Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il diritto di contare
Il diritto di contare
Il diritto di contare
Ebook435 pages11 hours

Il diritto di contare

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

VOLEVANO CAMBIARE LE LORO VITE. INVECE HANNO FATTO LA STORIA.
Se John Glenn ha orbitato intorno alla terra e Neil Armstrong è stato il primo uomo a camminare sulla luna, parte del merito va alle scienziate della NASA che negli anni Quaranta, armate di matita, regolo e addizionatrice, elaborarono i calcoli matematici che avrebbero permesso a razzi e astronauti di partire alla conquista dello spazio.
Tra loro c'erano anche Dorothy Vaughan, Mary Jackson e Katherine Johnson. Chiamate in servizio durante la Seconda guerra mondiale a causa della carenza di personale maschile, quando l'industria aeronautica americana aveva un disperato bisogno di esperti con le giuste competenze, queste tre donne afroamericane lasciarono le proprie vite per trasferirsi in Virginia a lavorare per il Langley Memorial Aeronautical Laboratory. Il loro contributo, benché le leggi sulla segregazione razziale imponessero loro di non mescolarsi alle colleghe bianche, si rivelò determinante per raggiungere l'obiettivo a cui l'America aspirava: battere l'Unione Sovietica nella corsa allo spazio e riportare una vittoria decisiva nella guerra fredda.
LanguageItaliano
Release dateJan 19, 2017
ISBN9788858964910
Il diritto di contare
Author

Margot Lee Shetterly

Nata e cresciuta a Hampton, in Virginia, ha conosciuto di persona molte delle protagoniste de Il diritto di contare (di questo saggio), è membro della Fondazione Alfred P. Sloan e per i suoi studi sul contributo delle donne alla matematica ha ricevuto una borsa di studio dalla prestigiosa Virginia Foundation of the Humanities. Prima di trasferirsi a Charlottesville, dove vive con il marito, è stata per molti anni a New York e in Messico.

Related to Il diritto di contare

Related ebooks

Performing Arts For You

View More

Related articles

Reviews for Il diritto di contare

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il diritto di contare - Margot Lee Shetterly

    successivo.

    Ai miei genitori, Margaret G. Lee e Robert B. Lee III,

    e a tutte le donne della NACA e della NASA

    che hanno offerto le loro spalle su cui salire.

    Nota dell'autrice

    Negro. Di colore. Indiano. Ragazze. Anche se alcuni lettori potranno trovare il linguaggio de Il diritto di contare stonato per le loro orecchie moderne, ho fatto il possibile per rimanere fedele all'epoca e alle voci delle persone ritratte in questa storia.

    Prologo

    «Mrs. Land faceva la calcolatrice al Langley» buttò lì mio padre svoltando a destra all'uscita dal posteggio della nostra chiesa, la First Baptist Church di Hampton, Virginia.

    Io e mio marito eravamo andati a trovare i miei genitori appena dopo il Natale del 2010 e ci stavamo godendo alcuni giorni di pausa dai ritmi frenetici della nostra vita in Messico. I miei ci portavano a zonzo sulla ventennale monovolume verde, papà alla guida, mamma sul sedile del passeggero, Aran e io assicurati al sedile posteriore dalle cinture come due bravi fratellini. Papà, chiacchierone come sempre, ci regalava una radiocronaca che passava da aggiornamenti su ogni amico e vicino in cui ci imbattevamo al bollettino meteorologico e a complessi discorsi di fisica. Era un sessantaseienne dottorando alla Hampton University e stava ultimando la sua ricerca. Si divertiva molto a scarrozzare per la Virginia mio marito, nato e cresciuto nel Maine, cogliendo nel frattempo l'occasione per rinsaldare i miei legami con la vita e la storia del posto.

    Quando non eravamo a spasso, trascorrevo i pomeriggi al cinema del quartiere con mamma, mentre Aran andava con papà e i suoi amici alle partite di football della Norfolk State University. Ci rimpinzavamo di sandwich al pesce fritto nei bar intorno a Buckroe Beach, curiosavamo tra le collezioni del museo dei nativi americani alla Hampton University e passavamo al setaccio i negozi d'antiquariato.

    Da diciottenne sbarbatella impaziente di andare al college, avevo visto la mia città natale come un mero trampolino di lancio per una vita in località più mondane, un luogo da cui allontanarmi quanto prima. Ma neppure anni e chilometri di distanza sarebbero riusciti a indebolire la presa di Hampton sulla mia identità, e più esploravo territori e persone lontani da casa, più il mio status di figlia del posto acquisiva significato.

