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La buia discesa di Elizabeth Frankenstein
La buia discesa di Elizabeth Frankenstein
La buia discesa di Elizabeth Frankenstein
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La buia discesa di Elizabeth Frankenstein

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About this ebook

La piccola Elizabeth Lavenza non mangiava un pasto decente da giorni e le sue braccia erano coperte di lividi quando il giudice Frankenstein l'ha portata via dall'orfanotrofio e da una vita di maltrattamenti perché diventasse la compagna di giochi di suo figlio Victor, un ragazzino cupo e solitario che aveva tutto, tranne che un amico.
Victor era la sua salvezza, l'occasione per sottrarsi alla miseria, e da quel giorno Elizabeth, decisa a non lasciarsi sfuggire l'opportunità di cambiare in meglio la propria esistenza, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per rendersi indispensabile. E ci è riuscita: la famiglia Frankenstein l'ha accolta, le ha dato una casa, un letto caldo in cui dormire, buon cibo e vestiti bellissimi. Lei e Victor sono diventati inseparabili.
Ma quella nuova, meravigliosa vita ha un prezzo. Con il passare degli anni, Elizabeth ha dovuto imparare a convivere con il temperamento violento di Victor, ad accontentare ogni suo capriccio, ad assecondarlo nei suoi vizi. Perché dietro gli occhioni azzurri e il sorriso dolce si nasconde in realtà il cuore calcolatore di una giovane donna decisa a sopravvivere a qualunque costo... anche quando il mondo che credeva di conoscere sprofonda nelle tenebre.

Suggestivo e originale, La buia discesa di Elizabeth Frankenstein è la reinterpretazione in chiave moderna di un classico che parla alle paure nascoste nel profondo di ciascuno di noi.
LanguageItaliano
Release dateOct 11, 2018
ISBN9788858989555
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    La buia discesa di Elizabeth Frankenstein - Kiersten White

    perduto

    PARTE PRIMA

    COME POTREI VIVERE SENZA DI TE?

    1

    ESSERE DEBOLI È CERTO MISEREVOLE

    I fulmini solcavano il cielo, artigliando le nubi e pulsando al ritmo dell’universo stesso.

    Sospirai felice. La pioggia sferzava i finestrini della carrozza e i tuoni rimbombavano così forte che non ci accorgemmo di nulla quando, alla periferia di Ingolstadt, la strada sterrata lasciò il posto al selciato.

    Accanto a me Justine tremava come un coniglietto appena nato, affondando il viso tra il mio collo e la spalla. Un altro lampo illuminò a giorno la nostra vettura e poi un tuono assordante fece tremare il vetro dei finestrini nel telaio.

    «Come puoi ridere?» mi chiese Justine. Io non me ne ero neanche accorta.

    Le accarezzai i capelli scuri che spuntavano dal cappello. Justine odiava ogni tipo di rumore forte: le porte che sbattevano, i temporali, gli strilli. Soprattutto gli strilli. Ma negli ultimi due anni mi ero assicurata che non dovesse mai sentirne. Era davvero strano che le nostre origini – simili quanto a crudeltà, diverse per durata – avessero sortito effetti tanto differenti. Justine era la persona più schietta, affettuosa e buona che avessi mai conosciuto.

    E io ero…

    Be’, non ero come lei.

    «Ti ho mai detto che io e Victor ci arrampicavamo sul tetto di casa per guardare i fulmini?»

    Scosse la testa senza alzarla.

    «Il modo in cui le montagne si stagliavano all’orizzonte rischiarate dai lampi: ci sembrava di assistere alla creazione del mondo. Oppure i fulmini che cadevano sul lago e parevano trovarsi al contempo in cielo e nell’acqua. Alla fine eravamo fradici: è un miracolo che nessuno dei due sia morto di polmonite.» Risi di nuovo, a quel ricordo. La mia pelle, chiara come i capelli, si arrossava sempre al freddo. Victor, con i suoi riccioli scuri incollati alla fronte pallida che accentuavano le occhiaie, sembrava la morte in persona. Che bella coppia eravamo!

    «Una sera» proseguii, sentendo che Justine si stava tranquillizzando, «il fulmine ha colpito un albero in giardino, a una quindicina di metri da noi.»

    «Che paura!»

    «È stato splendido.» Sorrisi, posai la mano sul vetro che era freddo sotto il pizzo bianco dei guanti. «Ai miei occhi rappresentava la forza smisurata e terribile della natura. È stato come vedere Dio.»

    Justine schioccò la lingua con aria di rimprovero e si staccò da me per rivolgermi uno sguardo severo. «Non bestemmiare.»

    Le feci la linguaccia e riuscii a strapparle un sorriso.

    «Cosa ne pensava Victor?»

    «Oh, è rimasto molto depresso per mesi. Mi pare che le sue esatte parole siano state che languiva in abissi di inconcepibile sconforto.»

    Il sorriso di Justine si allargò, ma con una nota di perplessità. Il suo viso era più facile da leggere di qualsiasi libro della biblioteca di Victor. Quei tomi richiedevano sempre alcune conoscenze pregresse e uno studio intenso, invece Justine era un manoscritto miniato: bello, prezioso e immediatamente comprensibile.

    Con rammarico tirai le tendine della carrozza per nascondere il temporale e calmare Justine. Era la prima volta che usciva dalla casa sul lago dopo il nostro ultimo, disastroso viaggio a Ginevra, quando sua madre, pazza per il dolore, ci aveva aggredite. Quel viaggio in Baviera era difficile per lei. «Io vedevo lo splendore della natura nella distruzione di quell’albero, mentre Victor un potere – il potere di rischiarare la notte e bandire l’oscurità, il potere di estinguere secoli di vita in un colpo solo – che non poteva controllare e a cui non aveva accesso. E nulla è più intollerabile per Victor che l’idea di non poter controllare qualcosa.»

    «Avrei voluto conoscerlo meglio prima che partisse per l’università.»

    Le accarezzai la mano – portava i guanti di pelle marrone che mi aveva regalato Henry – e gliela strinsi forte. Quei guanti erano molto più morbidi e caldi dei miei. Ma Victor mi preferiva vestita di bianco. Ed ero sempre felice di fare bei regali a Justine. Era entrata in casa nostra due anni prima, quando ne aveva diciassette e io quindici, ed era lì solo da un paio di mesi il giorno in cui Victor ci aveva lasciati. Non lo conosceva bene.

    Nessuno lo conosceva come me. Mi andava bene così, però volevo che si adorassero come io adoravo entrambi.

    «Presto conoscerai Victor. Tutti insieme, Victor, tu e io…» