In fuga dallo sceicco: Harmony Collezione
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Kavian ha conosciuto la dolcezza del suo corpo e da quel momento ha deciso che lei potrà essere soltanto sua. Per di più, lo sceicco ha bisogno di una regina che sia in grado di sopportare il peso del suo passato, ed è certo che Amaya sia la donna giusta per quel difficile compito. Ritrovarla non sarà un problema, dopodiché si preoccuperà di riportarla a più miti consigli.
Miniserie "Una moglie per lo sceicco" - Vol.2/2
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In fuga dallo sceicco - Caitlin Crews
successivo.
1
Non aveva avuto alcun preavviso.
Non c'erano state spie dagli occhi cupi e osservatori che la scrutavano nell'ombra. Nessuna strana conversazione quando entrava nel piccolo caffè di un minuscolo villaggio lacustre nella Columbia Britannica. Niente telefonate mute o chiamate perse sul suo ultimo cellulare usa e getta a segnalare che il cappio si stava stringendo.
In mano stringeva una grande tazza di caffè caldo e forte per tenere lontano il gelo del tardo autunno del nord, là dove la neve era di casa sulle Montagne Rocciose Canadesi e le nuvole dense incombevano basse. Il dolce che scelse era quasi stucchevole, ma lei lo mangiò comunque. Controllò la sua mail: c'era un nuovo messaggio vocale dal fratello maggiore, Rihad, che lei ignorò. Lo avrebbe chiamato più tardi, quando fosse stata meno vulnerabile. Quando fosse stata certa che gli uomini di Rihad non potevano rintracciarla.
E poi sollevò lo sguardo, e nel momento in cui lui occupò la sedia davanti a lei al tavolino del caffè, sentì la pelle tendersi.
«Ciao, Amaya» la salutò lui con una sorta di calma e decisa soddisfazione, mentre tutto in lei voleva solo urlare. «Trovarti è stato più difficile del previsto.»
Come se fosse stato un incontro del tutto casuale, lì in quel tranquillo caffè in un villaggio isolato del Canada in cui era sicura di non poter essere rintracciata. Come se per lei non fosse l'uomo più pericoloso al mondo, l'uomo che teneva la sua vita tra quelle mani ora rilassate e pigre sul tavolo, nonostante l'ira cupa che si agitava in quegli occhi troppo grigi.
Come se lei non lo avesse lasciato, Sua Altezza Reale, Kavian ibn Zayed al Talaas, sceicco regnante della roccaforte del deserto Daar Talaas, sei mesi prima, praticamente sull'altare.
Da allora Amaya era in fuga. Era sopravvissuta con il denaro che aveva in tasca e la sua abilità nel non lasciare tracce, grazie a una rete globale di amici e conoscenze che si era creata in una giovinezza errante al fianco della madre affranta. Era crollata sul pavimento di perfetti sconosciuti, aveva alloggiato in stanze dimenticate di amici di amici e camminato per miglia in piena oscurità per uscire da città e stati in cui avrebbe potuto rintracciarla. Ora non voleva altro che saltare in piedi e fuggire, lungo le strade del villaggio quasi deserto di Kaslo, e buttarsi nelle acque gelide del Lago Kootenay se necessario, ma non aveva il minimo dubbio che, se ci avesse provato di nuovo, Kavian l'avrebbe catturata.
E questa volta a mani nude.
Un brivido la percorse a quel pensiero. Controllati, si disse.
Ma Kavian sembrò leggerle nella mente.
«Sembri sorpresa di vedermi.»
«Certo che sono sorpresa.» Amaya non riusciva a distogliere lo sguardo, proprio come l'ultima volta in cui l'aveva incontrato, al palazzo di suo fratello, in occasione del suo fidanzamento combinato con quell'uomo. «Credevo che gli ultimi sei mesi avessero chiarito che non volevo più rivederti.»
«Tu appartieni a me» le rispose lui, con la stessa certezza che l'aveva raggelata al palazzo reale di Bakri sei mesi prima. «Ne dubitavi? Ti avrei sicuramente trovata. L'unica incognita era quando.»
La voce era calma, ma il suo aspetto lo distingueva dagli uomini del posto che erano entrati e usciti dal caffè per tutta la mattina, avvolti in una barba fluente e giacche pesanti per affrontare il freddo del nord.
Kavian era completamente vestito di nero, attenuato solo da quegli occhi grigi che non la lasciavano per un secondo. Pantaloni scuri sulle gambe forti, stivali neri ai piedi, una maglietta pure scura sotto la giacca nera. I folti capelli neri erano più corti di quanto lei si ricordasse, e il taglio accentuava i tratti del volto, dalla mascella da guerriero con un'ombra di barba scura, come se non si sbarbasse da giorni, al naso affilato e agli zigomi pronunciati su un volto squadrato.
Sembrava un assassino, non un re. O forse un incubo. Il suo incubo. Comunque fosse, sembrava incredibilmente fuori posto lì, così lontano dal Daar Talaas, dove la sua autorità si imponeva naturale come il deserto e le montagne che dominavano quel paese isolato.
Amaya odiava il deserto. E certo non amava di più Kavian.
«Sei piuttosto intraprendente. Due mesi fa a Praga ti avevamo quasi presa.»
«Difficile, non sono mai stata a Praga.»
La curva delle labbra di Kavian le tolse il respiro: sapeva che lei stava mentendo.
«Sei orgogliosa di te stessa?» le chiese. Amaya si rese conto che, da quando si era seduto, lui non si era mosso. Era rimasto immobile, attento. Come una sentinella. O un cecchino. «Hai causato danni enormi con questa tua assurda bravata. Il solo scandalo poteva distruggere due regni e tu stai qui seduta a mentirmi, sorseggiando un cappuccino nelle regioni selvagge del Canada, come se le tue responsabilità non ti riguardassero.»