    Il giorno successivo alla visita in chiesa, trascorremmo parecchie ore in compagnia della formidabile Mrs. Land, che a catechismo era sempre stata una delle mie insegnanti preferite. Kathaleen Land, matematica della NASA in pensione, viveva ancora da sola a novant'anni suonati, e non si perdeva mai una funzione domenicale. Quando alla fine ci salutammo, montammo sulla monovolume diretti a un brunch di famiglia. «Da queste parti molte donne, nere e bianche, hanno lavorato come calcolatrici umane» spiegò papà guardando Aran nello specchietto retrovisore, ma rivolgendosi a entrambi. «Kathryn Peddrew, Ophelia Taylor, Sue Wilder» elencò, snocciolando alcuni nomi. «E Katherine Johnson, che ha calcolato le finestre di lancio per i primi astronauti.»

    L'aneddoto risvegliò ricordi vecchi di decenni sulle vacanze scolastiche, magiche per noi bambini, trascorse nell'ufficio di papà al Langley Research Center della NASA. La Pontiac del 1970 (papà alla guida, io sul sedile del passeggero, Ben e Lauren – mio fratello e mia sorella – su quello posteriore) superava il ponte Virgil I. Grissom, scendeva il Mercury Boulevard e poi imboccava la strada che ci portava ai cancelli della NASA, un tragitto di venti minuti in tutto. Papà mostrava il badge, ed eccoci in un campus dai viali perfettamente paralleli fiancheggiati dall'inizio alla fine da anonimi edifici di mattoni rossi a due piani. Solo il gigantesco complesso di gallerie del vento ipersoniche (una sfera argentea scanalata di trenta metri di diametro che vigila su altri quattro globi, sempre argentati ma lisci, di diciotto metri di diametro l'uno) provava che, in un luogo che per il resto aveva un aspetto del tutto ordinario, si svolgeva un lavoro straordinario.

    L'edificio 1236, destinazione quotidiana di papà, ospitava un dedalo bizantino di cubicoli grigio governativo, pregni degli odori adulti di caffè e fumo di sigarette stantio. I suoi colleghi ingegneri, con quel loro stile disordinato e i modi distratti, sembravano uccelli esotici in una riserva. Ci davano pile di vecchi fogli a modulo continuo, quelli sputati dalle stampanti di una volta, zeppi di sfilze criptiche di numeri su un lato, mentre l'altro, bianco, era la tela perfetta per i nostri capolavori a pastelli. Molti di quei cubicoli erano occupati da donne. Rispondevano al telefono e sedevano davanti a macchine da scrivere, ma tracciavano anche geroglifici su lucidi e diapositive e si consultavano con papà e gli altri uomini dell'ufficio in merito alle cataste di documenti che ingombravano le loro scrivanie. Che così tante tra loro fossero afroamericane, molte dell'età di mia nonna, mi sembrava semplicemente parte dell'ordine naturale delle cose: cresciuta a Hampton, per me il volto della scienza era scuro come il mio.

    Papà era entrato al Langley nel 1964, da studente, in virtù di un progetto di alternanza scuola-lavoro, e ne era uscito nel 2004 da climatologo di fama internazionale ormai in pensione. Cinque dei suoi sette fratelli avevano dimostrato di avere stoffa come ingegneri o tecnologi, e alcuni dei suoi migliori amici (David Woods, Elijah Kent, Weldon Staton) avevano avuto brillanti carriere ingegneristiche al Langley. Il nostro vicino di casa insegnava fisica alla Hampton University. In chiesa c'erano caterve di matematici. Esperte di velocità supersoniche occupavano posizioni chiave nella confraternita femminile di mamma, e ingegneri elettrotecnici facevano parte del consiglio di amministrazione delle associazioni di ex alunni del college dei miei genitori. Il marito di zia Julia, Charles Foxx, era il figlio di Ruth Bates Harris, burocrate in carriera nonché accanita paladina dei diritti delle donne e delle minoranze. Nel 1974 la NASA la nominò assistente amministrativa, la donna di grado più elevato di tutto l'ente spaziale. Certo, la comunità di colore includeva docenti di inglese, come mia madre, così come medici e dentisti, meccanici, custodi e fornitori, calzolai, organizzatori di matrimoni, agenti immobiliari e impresari di pompe funebri, diversi avvocati e una manciata di venditrici di cosmetici della Mary Kay. Da bambina, però, conoscevo così tanti afroamericani che operavano nell'ambito della scienza, della matematica e dell'ingegneria da pensare che fosse semplicemente ciò che i neri facevano.

    Papà, cresciuto all'epoca della segregazione, aveva vissuto una realtà diversa. «Diventa insegnante di educazione fisica» gli suggerì il nonno nel 1962, quando lui, diciottenne, si era intestardito a volere frequentare ingegneria elettrotecnica al Norfolk State College, una delle università storiche per i neri.

