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Solo il tempo lo dirà
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Solo il tempo lo dirà

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About this ebook

Un segreto del passato
Un destino da scoprire
Una battaglia per la verità

L'epica storia della vita di Harry Clifton inizia nel 1920, con le parole "Mi è stato detto che mio padre è stato ucciso durante la guerra".
Harry non ha mai conosciuto suo padre Arthur, scaricatore del porto di Bristol, se non attraverso le parole dello zio Stan, che si aspetta che il ragazzo si unisca a lui nel cantiere navale dei Barrington, una volta finita la scuola. Ma grazie a un dono inaspettato Harry vince una borsa di studio in un prestigioso collegio, e la sua vita cambia per sempre.
Diventato adulto, continua ad interrogarsi su suo padre, la cui morte non smette di tormentarlo e lo spinge a scavare senza sosta per scoprire una verità che appare sempre più sfuggente. È davvero figlio di Arthur Clifton? Perché sua madre gli ha mentito? E per quale motivo tutti si rifiutano di dirgli cos'è successo veramente?

Ambientato tra il 1920 e il 1940, Solo il tempo lo dirà, romanzo introduttivo dell'indimenticabile saga dei Clifton, conduce il lettore dalle banchine della classe operaia alle trafficate strade di New York City, dalle devastazioni della Grande Guerra allo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale, in un viaggio memorabile al termine del quale il protagonista si troverà di fronte a un dilemma che non avrebbe mai immaginato di dover affrontare.

Con La saga dei Clifton, grandiosa saga in sette volumi con un cast di personaggi indimenticabili, Jeffrey Archer, autore bestseller in tutto il mondo, racconta l'epopea di una famiglia attraverso le generazioni, attraverso gli oceani, attraverso dolori e trionfi. E conduce il lettore a ripercorrere cent'anni di storia recente.
Solo il tempo lo dirà è il primo romanzo della serie.

LanguageItaliano
Release dateJun 1, 2018
ISBN9788858991114
Solo il tempo lo dirà
Author

Jeffrey Archer

Barone Archer di Weston-super-Mare, è nato in Inghilterra nel 1940 e si è laureato a Oxford. È stato candidato sindaco di Londra, membro del Parlamento europeo, e deputato alla Camera dei Lord per venticinque anni. Scrittore e drammaturgo, autore di romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali e saggi, con i suoi libri è regolarmente ai vertici delle classifiche in tutto il mondo. È sposato da oltre cinquant’anni con una compagna di università, ha due figli e vive tra Londra, Cambridge e Maiorca. Con HarperCollins ha pubblicato i sette volumi della Saga dei Clifton, Chi nulla rischia e Nascosto in bella vista della nuova serie Le indagini di William Warwick, e la trilogia  dedicata alle famiglie Kane e Rosnovsky, di cui Non fu mai gloria è il volume conclusivo.

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    Solo il tempo lo dirà - Jeffrey Archer

    HARRY CLIFTON

    1920-1933

    1

    Mi fu detto che mio padre era rimasto ucciso in guerra.

    Ogni volta che chiedevo spiegazioni sulla sua morte a mia madre, lei si limitava a dire che aveva servito nel Royal Gloucestershire Regiment e che era morto combattendo sul fronte occidentale pochi giorni prima della firma dell’Armistizio. La nonna diceva che mio papà era stato un uomo valoroso e, quando eravamo soli in casa, mi mostrava le sue medaglie. Il nonno raramente offriva la sua opinione su qualcosa ma, se per quello, era sordo come una campana e, dunque, forse non sentiva nemmeno le domande.

    L’unico altro uomo di cui abbia dei ricordi era lo zio Stan, che sedeva a capotavola a colazione. Quando usciva di casa al mattino, spesso lo seguivo fino alla zona portuale, dove lavorava. Ogni giorno trascorso nei cantieri navali era un’avventura. Navi da carico provenienti da terre lontane e impegnate a scaricare le proprie mercanzie: riso, zucchero, banane, iuta e molte altre cose di cui non avevo mai sentito parlare. Una volta svuotate le stive, i portuali le riempivano di sale, mele, stagno, persino carbone (la merce che mi piaceva meno, perché era un indizio palese di ciò che avevo fatto per tutto il giorno, cosa che irritava mia madre), prima che le navi ripartissero per chissà dove. Volevo sempre aiutare lo zio Stan a scaricare le navi che avevano appena attraccato, ma lui si limitava a ridere, dicendo: «Ogni cosa a suo tempo, ragazzino». Avrei voluto che quel momento fosse ben più vicino ma, senza preavviso, la scuola si mise di traverso.

    A sei anni, venni mandato alla Merrywood Elementary e pensai che fosse una totale perdita di tempo. Che senso aveva andare a scuola quando avrei potuto imparare nella zona portuale tutto ciò che mi serviva? Non mi sarei minimamente preso la briga di tornarci l’indomani se mia madre non mi avesse trascinato fino al cancello di ingresso, non mi avesse depositato lì e non fosse ritornata alle quattro del pomeriggio per riportarmi a casa.

