facente parte della 4a Armata, con due batterie sempre pronte, la 131a e la 132a.
La GAF fu soppressa nel 1949.
I
6 settembre 1943, ore 6.00. Francia, alture di Mentone, 131a batteria GAF.
Antonio Limiti richiuse il quadernetto nero sul quale aveva appena terminato di scrivere una breve poesia. Scrivere versi era il suo modo per scaricare l’ansia e concentrarsi. Era sì, un Ufficiale del Regio Esercito Italiano, ma anche un giovanotto di ventidue anni che sino a poco prima viveva in famiglia e studiava.
La guerra l’aveva vissuta, ma combattuta poco, in quanto il dispiegamento delle batterie di artiglieria GAF sul territorio francese era avvenuto dopo che le truppe tedesche avevano sbaragliato il nemico, e quindi les italiens non avevano dovuto sparare un colpo.
I suoi pensieri, nei momenti di pausa dai doveri militari, oscillavano fra la famiglia paterna, che viveva a Napoli, e Danielle Livi, la tabaccaia biondina del Borgo Antico di Castellar Alpes Maritimes, che da qualche mese aveva preso possesso assoluto del suo cuore.
Le aveva dedicato alcune poesie, che lei aveva gradito molto, ma non si illudeva che le fossero piaciute per la bellezza e la profondità dei versi. Erano pensieri di un amore intenso, come solo quelli dei tempi di guerra possono essere, amori che durano magari qualche settimana se non qualche giorno, ma restano impressi a fuoco per tutta la vita.
Stavolta aveva pensato di imprimere sulla carta a quadretti il ricordo di Mirella, la stupenda ragazza di Trieste, la mula, come lei si autodefiniva.
Nonostante fossero passati quasi due anni dall’ultima volta che l’aveva vista, il pensiero gli provocava una nostalgia fortissima, che nelle serate malinconiche, lì alla batteria, si risvegliava bruciante.
Vorrei guardare il golfo da sopra la tua spalla, tagliato dal tuo profilo.
Vorrei che la bora soffiasse più forte.
E sentire il dolce schiaffo dei tuoi capelli che mi colpisce. Vorrei che la tua testa si girasse dolcemente,
facendo cadere le tue labbra sulle mie.
Da lontano sento le tue dita intrecciate alle mie, e intuisco il tuo sorriso anche senza vederlo.
Erano ore tristi per la vita, per la Patria, e il morso della nostalgia si faceva sentire forte.
6 settembre 1943, ore 6.30. Francia, Mentone, Hotel d’Italie.
Helmut Reeder cominciò a rimontare i pezzi della sua Walther P38 dopo averli ben oliati.
La prima volta che l’aveva avuta fra le mani era rimasto sorpreso di come si potesse maneggiare con facilità, nonostante il peso. Era bilanciatissima, precisa e potente, la migliore arma manuale moderna, simbolo dell’industria bellica del Terzo Reich.
Ne aveva una cura quasi maniacale, perché era la sua ultima linea di difesa in caso di pericolo, e lo era stata almeno due volte nelle imboscate subite nelle campagne parigine.
Controllò il caricatore, lo inserì nel corpo dell’arma e fece scivolare un colpo in canna.
Ora il suo battaglione delle Waffen SS era stato spostato a sud della Francia per rinforzare il fronte italiano, non ancora belligerante, creatosi dopo la defenestrazione di Mussolini.
Lo considerava il peggiore dei tradimenti, avvenuto da parte del Re Vittorio Emanuele III nei confronti del Duce, ma anche e soprattutto del Reich, e non aveva dubbi che presto avrebbe dovuto sparare contro i mangia-spaghetti italiani, indisciplinati, vanitosi e, soprattutto, deboli.
Lo sarebbero stati ancora di più dopo avergli requisito mezzi e armi, per usarle conto gli anglo-americani già sbarcati in Sicilia.
Aveva un desiderio fisico di sparare, soprattutto da quando la certezza di vincere la guerra rapidamente e facilmente si era incrinata, per colpa dei superiori inetti che lo avevano relegato in una retrovia, degli italiani e del loro Re, che avevano vigliaccamente ceduto uno dei fronti più delicati, e anche di Mussolini, ridotto ormai a un fantoccio protetto solo dalla Wermacht, in una enclave di pupazzi fascisti vestiti da marionette.
Non vedeva l’ora di farlo.
6 settembre 1943, ore 8.00. Francia, Costa Azzurra, Castellar Alpes Maritimes.
–Buongiorno mademoiselle Danielle – salutò il fornaio del Borgo Antico.
–Buongiorno – rispose lei, rigorosamente in italiano.
Era nata a Mentone, trentadue anni prima, ma da molti anni viveva a Castellar a.m.
La sua famiglia si era spostata dalla città per prendere in gestione una bottega di Stato per i Sali e Tabacchi nel piccolo borgo. Poi l’attività si era ingrandita e avevano preso anche generi di drogheria.
A casa, i genitori, nati in Francia ma figli di italiani, le avevano insegnato ambedue le lingue. Dicevano che la conoscenza dell’italiano era indispensabile per la vicinanza con il confinante Regno d’Italia, ma soprattutto perché era la lingua dei loro nonni e prima ancora dei loro avi materni e paterni, e parlarla significava mantenere vivi i legami familiari.