    A quei tempi, gli afroamericani con buoni voti e buonsenso che andavano al college puntavano all'insegnamento, o a un impiego all'ufficio postale. Ma papà, che aveva costruito il suo primo razzo alle medie nelle ore di metallurgia a seguito del lancio dello Sputnik, nel 1957, sfidò il nonno e si buttò a capofitto nell'ingegneria. Ovviamente i timori del nonno – cioè che per un uomo di colore fosse difficile sfondare in quel campo – non erano privi di fondamento. Ancora nel 1970, solo l'1% di tutti gli ingegneri americani era di colore, numero che nel 1984 sarebbe salito a un esorbitante 2%. In compenso, il governo federale era il datore di lavoro più affidabile per gli afroamericani negli ambiti scientifico e tecnologico: nel 1984, l'8,4% degli ingegneri della NASA era di colore.

    Così, i dipendenti afroamericani dell'ente spaziale impararono a farsi largo, e i loro successi fornirono a loro volta ai figli un accesso alla società americana fin lì inimmaginabile. Cresciuta con amici bianchi e avendo frequentato scuole integrate, avevo dato per scontato molto del lavoro che c'era stato dietro.

    Ogni giorno guardavo papà indossare il completo e uscire in retromarcia dal vialetto per affrontare i venti minuti di tragitto fino all'edificio 1236, chiedendo il massimo a se stesso per poter dare il massimo al programma spaziale e alla famiglia. Con il suo lavoro all'agenzia, papà ottenne per noi un nido in seno all'agiata classe borghese, e il Langley divenne un punto fermo della nostra vita sociale. Ogni estate, i miei fratelli e io tenevamo da parte la paghetta per fare un giro sui pony all'annuale luna park della NASA. Anno dopo anno, affidavo la mia lista dei desideri al Babbo Natale della NASA nel corso della festa che l'ente spaziale organizzava per i bambini. Per anni, Ben, Lauren e la mia sorellina Jocelyn, all'epoca ancora una nanerottola, si sono seduti sugli spalti del Langley Activities Building il giovedì sera, a tifare per papà e la sua squadra di basket della NASA, le Stelle. Sono stata un prodotto della NASA proprio quanto l'allunaggio.

    La scintilla di curiosità presto fece divampare un incendio: bersagliai papà di domande sui suoi inizi al Langley a metà degli anni Sessanta, interrogativi che non avevo mai posto prima. La domenica successiva intervistai Mrs. Land sui suoi primi tempi nel pool di calcolatrici del Langley, quando parte dei suoi compiti consisteva nel sapere qual era il bagno destinato alle dipendenti di colore. E meno di una settimana dopo sedevo sul divano di Katherine Johnson, sotto una bandiera americana che era stata sulla Luna, ad ascoltare una novantatreenne con una memoria più pronta della mia che mi raccontava di autobus con zone separate e di anni trascorsi a insegnare e crescere una famiglia, e poi a calcolare la traiettoria per il volo spaziale di John Glenn. Ascoltai gli aneddoti di Christine Darden sui lunghi anni passati come analista dati, in attesa dell'occasione di dare prova delle sue capacità come ingegnere.

    Persino da professionista in un mondo integrato, ero stata l'unica donna di colore in abbastanza sale riunioni e consigli d'amministrazione per avere un'idea della faccia tosta necessaria a una donna afroamericana nel Sud segregazionista per dire ai capi che era sicura che i suoi calcoli avrebbero mandato un uomo sulla Luna. I passi di queste donne avevano spianato la strada ai miei; immergermi nelle loro vicende mi aiutò a capire la mia.

    Anche se la storia fosse cominciata e finita con le prime cinque donne nere, nel maggio 1943, che erano andate a lavorare nella segregata Area ovest del Langley (quelle in seguito conosciute come le calcolatrici ovest), mi sarei impegnata comunque a riportare fatti e circostanze delle loro vite. Proprio come quando si studiano le isole, luoghi con una biodiversità unica e variegata, e si scopre che ovunque sono rilevanti per gli ecosistemi, così indagare su persone ed eventi del passato apparentemente isolati o dimenticati ha portato alla luce nessi imprevisti che hanno chiarito meglio la vita odierna. L'idea che delle donne di colore siano state reclutate come matematiche nella sede della NASA nel Sud degli Stati Uniti durante la segregazione supera le nostre aspettative e mette in discussione molto di ciò che siamo convinti di sapere delle vicende americane. È una grande storia, e già solo per questo merita di essere raccontata.

    Quando ho cominciato a svolgere ricerche per questo libro, ho condiviso le mie scoperte con diversi esperti della storia dell'ente spaziale. Pur incoraggiandomi ad andare avanti – tutti concordavano nel considerarle una preziosa aggiunta al corpus di conoscenze sull'argomento – alcuni hanno messo in dubbio la portata della vicenda.

    «Di quante donne stiamo parlando? Cinque o sei?»