    Non mi rendevo conto che la mamma aveva altri progetti per il mio futuro, progetti che non prevedevano l’ipotesi di lavorare come zio Stan ai cantieri navali.

    Ogni mattina, dopo che lei mi aveva scaricato a scuola, bighellonavo nel cortile finché non era più in vista e, a quel punto, me la svignavo al porto. Facevo in modo di essere nuovamente davanti al cancello della scuola quando lei tornava a prendermi, nel pomeriggio. Nel tragitto verso casa, le raccontavo tutto quello che avevo fatto a scuola quel giorno. Ero bravo a inventarmi storie, ma non passò molto tempo prima che scoprisse che per l’appunto erano solo storie.

    Anche un altro paio di ragazzi della mia scuola bighellonavano nella zona portuale, però io mi tenevo a distanza. Erano più vecchi e più grossi e mi menavano non appena ne avevano l’occasione. Inoltre dovevo fare attenzione al signor Haskins, il primo caposquadra, perché, se mi beccava a ciondolare in giro, per usare la sua espressione preferita, mi cacciava via con un calcio nel sedere e con la minaccia: «Se ti rivedo ciondolare in giro da queste parti, lo dico al preside».

    Di quando in quando, Haskins stabiliva di avermi visto una volta di troppo e io finivo davanti al preside, che mi prendeva a cinghiate prima di rispedirmi in aula. Il mio insegnante, il signor Holcombe, non spiattellava mai il fatto che non mi presentassi a lezione, ma d’altronde era un tipo alquanto indulgente. Ogni volta che la mamma scopriva che avevo marinato la scuola non nascondeva la sua rabbia e interrompeva l’erogazione della mia paghetta di mezzo penny alla settimana. Però, a dispetto dei cazzotti che ogni tanto mi beccavo da qualche ragazzo più grande, delle cinghiate regolari del preside e della perdita della paghetta, il richiamo del porto continuava a essere irresistibile.

    Mi feci un solo vero amico mentre ciondolavo in giro per la darsena. Il suo nome era Vecchio Jack Tar. Il signor Tar viveva in una carrozza ferroviaria dismessa, in fondo alle rimesse. Zio Stan mi disse di stare alla larga dal Vecchio Jack perché era un vecchio vagabondo, stupido e sporco. A me non sembrava sporco, di certo non sporco quanto lo era Stan, e non impiegai tanto a scoprire che non era nemmeno stupido.

    Dopo aver pranzato con lo zio Stan – un boccone del suo sandwich alla crema Marmite, il torsolo di mela che aveva scartato e un sorso di birra – tornavo a scuola in tempo per la partita di calcio, l’unica attività per la quale, a mio modo di vedere, valesse la pena presentarsi. Dopo tutto, una volta abbandonata la scuola, sarei diventato il capitano del Bristol City oppure avrei costruito una nave in grado di fare il giro del mondo. Se il signor Holcombe teneva la bocca chiusa e il caposquadra non mi faceva finire dal preside, potevano passare giorni prima che venissi scoperto e così, a patto che evitassi le chiatte per il trasporto del carbone e mi facessi trovare davanti al cancello della scuola alle quattro di ogni pomeriggio, mia madre sarebbe rimasta all’oscuro di tutto.

    Un sabato sì e uno no, zio Stan mi portava a vedere il Bristol City all’Ashton Gate. La domenica mattina, la mamma mi trascinava di peso alla chiesa della Sacra Natività, una cosa a cui non avevo modo di sottrarmi. Una volta che il reverendo Watts aveva impartito la benedizione finale, correvo al parco giochi e mi univo ai miei compagni per una partita di calcio, prima di tornare a casa per mangiare.

    Raggiunta l’età di sette anni, apparve chiaro a chiunque si intendesse un minimo di calcio che non sarei mai riuscito a entrare a far parte della squadra della scuola, né tantomeno a diventare il capitano del Bristol City. Ma quello fu il momento in cui scoprii che Dio mi aveva fatto un piccolo dono e che quel dono non era nei miei piedi.

    Tanto per cominciare, non mi rendevo conto che chi si sedeva accanto a me la domenica mattina in chiesa smetteva di cantare ogni volta che aprivo la bocca. Non ci avrei badato minimamente se la mamma non mi avesse proposto di entrare a far parte del coro. Risi sdegnosamente; lo sapevano tutti che il coro era una cosa da bambine e donnicciole. Avrei liquidato l’idea senza pensarci due volte se il reverendo Watts non mi avesse detto che i coristi venivano pagati un penny a funerale e due penny a matrimonio, la prima bustarella della mia vita. Ma, anche dopo che ebbi accettato, con una certa riluttanza, di sottopormi a un provino vocale, il diavolo decise di piazzare un ostacolo sul mio cammino, e quell’ostacolo aveva le sembianze della signorina Eleanor E. Monday.

    Non mi sarei mai imbattuto nella signorina Monday se non fosse stata la direttrice del coro alla Sacra Natività. Sebbene fosse alta solo un metro e sessanta e desse la sensazione che una folata di vento avrebbe potuto portarla via, nessuno cercava di prendersi gioco di lei. Ho la sensazione che persino il diavolo avrebbe avuto paura della signorina Monday, perché il reverendo Watts di certo l’aveva.