Danielle l’adorava non solo per i motivi che le avevano raccontato i genitori, ma perché era una lingua con belle sonorità, musicale, e possedeva parole e aggettivi che potevano descrivere sentimenti e bellezze dell’arte e della natura meglio di tutti gli altri idiomi.
Così aveva iniziato e poi proseguito a leggere romanzi e opere letterarie in italiano, innamorandosi di quella nazione e di quella gente così raffinata nei modi, nei pensieri e nella cultura.
A parte questo si sentiva profondamente francese, cittadina di una nazione di cui le piacevano immensamente la storia, la musica, i due mari a sud e a nord, così differenti fra loro, e il tono agrodolce della lingua.
Aprendo la porta della bottega pensò a Pierre, suo fratello, francese fino al midollo, che non vedeva da quasi due anni, da quando era andato a Marsiglia per unirsi alla resistenza, la maquis.
Con un rapido collegamento i suoi pensieri si spostarono su Antonio. Oltre che un soldato italiano era un uomo con molti aspetti in comune con Pierre. Erano quasi coetanei, Pierre aveva un anno in più, entrambi possedevano la fiamma della passione e gli ideali di amore per la loro Patria. Purtroppo erano in guerra fra loro.
Lasciamo perdere, pensò. Patria e religioni erano bei concetti che però, in pratica, portavano a lotte e omicidi.
Forse quella sera avrebbe visto Antonio e avrebbero parlato anche di questo.
Gli avrebbe preparato una cena con il pesce che aveva trovato da Marcel, il suo amico pescatore, e aveva comprato anche una bottiglia di Muscadet che mise al fresco nel pozzo.
Aprì la porta di legno massello della bottega, entrò, aprì anche la finestra dando luce e aria al locale ordinatissimo. Si guardò allo specchio alto del mobile che fungeva da custodia dei francobolli e dei valori bollati, e vide una ragazza bionda, con un vestito di cotone a strisce multicolori verticali legato in vita da una cintola di pelle, bianca come i sandaletti. Si avvicinò e i suoi occhi castani scintillarono, circondati da corone di rughe finissime, quasi invisibili. Da quando conosceva Antonio si piaceva di più.
Chissà se stasera porterà un sigaro toscano. Lo avrebbero fumato insieme, pensando e chiacchierando del passato e del futuro, che ormai voleva dire solo domani e forse dopodomani.
6 settembre 1943. Ore 17.00. 131a batteria GAF.
Alle cinque del pomeriggio Antonio Limiti s’incamminò verso la recinzione sud della postazione di artiglieria GAF, seguendo un sentiero sconnesso, ornato da cespugli di macchia mediterranea selvatica e da borragine.
Arrivò fino alla rete del limite invalicabile, e salì su uno sperone di roccia da cui si vedeva il mare.
La brezza marina pomeridiana lo colpì piacevolmente non appena ebbe superato la protezione rocciosa, l’odore di salmastro e la luce del sole che gli proveniva dalle spalle lo riportarono come un lampo al ricordo di Trieste, tre anni prima.
Anche allora guardava il mare colore azzurro scuro che gli si stendeva davanti, ma ora non avvertiva più quel senso di pace e di completezza nel cuore e nella mente.
Forse perché con lui c’era Mirella, con il braccio infilato sotto al suo e la testa poggiata sulla spalla. Il ricordo dei suoi capelli era vivo come se gli fossero rimasti tatuati sulla guancia.
In quel momento ne sentì contemporaneamente la vicinanza e la dolorosa lontananza.
–Che inguaribile romantico – si disse da solo, con ironia.
Sperava che anche lei lo stesse pensando, e che il destino, chissà come e quando, gli potesse regalare un’altra possibilità.
Rinfrancato dai pochi minuti di respiro, iniziò a ridiscendere verso il campo, predisponendosi a una riunione dei comandanti di batteria e di gruppo, a fianco dei suoi colleghi e con il colonnello Pandolfi del comando di Corpo d’Armata.
Erano molte le domande che voleva fargli, ma non sapeva se ne avrebbe avuto la possibilità.
Arrivò alla tenda comando, dove trovò il tenente Adamo Galati, suo comandante del primo gruppo, e l’amico sottotenente Emilio Di Maria, comandante della 132a batteria. Adamo stava scrivendo seduto in fondo alla tenda e si rivolsero un silenzioso saluto con gli occhi. Stava prendendo appunti per la riunione che sarebbe cominciata di lì a poco.
Emilio sonnecchiava. Sul respiro del suo sonno si poteva regolare un orologio svizzero, a meno del ticchettio
che era forse superiore a quello di un cronometro, ma comunque ci si poteva abituare.
Per non svegliarlo Antonio prese dalla fondina la sua Beretta calibro 9 e la portò fuori. Era l’unico oggetto personale dal quale non poteva separarsi in caso di abbandono della postazione. Se tutto il resto poteva essere perso o distrutto, l’arma no, quella era dotazione personale.
Salvo qualche tiro al poligono non l’aveva mai utilizzata in azione, e pregava Dio di non doverlo fare, ma la controllava giornalmente. Anche la bandiera non poteva essere mai abbandonata, ma quella l’avrebbe custodita il comandante di gruppo.
Si prese un sigaro dal contenitore comune che i tre ufficiali dividevano e rifornivano disciplinatamente. Ne tagliò le estremità e lo accese con un fiammifero facendolo girare accuratamente fra due dita.