    Già per il fatto di essere cresciuta a Hampton sapevo che erano molte di più, ma persino io sono rimasta sorpresa davanti ai numeri, in continua crescita via via che le ricerche avanzavano. Continuavano a saltarne fuori altre, nelle fotografie e sugli elenchi telefonici, in fonti al contempo prevedibili e del tutto impreviste. Un riferimento a un lavoro al Langley Memorial Aeronautical Laboratory in un annuncio di fidanzamento sul Norfolk Journal and Guide; una manciata di nomi dalla figlia di una delle prime calcolatrici dell'Area ovest; una comunicazione di servizio di un impiegato dell'ufficio del personale del Langley che, nel 1951, elenca numeri e status dei dipendenti di colore, e inaspettatamente accenna a una ricercatrice di grado GS-9¹; un documento del 1945 che parla di un alveare di attività matematica in un ufficio di un edificio nuovo nell'Area ovest del Langley, il cui organico era costituito da venticinque donne di colore che estraevano numeri dalle calcolatrici meccaniche ventiquattro ore su ventiquattro, sorvegliate da tre capoturno di colore che facevano riferimento a due capocalcolatrici bianche². Persino mentre scrivevo le ultime parole di questo libro continuavo a correggere le cifre. Sono in grado di identificare quasi cinquanta donne nere che hanno lavorato come calcolatrici, matematiche, ingegneri o ricercatrici al Langley dal 1943 agli anni Ottanta, e l'intuito mi dice che se setacciassi ancora un po' gli archivi ne salterebbero fuori almeno altre venti.

    E anche se le donne di colore sono le più nascoste tra le matematiche che hanno lavorato alla NACA (National Advisory Committee for Aeronautics), poi NASA (National Aeronautics and Space Administration), non erano le uniche a sedere nell'ombra. Le donne bianche, che negli anni hanno costituito la maggioranza del personale matematico in forza al Langley, di rado hanno visto riconosciuti i contributi apportati al pluriennale successo dell'agenzia. Virginia Biggins si occupò del Langley per il Daily Press, coprendo il programma spaziale a partire dal 1958. «Mi dicevano: Ecco qui uno scienziato, ecco un ingegnere³, e si trattava sempre di uomini» spiegò in un intervento del 1990 a un convegno sui computer in gonnella del Langley. Non le fecero mai incontrare neppure una donna. «Ne avevo concluso che fossero tutte segretarie⁴.» Cinque donne bianche⁵ si erano unite alla prima squadra di calcolo del Langley nel 1935. Entro il 1946, quattrocento ragazze erano già state addestrate come fanteria aeronautica. In uno studio del 1994, la storiografa Beverly Golemba stimò che il Langley avesse impiegato diverse centinaia⁶ di donne come calcolatrici umane. Con la ricerca per Il diritto di contare ormai terminata, sono in grado di dirvi che quel numero potrebbe superare il migliaio.

    Per un'autrice alla sua prima esperienza come storiografa, i rischi insiti nell'occuparsi di un argomento praticamente assente dai libri di storia sono piuttosto elevati. Inoltre percepisco la dissonanza cognitiva innescata dall'espressione matematiche di colore alla NASA. Fin dall'inizio sapevo che avrei dovuto applicare alle mie ricerche lo stesso tipo di ragionamento analitico che queste donne esercitavano nel loro lavoro. Per quanto eccitante fosse stanare un nome dopo l'altro, infatti, scoprire la loro identità è stato solo il primo passo. La vera sfida consisteva nel documentare il loro operato: ancora più del numero sorprendente di donne bianche e nere nascoste in una professione universalmente considerata bianca e maschile, la vera rivelazione è stata la mole di lavoro che si erano lasciate alle spalle.

    C'era Dorothy Hoover, che lavorava per Robert T. Jones nel 1946, e nel 1951 aveva pubblicato una ricerca sulle sue famose ali a delta. C'era Dorothy Vaughan, che aveva collaborato con le calcolatrici bianche dell'Area est alla redazione di un manuale sui metodi algebrici per le macchine calcolatrici che erano loro fedeli compagne. C'era Mary Jackson, a difendere la sua analisi contro John Becker, uno dei più grandi esperti di aerodinamica al mondo. C'era la matematica Katherine Coleman Goble Johnson, che definì la traiettoria orbitale del volo di Glenn, nella sua pionieristica relazione del 1959, elegante, precisa e maestosa come una sinfonia. C'era Marge Hannah, la calcolatrice bianca che fece da primo capo delle donne di colore, che aveva scritto una dissertazione a quattro mani con Sam Katzoff, il capo scienziato del laboratorio. C'era Doris Cohen, che aveva puntato in alto con la sua relazione di ricerca, prima autrice donna della NACA nel lontano 1941.