    Accettai dunque di sottopormi al provino vocale, ma non prima che la mamma mi avesse anticipato la paghetta di un mese. La domenica seguente, mi ritrovai in coda insieme ad altri ragazzini, in attesa di essere chiamato.

    «Ti presenterai sempre in orario alle prove del coro» annunciò la signorina Monday con uno sguardo penetrante. Lo ricambiai con aria di sfida. «Non parlerai a meno che qualcuno non ti abbia parlato.» In qualche modo, riuscii a restare zitto. «E, nel corso del servizio, resterai sempre concentrato.» Annuii a malincuore. E poi, Dio la benedica, mi offrì una via di fuga. «Ma, e questa è la cosa più importante» dichiarò, piazzandosi le mani sui fianchi, «nel giro di dodici settimane ti sarà richiesto il superamento di un esame di lettura e scrittura, perché io sia certa che tu possa affrontare un inno nuovo o un salmo che non conosci.»

    Ero felice di essere caduto al primo ostacolo. Tuttavia, come avrei scoperto, la signorina Eleanor E. Monday non si dava facilmente per vinta.

    «Quale brano hai scelto di cantare, figliolo?» mi chiese quando giunsi all’inizio della fila.

    «Non ho scelto nulla» le dissi.

    Lei aprì il libro dei canti, me lo diede e si accomodò al piano. Sorrisi all’idea che sarei riuscito a giocare il secondo tempo della partita di calcio della domenica mattina. Lei iniziò a suonare un brano che conoscevo e, quando vidi mia madre lanciarmi delle occhiatacce dalla prima fila di banchi, decisi che sarebbe stato meglio fare ciò che mi veniva chiesto, tanto per tenerla buona.

    «All things bright and beautiful, all creatures great and small. All things wise and wonderful…» Un sorriso era apparso sulla faccia della signorina Monday ben prima che io giungessi a «the Lord God made them all».

    «Come ti chiami, figliolo?» chiese.

    «Harry Clifton, signorina.»

    «Harry Clifton, ti presenterai alle prove del coro tutti i lunedì, mercoledì e venerdì, alle sei in punto.» Rivolgendosi al ragazzo dietro di me, disse: «Il prossimo!».

    Promisi alla mamma che mi sarei presentato in orario alle prime prove del coro, per quanto sapessi che sarebbero state le ultime, dato che di lì a poco la signorina Monday si sarebbe resa conto che non sapevo né leggere né scrivere. E sarebbero effettivamente state le mie ultime prove, se non fosse stato evidente a chiunque mi ascoltasse che la mia voce era di una categoria diversa da quella di qualsiasi altro ragazzino del coro. Anzi, nel momento stesso in cui aprii la bocca, tutti si zittirono e le espressioni di ammirazione e, addirittura, di soggezione che avevo cercato disperatamente di ottenere sul campo da calcio si palesarono in chiesa. La signorina Monday finse di non accorgersene.

    Dopo che lei ci ebbe congedati non andai a casa, ma corsi alla zona portuale per chiedere al signor Tar cosa fare riguardo al non saper né leggere né scrivere. Ascoltai attentamente i consigli del vecchio e, l’indomani, tornai a scuola e partecipai alla lezione del signor Holcombe.

    L’insegnante non poté nascondere la sorpresa quando mi vide seduto in prima fila e fu ancor più sorpreso perché, per la prima volta, prestai grande attenzione alla lezione del mattino.

    Il signor Holcombe iniziò a insegnarmi l’alfabeto e, in pochi giorni, sapevo già scrivere tutte le lettere, per quanto non sempre nell’ordine giusto. La mamma mi avrebbe aiutato a casa nel pomeriggio, ma, come il resto della famiglia, nemmeno lei sapeva leggere e scrivere.

    Zio Stan era a malapena in grado di abbozzare la sua firma e, per quanto cogliesse la differenza tra un pacchetto di Will’s Star e uno di Wild Woodbines, ero quasi certo che in realtà non riuscisse a leggere le etichette. Malgrado i suoi inutili brontolii, cominciai a scrivere l’alfabeto su qualsiasi foglietto trovassi. Sembrava che zio Stan non notasse che i pezzetti di giornale nel cesso erano sempre coperti di lettere.

    Una volta che ebbi padroneggiato l’alfabeto, il signor Holcombe mi fece conoscere qualche parola semplice: uva, ago, zia e bus. Fu allora che gli chiesi per la prima volta di mio papà, nella speranza che fosse in grado di dirmi qualcosa sul suo conto. In fondo, sembrava sapere tutto. Eppure mi parve sconcertato dal fatto che io sapessi così poco sul conto di mio papà. Una settimana dopo, scrisse la mia prima parola di quattro lettere sulla lavagna, casa, poi la prima di cinque, libro, e sei, scuola. Alla fine della settimana riuscii a scrivere la mia prima frase: Pranzo d’acqua fa volti sghembi che, come sottolineò il signor Holcombe, conteneva tutte le lettere dell’alfabeto. Controllai e saltò fuori che aveva ragione.

    Alla fine dell’anno scolastico, sapevo scrivere correttamente le parole canto, salmo e inno, malgrado il signor Holcombe seguitasse a ricordarmi che continuavo ad aprire le e chiuse ogni volta che parlavo. Ma poi giunse la pausa per le vacanze e io iniziai a temere di non riuscire a superare il difficile test della signorina Monday senza l’aiuto del signor Holcombe. E forse sarebbe andata così, se il Vecchio Jack non avesse preso il suo posto.

    Mi presentai con mezz’ora d’anticipo alle prove del coro il venerdì sera in cui sapevo di dover superare il mio secondo test, se volevo continuare a essere un membro del coro. Mi sedetti in silenzio ai banchi, sperando che la signorina Monday scegliesse qualcun altro prima di convocare il sottoscritto.

    Avevo già superato il primo test in bellezza, come aveva detto la signorina Monday. Ci era stato chiesto di recitare il Padre Nostro. Non era stato un problema per me, dato che la mamma, da che avevo memoria, tutte le sere si inginocchiava accanto al mio letto e ripeteva quelle parole familiari prima di rimboccarmi le coperte. Tuttavia, il test successivo della signorina Monday si sarebbe rivelato ben più impegnativo.

    Stavolta, alla fine del secondo mese, avremmo dovuto leggere un salmo ad alta voce davanti al resto del coro. Scelsi il Salmo 121 che, ancora una volta, conoscevo a memoria perché l’avevo cantato spesso in passato. Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Potevo solo sperare che l’aiuto mi venisse dal Signore. Benché fossi in grado di aprire il libro alla pagina giusta, visto che ora sapevo contare da uno a cento, temevo che la signorina Monday capisse che non ero capace di seguire ogni verso, riga dopo riga. Se lo capì non lo diede a vedere, perché rimasi nei banchi del coro per un altro mese, mentre altri due miscredenti – parola sua, di cui non conobbi il significato finché non lo chiesi al signor Holcombe il giorno dopo – furono rispediti in mezzo all’assemblea.

    Quando fu il momento di affrontare il terzo e ultimo test, ero pronto. La signorina Monday chiese a quelli di noi che erano rimasti di scrivere i Dieci Comandamenti nell’ordine corretto, senza consultare il Libro dell’Esodo.

    La direttrice del coro chiuse un occhio sul fatto che io avessi piazzato il furto prima dell’omicidio, che non fossi stato capace di scrivere correttamente la parola adulterio e che, di certo, non ne conoscessi il significato. Solo dopo che altri due miscredenti furono sommariamente congedati per colpe minori, mi resi conto di quanto dovesse essere eccezionale la mia voce.

    La prima domenica d’Avvento, la signorina Monday annunciò di aver selezionato tre nuove voci bianche – o angioletti, come il reverendo Watts era solito chiamarci – che si sarebbero unite al coro, mentre le restanti erano state bocciate per aver commesso peccati imperdonabili come aver chiacchierato durante il sermone, aver succhiato una caramella e, nel caso di due ragazzini, essere stati sorpresi a giocare con le castagne d’India nel corso del Nunc dimittis.

    La domenica seguente indossai una lunga tonaca azzurra dal collo increspato bianco. Solo a me fu consentito di sfoggiare un medaglione di bronzo della Vergine intorno al collo per mostrare che ero stato selezionato come voce bianca solista. Sarei stato fiero di indossarlo nel tragitto fino a casa, e persino fino a scuola l’indomani mattina, per pavoneggiarmi davanti agli altri ragazzi, ma purtroppo la signorina Monday se lo riprendeva alla fine di ogni funzione.

    La domenica venivo trasportato in un altro mondo, ma temevo che quello stato di euforia non sarebbe durato in eterno.

    2

    Al mattino, quando lo zio Stan si alzava, riusciva in qualche modo a svegliare l’intera casa. Nessuno si lamentava, dato che quello che portava a casa più soldi era lui e che, comunque, costava meno ed era più affidabile di una sveglia.

    Il primo rumore che Harry udiva era quello della porta della camera da letto che sbatteva. Seguivano i passi pesanti dello zio sul pianerottolo di legno scricchiolante, giù dalle scale e poi fuori di casa. A quel punto sbatteva un’altra porta mentre lui scompariva nella latrina. Se qualcuno era ancora assopito, lo scroscio dell’acqua nel momento in cui Stan tirava la catena, e subito dopo il rumore di altre due porte sbattute prima del suo ritorno in camera da letto, serviva a ricordare a tutti che Stan si aspettava che la colazione fosse pronta in tavola nell’istante in cui avesse messo piede in cucina. Si lavava e sbarbava solo il sabato sera, prima di uscire per andare al Palais o all’Odeon. Faceva il bagno quattro volte all’anno, alla fine di ogni trimestre. Nessuno avrebbe potuto accusare Stan di sprecare in sapone i soldi guadagnati con fatica.

    Maisie, la mamma di Harry, era la seconda ad alzarsi, saltando giù dal letto pochi istanti dopo che la prima porta aveva sbattuto. Quando Stan spuntava fuori dalla latrina, c’era una scodella di porridge sulla stufa. La nonna seguiva a breve distanza e raggiungeva la figlia in cucina prima che Stan avesse preso posto a capotavola. Harry doveva essere al piano di sotto entro cinque minuti dalla prima porta sbattuta, se voleva sperare di fare colazione. L’ultimo ad arrivare in cucina era il nonno, che era talmente sordo da riuscire spesso a dormire durante tutto il rito mattutino di Stan. La routine quotidiana in casa Clifton non cambiava mai. Quando disponi di una sola latrina esterna, di un lavandino e di una salvietta, l’ordine si fa necessità.

    Mentre Harry si schizzava un rivolo d’acqua fredda sul viso, la madre serviva la colazione in cucina: due fette di pane spesse e coperte di lardo per Stan e quattro fette sottili per il resto della famiglia, che lei tostava se restava un po’ di carbone nel sacco scaricato ogni lunedì davanti all’ingresso. Una volta che Stan aveva finito il suo porridge, Harry aveva il permesso di leccare la scodella.

    Sul focolare c’era sempre una grossa brocca marrone di tè in infusione, che la nonna versava in tazze tutte diverse tra loro, filtrandolo con un apposito colino vittoriano placcato d’argento, ereditato da sua madre. Mentre gli altri membri della famiglia si gustavano una tazza di tè non zuccherato – lo zucchero era solo per le grandi occasioni e le festività – Stan stappava la sua prima bottiglia di birra, che in genere trangugiava in un sol sorso. A quel punto, si alzava da tavola e ruttava sonoramente prima di raccogliere il suo portavivande, che la nonna gli aveva preparato mentre lui faceva colazione: due sandwich alla crema Marmite, una salsiccia, una mela, altre due bottiglie di birra e un pacchetto di sigarette da cinque. Una volta che Stan se n’era andato per raggiungere il porto, tutti si mettevano a parlare contemporaneamente.

    La nonna voleva sempre sapere chi era passato dalla caffetteria in cui la figlia faceva la cameriera: cosa mangiavano, cosa indossavano, dove si sedevano; dettagli dei pasti che venivano cotti su una stufa in una stanza illuminata da lampade elettriche che non gocciolavano cera di candela, per non parlare dei clienti che, talvolta, lasciavano una mancetta che Maisie doveva dividere con il cuoco.

    Maisie era più interessata a sapere cosa avesse fatto Harry a scuola il giorno prima. Pretendeva un resoconto quotidiano, che non pareva interessare alla nonna, forse perché a scuola lei non c’era mai stata. A pensarci bene, non era mai stata nemmeno in una caffetteria.

    Il nonno commentava raramente perché, dopo aver caricato e scaricato per quattro anni un cannone da campagna, mattino, mezzogiorno e sera, era così sordo da doversi accontentare di osservare il movimento delle loro labbra e di annuire di quando in quando. Il che poteva dare a un osservatore esterno l’impressione che fosse stupido, mentre il resto della famiglia sapeva – a proprie spese – che non lo era.

    La routine mattutina della famiglia variava solo nel weekend. Il sabato, Harry seguiva lo zio fuori dalla cucina, restando sempre indietro di un passo, mentre lui si incamminava verso la zona portuale. La domenica, la mamma di Harry accompagnava il ragazzo alla chiesa della Sacra Natività, dove, dalla terza fila di banchi, si beava dello splendore della voce bianca solista del coro.

    Ma quel giorno era sabato. Nei venti minuti a piedi per arrivare alla zona portuale, Harry non apriva mai la bocca, a meno che lo zio non parlasse. Quando lo faceva, finiva immancabilmente per rivelarsi la stessa conversazione fatta il sabato prima.

    «Quand’è che mollerai la scuola per fare un giorno di lavoro, giovanotto?» era la costante bordata iniziale di zio Stan.

    «Non ho il permesso di abbandonarla finché non compio quattordici anni» gli ricordò Harry. «È la legge.»

    «Una legge dannatamente stupida, se vuoi sapere come la penso. A dodici anni avevo già mollato la scuola e lavoravo al porto» annunciava Stan, come se Harry non avesse mai sentito prima quell’acuta osservazione. Harry non si dava la pena di rispondere, dato che sapeva già quale sarebbe stata la frase successiva dello zio. «E, se non bastasse, a diciassette mi ero già arruolato come volontario nell’esercito di Kitchener.»

    «Parlami della guerra, zio Stan» disse Harry, consapevole che la richiesta lo avrebbe tenuto occupato per diversi secoli.