Amaya non avrebbe dovuto sentirsi in difetto.
Era la sorellastra dell'attuale re del Bakri, era vero, ma non era cresciuta a palazzo né nel paese, come una classica principessa reale fornita di tiara e aspettative. Sua madre l'aveva presa con sé quando se n'era andata divorziando dal re precedente, il padre di Amaya, e lei era cresciuta nel doloroso turbinio della madre. Una stagione qui, una stagione là. Yacht nel sud della Francia o a Miami, comunità artistiche a Taos o sulle spiagge di Bali. Città luccicanti popolate da gente ricca e famosa con attici e suite d'albergo, ranch isolati circondati da grasso bestiame e trasudanti una ricchezza più rustica. Dovunque il vento avesse spinto Elizaveta al Bakri, dovunque c'erano persone disposte a adorarla e a pagare per il privilegio, l'importante era non tornare a Bakri, la scena del crimine secondo Elizaveta.
Il fatto che Amaya fosse tornata nel paese di origine, quando Rihad alla morte del padre aveva preso il comando e l'aveva stordita con i suoi discorsi sui suoi diritti di nascita, aveva provocato una spaccatura tra Amaya e sua madre. Elizaveta era gelida con sua figlia soprattutto dal funerale del vecchio re, a cui Amaya aveva partecipato e che per Elizaveta era stato un profondo tradimento.
Amaya lo capiva: Elizaveta amava ancora il suo re, solo che quell'amore finito male era cresciuto rodendola negli anni, mescolato all'odio.
Ma non c'era motivo di pensare al suo rapporto complicato con la madre, ancor meno al rapporto complicato di sua madre con le emozioni. Non risolveva niente, soprattutto non l'attuale situazione difficile di Amaya. O ciò che Kavian definiva le sue responsabilità.
«Stai parlando delle responsabilità di mio fratello» tenne a precisare ora Amaya, sostenendo lo sguardo del guerriero. «Non delle mie.»
«Sei mesi fa ero disposto a essere paziente con te. Sapevo com'eri stata cresciuta, all'oscuro della storia e delle antiche usanze, sempre in viaggio. Sapevo che questa unione sarebbe stata una sfida per te. Sei mesi fa intendevo venirti incontro.»
«Davvero premuroso da parte tua. Peccato che tu non vi abbia minimamente accennato: eri troppo impegnato a metterti in mostra con mio fratello, a recitare per la stampa. Io non ero che un accessorio alla mia festa di fidanzamento.»
«Sei vanitosa come lo era tua madre?» La voce era dura e la colpì nell'intimo, anche se non si era mosso. «Un vero peccato. Il deserto non è gentile con la vanità, lo vedrai. Ti prosciugherà e lascerà solo ciò che sei veramente, che tu sia pronta ad affrontare la dura verità o meno.»
Qualcosa brillò in quello sguardo fiero, anche se non voleva sapere cosa fosse, cosa significasse. Non voleva immaginare chi lui fosse davvero.
«Che immagine gradevole» ribatté lei. Non capiva perché fosse ancora seduta lì a parlare con lui. Parlare. Perché si sentiva paralizzata quando lui era vicino? Era successa la stessa cosa anche l'ultima volta, sei mesi prima. E anche di più, ma non voleva pensarci ora. Non lì. «Chi non vorrebbe recarsi subito nel deserto per un così piacevole viaggio alla scoperta di sé?»
In quel momento Kavian si mosse: si alzò in piedi, facendole pulsare le tempie e seccare la gola, poi le prese la mano e la fece alzare a sua volta.
E la follia fu che lei obbedì.
Non si oppose. Non indietreggiò. Non ci provò neanche.
La mano di lui era callosa e ruvida, calda e forte, e lo stomaco le sussultò, per poi crollare. Si alzò troppo in fretta e si ritrovò pericolosamente vicina a quell'uomo.
«Lasciami andare...» sussurrò.
«Altrimenti cosa farai?»
La sua voce era ancora calma, ma lei era più vicina ora. Era più alto di lei, la testa di Amaya gli arrivava alla spalla, e il fatto che avesse passato la vita a esercitarsi nell'arte della guerra era una fiamma viva tra loro: lo vedeva nella linea bianca di una vecchia cicatrice sulla gola, e si rifiutò di pensare a come se la fosse procurata.
Quell'uomo era una macchina da guerra. Kavian è della vecchia scuola sotto ogni punto di vista, le aveva detto suo fratello. Lo aveva sempre saputo. Non poteva fingere il contrario.
Ma non si era resa conto di quanto l'avrebbe influenzata. Era come stare troppo vicino a un insidioso falò, senza avere idea di quando il vento sarebbe cambiato, rischiando di bruciarle il volto.
Kavian la attirò a sé, poi si piegò per parlarle all'orecchio.
«Griderai?» le chiese lui. «Invocherai aiuto da questi sconosciuti? Cosa pensi succederà se lo farai? Non sono un uomo civile, Amaya. Non vivo secondo le tue regole. Non mi importa di chi mi intralcia la strada.»
«Ti credo» sibilò lei. «Ma dubito che tu voglia finire in televisione, civilizzato o meno. Sarebbe uno scandalo eccessivo, sarai d'accordo con me.»
«È una teoria che vuoi veramente sperimentare?»
Si tirò indietro, e lui la lasciò andare. Amaya si guardò intorno e si rese conto in ritardo che il caffè era stranamente vuoto