    La mia indagine divenne più simile a un'ossessione: seguivo qualunque traccia se significava giungere a una delle calcolatrici. Ero decisa a documentarne l'esistenza e il talento in modo tale che la storia non potesse più dimenticarle. Via via che le fotografie e le comunicazioni di servizio e le equazioni e i ricordi di famiglia diventavano persone vere, via via che le donne diventavano mie compagne e tornavano giovani, o tornavano in vita, cominciai a volere per loro qualcosa di più che metterne agli atti la presenza. Ciò che desideravo era che la loro storia venisse raccontata attraverso la grandiosa narrativa che meritavano, il tipo di epica americana che appartiene ai fratelli Wright e agli astronauti, ad Alexander Hamilton e a Martin Luther King Jr. Non come storia a sé, ma come parte di quella Storia che tutti conosciamo. Non ai margini, ma nel cuore, protagoniste del dramma. E non solo perché erano di colore, o perché erano donne, ma perché sono state parte dell'epopea americana.

    Oggi la mia città natale, quel borgo che nel 1962 si autosoprannominò Spacetown USA⁷, ha l'aspetto di una qualunque cittadina nella moderna e iperconnessa America. Persone di ogni razza e nazionalità si mescolano sulle sue spiagge e alla stazione degli autobus, i cartelli PER SOLI BIANCHI di un tempo relegati nei musei di storia locale e nella memoria dei superstiti della rivoluzione per i diritti civili. Il Mercury Boulevard non evoca più immagini dell'eponima missione che ha lanciato i primi americani oltre l'atmosfera, e ogni giorno il ricordo di Virgil Grissom sbiadisce un po' dal ponte che porta il suo nome. Un programma spaziale ridimensionato e decenni di tagli governativi hanno colpito duramente la regione. Oggigiorno, una laureata ambiziosa con il bernoccolo della matematica punta a una startup della Silicon Valley o a una delle tante aziende tecnologiche che dominano il NASDAQ dalla periferia della Virginia fino a Washington DC.

    Prima che il computer diventasse un oggetto inanimato, però, e prima che il Centro di controllo missione atterrasse a Houston; prima che lo Sputnik cambiasse il corso della storia, e prima che la NACA diventasse NASA; prima che la sentenza della Corte Suprema nel caso Brown v. Board of Education of Topeka (Brown e altri contro il Consiglio scolastico di Topeka e altri) stabilisse che di fatto separato non significava uguale, e prima che la poesia del sogno di Martin Luther King si riversasse giù dalla scalinata del Lincoln Memorial, le calcolatrici dell'Area ovest del Langley aiutarono gli Stati Uniti a dominare l'aeronautica, la ricerca spaziale e la tecnologia informatica, ritagliandosi uno spazio come matematiche donne che erano anche di colore, matematiche di colore che erano anche donne. A un gruppo di brillanti e ambiziose afroamericane, preparatesi con impegno e sacrifici per una carriera scientifica e impazienti di avere l'occasione giusta, Hampton, Virginia, dev'essere sembrata il centro dell'universo.

    Il diritto di contare

    1

    SI APRE UNA PORTA

    Melvin Butler, responsabile del personale al Langley Memorial Aeronautical Laboratory, aveva un problema, la cui portata e natura vennero esplicitate a chiare lettere in un telegramma del maggio 1943 al direttore operativo della pubblica amministrazione.

    Questa struttura ha bisogno urgente di circa 100 fisici e matematici junior, 100 aiuto calcolatrici, 75 apprendisti di laboratorio, 125 aiuto apprendisti, 50 stenodattilografe¹.

    Ogni mattina, alle sette in punto², l'elegante Butler in farfallino e il suo staff si mettevano all'opera e spedivano la station wagon del laboratorio³ allo scalo ferroviario locale, alla stazione degli autobus e al terminal del traghetto per recuperare gli uomini e le donne (tantissime donne, ora, ogni giorno sempre più donne) che si erano spinti fino a quella isolata lingua di terra sulla costa della Virginia. La navetta scaricava i neoassunti al campus del Langley Field, e più precisamente all'ingresso del Service Building del laboratorio. Al piano di sopra, lo staff di Butler li guidava rapido nella trafila del primo giorno: moduli, fotografie e il giuramento d'ufficio. «Giuro solennemente di sostenere e difendere la costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, esterni e interni... e che Dio mi aiuti⁴.»

    Una volta sistemati, i dipendenti si sparpagliavano per andare a occupare le rispettive postazioni in uno degli edifici della struttura, in continua crescita, già tutti pieni come baccelli maturi. Sherwood Butler, responsabile acquisizioni del laboratorio, ancora non aveva fatto posare l'ultimo mattone di un edificio nuovo che già il fratello, Melvin, si affrettava a riempirlo di nuovi dipendenti. Sgabuzzini e corridoi, magazzini e laboratori fungevano da uffici improvvisati. Qualcuno ebbe la brillante idea di mettere due scrivanie testa a testa e di dotare provvisoriamente il nuovo mobile di fortuna di un seggiolino pieghevole così da strizzare tre impiegati nello spazio destinato a due. Nei quattro anni trascorsi da quando le truppe di Hitler avevano invaso la Polonia, e cioè da quando gli interessi americani e la guerra europea erano confluiti in uno scontro senza quartiere, l'organico del laboratorio era salito dai circa cinquecento⁵ dipendenti iniziali fino a quasi millecinquecento. Ma la macchina bellica, perennemente affamata, li aveva inghiottiti in un sol boccone, e ancora non era sazia.