    «Io e tuo papà entrammo a far parte del Royal Gloucestershire Regiment nello stesso giorno» disse Stan, sfiorandosi il cappello di panno come per omaggiare un ricordo lontano. «Dopo dodici settimane di addestramento generico presso la Taunton Barracks, ci spedirono a Wipers per combattere contro i crucchi. Lì passavamo buona parte del tempo stipati in trincee infestate dai ratti, in attesa di sentirci dire da qualche ufficiale con la puzza sotto il naso che, al suono della tromba, avremmo dovuto superare il parapetto, con la baionetta in resta, facendo fuoco con i fucili nell’avanzata verso le linee nemiche.» Seguiva una lunga pausa, al termine della quale Stan aggiungeva: «Io sono stato uno dei fortunati. Me ne sono tornato a casa in un pezzo solo e in buono stato». Harry avrebbe potuto prevedere la frase seguente, parola per parola, ma restò in silenzio. «Non sai davvero quanto sei fortunato, ragazzino. Io ho perso due fratelli, tuo zio Ray e tuo zio Bert, e tuo padre non ha perso solo un fratello, ma anche il padre, l’altro nonno che non hai mai conosciuto. Un vero uomo, in grado di trangugiare una pinta di birra più rapidamente di qualsiasi portuale in cui io mi sia mai imbattuto.»

    Se Stan avesse abbassato lo sguardo, avrebbe visto il ragazzo articolare le sue parole senza produrre alcun suono, ma quel giorno, con grande sorpresa di Harry, zio Stan aggiunse una frase mai pronunciata prima: «E tuo papà sarebbe ancora vivo oggi, se solo la direzione mi avesse dato ascolto».

    L’attenzione di Harry si risvegliò bruscamente. La morte del padre era da sempre oggetto di conversazioni sussurrate e di parole dette a bassa voce. Ma zio Stan si zittì, forse rendendosi conto di essersi spinto troppo in là. Magari la settimana prossima, pensò Harry, raggiungendo suo zio e mettendosi al passo con lui, come due soldati in parata.

    «Allora, con chi gioca il City questo pomeriggio?» chiese Stan, tornando al suo copione.

    «Charlton Athletic» rispose Harry.

    «Sono un branco di vecchi operai.»

    «Nello scorso campionato ci hanno stracciati» ricordò Harry a suo zio.

    «Hanno avuto una fortuna dannata, se vuoi sapere come la penso» disse Stan, senza aprire più bocca. Giunti all’ingresso dell’arsenale, Stan timbrò il cartellino prima di dirigersi al bacino presso cui lavorava insieme a una squadra di altri portuali, nessuno dei quali poteva permettersi di arrivare con un minuto di ritardo. La disoccupazione aveva raggiunto il massimo storico e troppi giovani stazionavano fuori dai cancelli, in attesa di prendere il loro posto.

    Harry non seguì lo zio perché sapeva che, se il signor Haskins lo avesse sorpreso a bighellonare intorno alle rimesse, si sarebbe beccato uno scappellotto su un orecchio, seguito da un calcio nel sedere da parte dello zio per aver fatto arrabbiare il caposquadra. Dunque, puntò nella direzione opposta.

    La prima meta abituale di Harry, ogni sabato mattina, era il Vecchio Jack Tar, che viveva nella carrozza ferroviaria all’estremità opposta dell’arsenale. Non aveva mai parlato a Stan delle sue visite regolari perché lo zio gli aveva intimato di evitare il vecchio a tutti i costi.

    «Probabilmente sono anni che non si fa un bagno» diceva l’uomo che si lavava una volta ogni tre mesi e, comunque, solo dopo che la madre di Harry si lamentava della puzza.

    Ma era da tempo che la curiosità aveva avuto il sopravvento e Harry, una mattina, si era avvicinato di soppiatto al vagone ferroviario, avanzando carponi, e si era issato per dare una sbirciata da un finestrino. L’uomo era seduto in prima classe e stava leggendo un libro.

    Il Vecchio Jack si era voltato e aveva detto: «Entra pure, ragazzino». Harry era saltato giù e non aveva smesso di correre finché non aveva raggiunto la porta di casa.

    Il sabato seguente, Harry si era di nuovo avvicinato di soppiatto al vagone e aveva dato una sbirciata all’interno. Il Vecchio Jack sembrava profondamente assopito, ma poi Harry lo aveva sentito dire: «Perché non entri, ragazzo mio? Non ti mordo mica».

    Harry aveva girato la pesante maniglia di ottone e aperto la porta del vagone con cautela, però non vi aveva messo piede. Si era limitato a fissare l’uomo seduto al centro della carrozza. Era difficile stabilire la sua età, perché aveva la faccia coperta da una barba brizzolata e ben curata, che lo faceva assomigliare al marinaio sul pacchetto delle Players Please. Ma quell’uomo aveva guardato Harry con un calore che lo zio Stan non aveva mai mostrato.

    «Lei è il Vecchio Jack Tar?» aveva provato a dire Harry.

    «È così che mi chiamano» aveva risposto il vecchio.

    «Ed è qui che vive?» aveva chiesto ancora Harry, guardandosi intorno, posando gli occhi su un’alta pila di vecchi quotidiani accatastati sul sedile di fronte a lui.

    «Sì» era stata la risposta del vecchio. «È casa mia da vent’anni a questa parte. Perché non chiudi la porta e ti siedi, giovanotto?»

    Harry aveva riflettuto sulla proposta, prima di schizzare fuori dal vagone e darsela nuovamente a gambe.

    Il sabato seguente, Harry chiuse la porta ma senza mollare la presa sulla maniglia, pronto a schizzare via se il vecchio avesse mosso un solo muscolo. Si erano fissati per un po’, prima che il Vecchio Jack chiedesse: «Come ti chiami?».