    Gli uffici dell'edificio amministrativo guardavano sulla mezzaluna del campo d'aviazione. Solo il flusso di persone in abiti borghesi dirette al laboratorio, il più vecchio avamposto della NACA, differenziava i bassi edifici di mattoni dell'ente aeronautico da quelli identici usati dall'US Army Air Corps. Il complesso militare e quello civile erano cresciuti insieme: la base di volo consacrata allo sviluppo del potenziale aereo statunitense, il laboratorio un'agenzia incaricata di far progredire le conoscenze scientifiche in campo aeronautico e diffondere le sue scoperte nell'industria militare e privata. Fin dall'inizio, l'esercito aveva concesso al laboratorio di operare sul campus della base aerea. Il contatto ravvicinato con gli aviatori dell'esercito serviva agli ingegneri e ai tecnici da costante promemoria del fatto che ogni esperimento che conducevano aveva conseguenze nel mondo reale.

    Nel 1942, il doppio hangar – due aviorimesse affiancate lunghe trentatré metri e mezzo – era stato dipinto con vernice mimetica per ingannare eventuali occhi nemici in cerca di obiettivi, l'interno buio e cavernoso che proteggeva macchine e operatori. Uomini in tute di tela olona, spesso in gruppo, si spostavano su carrelli e jeep da aereo ad aereo, si fermavano a ronzare intorno a questo o a quello come insetti impollinatori, li controllavano, ne rabboccavano i serbatoi, sostituivano pezzi, li esaminavano, diventavano tutt'uno con loro prima di prendere il volo. La melodia ciclica dei motori e delle eliche, che attraversavano le varie fasi del decollo, del volo e dell'atterraggio, risuonava da prima dell'alba al crepuscolo, il timbro di ciascuna macchina unico per i suoi addetti come il pianto di un bambino per la madre. Sotto le note tenorili dei motori vibrava il rombo da basso delle gallerie aerodinamiche del laboratorio, intente a scatenare sugli aerei (parti di aereo, aeromodelli, aerei veri e propri) i loro uragani su richiesta.

    Appena due anni prima, con l'addensarsi delle nubi temporalesche, il presidente Roosevelt aveva sfidato la nazione a incrementare la produzione di aeroplani fino a cinquantamila all'anno⁶, compito apparentemente impossibile per un settore che ancora nel 1938 forniva all'esercito solo novanta macchine volanti al mese⁷. E invece ora l'industria aeronautica americana era un miracolo di produttività, che superava comodamente della metà l'obiettivo fissato da Roosevelt. Era diventata la più grande fabbrica al mondo⁸, la più prolifica, la più sofisticata, che sopravanzava di tre volte la produzione tedesca e di quasi cinque quella giapponese. La situazione era chiara come il sole per tutti i Paesi coinvolti nel conflitto: la vittoria finale sarebbe arrivata dal cielo.

    Per i piloti dei corpi aeronautici, i velivoli erano congegni utili a trasportare truppe e approvvigionamenti alle zone di combattimento, stormi armati per dare la caccia ai nemici, rampe di lancio ad altezza cielo per sganciare bombe in grado di affondare navi. Prima del decollo, gli aerei venivano esaminati e riesaminati in controlli minuziosi ed esaustivi; i meccanici si rimboccavano le maniche e aguzzavano la vista. Un pistone rotto, un'imbracatura che non chiudeva bene, una spia del serbatoio difettosa: erano tutte imperfezioni che potevano costare delle vite. Ma ancor prima di rispondere alla carezza sapiente del pilota, il velivolo – la sua natura, il suo stesso DNA, dalla forma delle ali alla gondola del motore – era stato manipolato, affinato, maneggiato, smontato e ricombinato dagli ingegneri e dai tecnici della porta accanto.

    Molto prima di mettere in produzione una macchina volante di nuova concezione, i fabbricanti mandavano al laboratorio un prototipo funzionante, così che il progetto venisse testato e perfezionato. Quasi ogni modello di aereo ad alto rendimento prodotto dagli Stati Uniti passava dal laboratorio per un'analisi minuziosa della resistenza aerodinamica: gli ingegneri parcheggiavano gli aerei nelle gallerie del vento e si segnalavano superfici che disturbavano l'aria, fusoliere sovradimensionate, assetti alari irregolari. Prudenti e scrupolosi come vecchi medici di famiglia, esaminavano ogni aspetto dell'aria che fluiva sul mezzo, prendendo nota di ciascun segno vitale. I piloti collaudatori della NACA, talvolta affiancati da un ingegnere, facevano fare un volo di prova al veicolo. Rollava in modo inatteso? Andava in stallo? Era difficile da manovrare e opponeva resistenza al pilota come un carrello della spesa con una ruota malfunzionante? Gli ingegneri sottoponevano gli aerei a diversi test, acquisendo e analizzando i numeri, suggerendo migliorie, alcune piccole, altre significative. Ciascun passo avanti nella velocità e nell'efficienza, anche minuscolo, moltiplicato per le miglia e le ore di volo dei piloti ammontava a una differenza che a lungo termine avrebbe potuto far pendere la bilancia della guerra a favore degli Alleati.

    «Vittoria dalla potenza aerea!» tuonava Henry Reid, capoingegnere del laboratorio del Langley, rammentando a tutti l'importanza degli aeromobili per l'esito della guerra. «Vittoria dalla potenza aerea!» si ripetevano l'un l'altro gli ingegneri e i matemateci della NACA, prestando attenzione a ogni decimale, logorandosi gli occhi su equazioni differenziali e diagrammi di distribuzione della pressione. Nella battaglia della ricerca, la vittoria sarebbe stata loro.

    Sempre che, ovviamente, Melvin Butler fosse riuscito ad alimentare i tre turni giornalieri per sei giorni a settimana con menti fresche. D'accordo gli ingegneri, ma ciascuno di loro aveva bisogno dell'aiuto di molti altri: operai specializzati per costruire i modelli da testare nelle gallerie aerodinamiche, meccanici per la manutenzione delle suddette gallerie, e persone infallibili con i calcoli per elaborare la caterva di numeri che scaturiva dalla ricerca. Portanza e resistenza, attrito e flusso. Cos'era un aereo se non un risultato della fisica? E fisica, ovviamente, significava matematica, e matematica significava matematici. E fin dalla metà del decennio precedente, matematici aveva significato donne. Il primo gruppo di calcolatrici del Langley, entrato in carica nel 1935⁹, aveva scatenato un putiferio tra gli uomini del laboratorio. Figurarsi se una mente femminile poteva elaborare qualcosa di tanto rigoroso e preciso come numeri ed equazioni! Solo l'idea di investire cinquecento dollari¹⁰ in una macchina calcolatrice per poi farla usare a una ragazza... ma per piacere! E invece le ragazze si erano dimostrate molto, molto brave con i numeri. Più brave, di fatto, di molti ingegneri, come dovettero ammettere gli stessi uomini, pur se a denti stretti¹¹. Con appena una manciata di donne in grado di fregiarsi del titolo di matematica (titolo che le metteva sullo stesso piano dei dipendenti maschi al primo livello di carriera), il fatto che la maggior parte delle calcolatrici fosse etichettata come paraprofessionista avente diritto a una paga inferiore diede una forte spinta agli utili del laboratorio¹².

    Nel 1943, però, le ragazze erano più difficili da trovare. Virginia Tucker, la responsabile delle calcolatrici del Langley, macinò chilometri su chilometri di costa orientale in cerca di studentesse di college dotate anche solo di un briciolo di capacità analitiche o meccaniche, nella speranza di arruolarle per le centinaia di posizioni vacanti come calcolatrici, assistenti tecniche, modelliste, assistenti di laboratorio, e sì, perfino matematiche. Precettò quelle che sembravano intere annate di diplomate in matematica alla sua università, il Greensboro College for Women del North Carolina, e setacciò college della Virginia quali lo Sweetbriar, a Lynchburg, e lo State Teachers College, a Farmville.

    Melvin Butler esercitò tutta la pressione possibile sulla US Civil Service Commission e la War Manpower Commission (agenzie federali preposte alle nomine dei dipendenti civili nel pubblico impiego) affinché il laboratorio avesse la precedenza assoluta sull'esiguo gruppetto di candidati qualificati. Stilò annunci per il giornale locale, il Daily Press.

    Basta faccende domestiche! Le donne che non hanno paura di rimboccarsi le maniche e fare lavori fin qui riservati agli uomini sono pregate di mettersi in contatto con il Langley Memorial Aeronautical Laboratory¹³.

    Ardenti appelli dell'ufficio del personale vennero pubblicati sulla newsletter aziendale, Air Scoop.

    Ci sono membri della vostra famiglia o altri vostri conoscenti cui piacerebbe prendere parte al perseguimento della supremazia aerea? Avete amici o amiche cui piacerebbe svolgere un lavoro importante che mira alla vittoria e ad anticipare la fine del conflitto?¹⁴

    Con gli uomini impegnati nel servizio militare, con le donne già richieste da principali scalpitanti, il mercato del lavoro era esaurito quanto i lavoratori stessi.