    «Harry.»

    «E dov’è che vai a scuola?»

    «Non vado a scuola.»

    «In tal caso, cosa speri di fare della tua vita, giovanotto?»

    «Lavorare alla darsena come mio zio, ovviamente» aveva replicato Harry.

    «Perché mai vorresti fare una cosa del genere?»

    «Perché no?» si era inalberato Harry. «Pensa che non sia abbastanza bravo?»

    «Sei fin troppo bravo» aveva detto l’uomo. «Alla tua età volevo entrare nell’esercito e niente di ciò che il mio vecchio potesse dire o fare mi avrebbe dissuaso.»

    Nell’ora successiva Harry era rimasto in piedi, incantato, mentre il Vecchio Jack Tar evocava i suoi ricordi della darsena, della città di Bristol e di terre al di là del mare che certo non si studiavano nell’ora di geografia.

    Il sabato seguente e per più sabati di quanti ne potesse ricordare, Harry aveva continuato a far visita al Vecchio Jack Tar. Ma non ne aveva parlato allo zio o alla madre per paura che gli impedissero di andare a trovare il suo primo vero amico.

    Quando, quel sabato mattina, Harry bussò alla porta della carrozza ferroviaria, fu chiaro che il Vecchio Jack lo stava aspettando, perché aveva piazzato sul sedile di fronte la sua solita mela Cox. Harry la prese, le diede un morso e si sedette.

    «Grazie, signor Tar» disse Harry, asciugandosi il succo che gli era finito sul mento. Non chiedeva mai da dove venissero le mele; così, il mistero di quell’uomo fantastico cresceva.

    Com’era diverso dallo zio Stan, che si limitava a ripetere quel poco che sapeva, mentre ogni settimana il Vecchio Jack faceva conoscere a Harry parole nuove, esperienze nuove, persino mondi nuovi. Si chiedeva spesso perché il signor Tar non facesse l’insegnante: sembrava saperne ancor più della signorina Monday e quasi quanto il signor Holcombe. Harry era convinto che il signor Holcombe sapesse tutto, perché era in grado di rispondere a qualsiasi domanda lui gli facesse. Il Vecchio Jack gli sorrise, ma non parlò finché Harry non ebbe finito la sua mela ed ebbe gettato il torsolo fuori dal finestrino.

    «Cos’hai imparato a scuola questa settimana» gli chiese il vecchio, «che non sapessi già una settimana fa?»

    «Il signor Holcombe mi ha detto che ci sono altri paesi al di là del mare che fanno parte dell’Impero Britannico e che a regnare su tutti è il re.»

    «Direi che ha ragione. Sai dirmi i nomi di alcuni di quei paesi?»

    «Australia. Canada. India.» Esitò. «E America.»

    «No, l’America no» disse il Vecchio Jack. «Una volta sì, ma non più, grazie a un primo ministro debole e a un re malato.»

    «Chi era il re e chi era il primo ministro?» volle sapere Harry, con rabbia.

    «Re Giorgio III era sul trono nel 1776» spiegò il Vecchio Jack, «ma, per essere onesti, era malato, mentre Lord North, il suo primo ministro, semplicemente ignorò ciò che stava succedendo nelle colonie e, purtroppo, alla fine i nostri amici e parenti presero le armi contro di noi.»

    «Ma dobbiamo averli sconfitti per forza…» disse Harry.

    «No. Non solo erano dalla parte del giusto, non che questo sia un requisito essenziale per vincere…»

    «Che significa requisito

    «Una qualità richiesta» rispose il Vecchio Jack, che poi seguitò come se non fosse stato interrotto: «Ma erano pure guidati da un generale bravissimo».

    «Come si chiamava?»

    «George Washington.»

    «La settimana scorsa mi ha detto che Washington era la capitale dell’America. Il suo nome viene da quello della città?»

    «No, è la città ad aver preso il nome da lui. È stata costruita in una zona paludosa nota come Columbia, attraversata dal fiume Potomac.»

    «Anche Bristol prende il nome da un uomo?»

    «No» ribatté il Vecchio Jack, ridacchiando, divertito dalla velocità con cui la mente curiosa di Harry poteva passare da un argomento all’altro. «Bristol in origine si chiamava Brigstowe, che significa sito di un ponte

    «Allora, quand’è che è diventata Bristol?»

    «Gli storici hanno svariate opinioni» disse il Vecchio Jack, «anche se il castello di Bristol fu eretto da Robert di Gloucester nel 1109, dopo che ebbe intravisto l’opportunità di commerciare la lana con gli irlandesi. In seguito, la città si trasformò in un porto commerciale. Da allora, da centinaia d’anni, è un centro di costruzioni navali cresciuto ancor più rapidamente da quando la marina ha avuto bisogno di espandersi, nel 1914.»

    «Mio papà ha combattuto nella Grande guerra» disse Harry, con orgoglio. «Anche lei?»

    Per la prima volta, il Vecchio Jack esitò prima di rispondere a una domanda di Harry. Rimase seduto dov’era, in silenzio.