    Finché, nell'estate del 1941, A. Philip Randolph, il capo del maggiore sindacato nero del Paese, chiese che Roosevelt aprisse posizioni equamente retribuite nei cosiddetti lavori di guerra agli aspiranti di colore, minacciando di far marciare sulla capitale centomila neri in segno di protesta se il presidente avesse respinto la richiesta. «E chi diavolo sarebbe questo Randolph?¹⁵ » latrò rabbioso Joseph Rauh, l'assistente del presidente, ma Roosevelt fu costretto ad assecondarlo.

    Un negro alto ed elegante con una dizione shakespeariana e la vista di un'aquila¹⁶, Asa Philip Randolph, amico stretto di Eleanor Roosevelt, era a capo della Brotherhood of Sleeping Car Porters (il sindacato afroamericano degli inservienti sui treni Pullman), un'organizzazione forte di trentacinquemila membri. Gli inservienti erano al servizio dei passeggeri sui treni nazionali, che applicavano la segregazione razziale, il che significava sopportare ogni giorno pregiudizi e umiliazioni da parte dei bianchi. Ciononostante si trattava di un lavoro ambito nella comunità nera, poiché garantiva una discreta stabilità finanziaria e un apprezzabile status sociale. Convinto che i diritti civili fossero inestricabilmente legati a quelli economici, Randolph si sarebbe battuto senza tregua perché gli afroamericani ottenessero il diritto di compartecipare in modo equo alla ricchezza del Paese che avevano aiutato a costruire. Vent'anni più tardi arringherà la folla nel corso di un'altra marcia su Washington, appena prima di cedere il podio a un giovane, carismatico pastore di Atlanta: Martin Luther King Jr.

    Le generazioni successive assoceranno il movimento per i diritti civili degli afroamericani al nome di King, ma nel 1941, mentre gli Stati Uniti indirizzavano ogni aspetto della società verso la guerra per la seconda volta in meno di trent'anni, furono la lungimiranza di Randolph e lo spettro di una marcia che non ebbe mai luogo a forzare una porta che era rimasta sigillata come quella del caveau di una banca sin dalla fine della Ricostruzione. Con due tratti di penna – Ordine Esecutivo 8802, che ordinava la desegregazione dell'industria della Difesa, e Ordine Esecutivo 9346, con cui nasceva la Commissione per le pari opportunità lavorative incaricata di sorvegliare l'applicazione del progetto nazionale di inclusione economica – Roosevelt favorì l'ingresso di una nuova forza lavoro nel chiuso processo produttivo.

    Quasi due anni dopo la prova di forza di Randolph del 1941, mentre il laboratorio chiedeva a gran voce nuovo personale, le candidature di donne di colore qualificate cominciarono ad arrivare alla spicciolata sulle scrivanie dell'ufficio del personale del Langley, reclamando attenzione. Nessuna fotografia lasciava intuire il colore delle aspiranti: l'obbligo di allegarla, istituito sotto l'amministrazione di Woodrow Wilson, era stato messo al bando dall'amministrazione Roosevelt nel tentativo di smantellare la discriminazione nelle pratiche di assunzione. Bastava però l'università delle candidate a scoprire le carte: West Virginia State University, Howard, Arkansas Agricultural, Mechanical & Normal, Hampton Institute lì in città... erano tutte scuole per neri. Sulle domande, nulla faceva pensare che le candidate non fossero all'altezza, anzi, semmai avevano più esperienza delle concorrenti bianche, dal momento che oltre ai diplomi universitari di primo livello in matematica o scienze spesso avevano alle spalle parecchi anni di insegnamento.

    Avrebbero avuto bisogno di uno spazio separato, Melvin Butler ne era consapevole. E poi serviva qualcuno da mettere a capo del nuovo gruppo, una ragazza esperta – bianca, ovviamente – qualcuno con un'indole adatta alla delicatezza dell'incarico. Il Warehouse Building, un edificio nuovo di zecca nella zona ovest del Langley, una parte del campus che ancora ricordava più una landa selvaggia che non un posto di lavoro, poteva essere la giusta soluzione. Il gruppo di suo fratello Sherwood vi si era già trasferito¹⁷, così come parte dell'ufficio del personale. Con la pressione incessante a testare gli aeroplani in coda nell'hangar, gli ingegneri avrebbero gradito l'aiuto. Tanti di loro erano del Nord, più o meno agnostici riguardo alle questioni razziali ma devotissimi se si trattava di talento matematico.

    Melvin Butler veniva da Portsmouth¹⁸, dall'altra parte della baia rispetto a Hampton. Non gli servivano voli pindarici per immaginare cosa avrebbero pensato alcuni dei suoi colleghi della Virginia dell'idea di integrare donne di colore nei loro uffici, accidenti ai nuovi arrivati (o venuti qui, come i virginiani chiamavano chi si trasferiva

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1