    «Mi scusi, signor Tar» disse Harry. «Non intendevo essere indiscreto.»

    «No, no» replicò il Vecchio Jack. «Solo che è da anni che non mi viene fatta questa domanda.» Senza aggiungere una sola parola, aprì la mano, rivelando una moneta da sei centesimi.

    Harry prese la monetina d’argento e la morse, una cosa che aveva visto fare a suo zio. «Grazie» disse, prima di infilarsela in tasca.

    «Va’ a comprarti un po’ di fish and chips al caffè sulla banchina, ma non dirlo a tuo zio, perché poi dovresti spiegargli dove hai trovato i soldi.»

    In realtà Harry non aveva mai detto allo zio nulla sul conto del Vecchio Jack. Una volta l’aveva sentito dire a sua mamma: «Quello svitato andrebbe rinchiuso». Aveva chiesto alla signorina Monday cosa fosse uno svitato, perché non era riuscito a trovare la parola sul vocabolario e, quando lei glielo aveva detto, si era reso conto per la prima volta di quanto dovesse essere stupido lo zio Stan.

    «Non necessariamente stupido» gli aveva spiegato la signorina Monday. «Semplicemente malinformato e, dunque, prevenuto. Non ho dubbi, Harry» aveva aggiunto, «che di uomini simili tu possa incontrarne molti altri nel corso della tua vita, alcuni di loro in posizioni ben più eminenti di quella di tuo zio.»

    3

    Maisie attese finché non udì la porta sbattere e non fu certa che Stan si fosse avviato al lavoro, prima di annunciare: «Mi è stato offerto un posto da cameriera al Royal Hotel».

    Nessuna delle persone sedute a tavola rispose, dato che le conversazioni a colazione in teoria dovevano seguire un andamento regolare e non cogliere nessuno di sorpresa. Harry avrebbe voluto fare un sacco di domande, ma attese che a parlare per prima fosse la nonna. Lei si limitò a concentrarsi sull’altra tazza di tè che intendeva versarsi, come se non avesse nemmeno udito sua figlia.

    «A qualcuno di voi spiacerebbe dire qualcosa?» fece Maisie.

    «Non mi ero nemmeno reso conto che tu stessi cercando un altro lavoro» provò a dire Harry.

    «Non lo stavo cercando» spiegò Maisie. «Però la settimana scorsa un certo signor Frampton, il direttore del Royal, è venuto al Tilly’s a farsi un caffè. È tornato diverse volte e poi mi ha offerto il posto!»

    «Pensavo che tu stessi bene alla caffetteria» disse la nonna, prendendo finalmente parte alla conversazione. «Dopo tutto, la signorina Tilly paga bene e l’orario è comodo.»

    «Ci sto bene» disse la mamma di Harry, «ma il signor Frampton mi propone cinque sterline alla settimana e metà di tutte le mance. Il venerdì potrei portare a casa fino a sei sterline.»

    La nonna rimase seduta dov’era, a bocca spalancata.

    «Dovrai lavorare di sera?» chiese Harry, dopo aver finito di leccare la scodella di porridge di Stan.

    «No» disse Maisie, scompigliando i capelli del figlio, «e, per di più, avrò un giorno libero ogni due settimane.»

    «I tuoi vestiti sono sufficientemente ricercati per un albergo di lusso come il Royal?» domandò la nonna.

    «Mi verranno forniti una divisa e un grembiule bianco fresco di bucato tutte le mattine. L’hotel dispone persino della sua lavanderia privata.»

    «Non ne dubito» disse la nonna, «ma mi sorge in mente un problema con cui dovremo tutti imparare a convivere.»

    «Sarebbe a dire, mamma?» chiese Maisie.

    «Potresti finire per guadagnare più di Stan e a lui la cosa non piacerà. Neanche un po’.»

    «In tal caso dovrà farsene una ragione, giusto?» intervenne il nonno, fornendo un’opinione per la prima volta dopo settimane.

    I soldi in più sarebbero tornati utili, soprattutto dopo quanto era successo alla Sacra Natività. Maisie stava per andarsene dopo il servizio, quando la signorina Monday le si era avvicinata con passo deciso lungo la navata.

    «Posso scambiare due parole in privato con lei, signora Clifton?» chiese, per poi voltarsi e avviarsi verso la sacrestia. Maisie la rincorse come una bambina sulla scia del Pifferaio magico. Temeva il peggio. Cos’aveva combinato Harry quella volta?

    Maisie seguì la direttrice del coro nella sacrestia e si sentì cedere le gambe quando vide che dentro c’erano anche il reverendo Watts, il signor Holcombe e un altro signore. Quando la signorina Monday si chiuse sommessamente la porta alle spalle, Maisie iniziò a tremare in modo incontrollato.

    Il reverendo Watts le cinse le spalle con un braccio. «Non hai nulla di cui preoccuparti, mia cara» la rassicurò. «Al contrario, spero tu capisca che siamo latori di notizie felici» aggiunse, offrendole una sedia. Maisie si sedette, senza però riuscire a smettere di tremare.

    Una volta

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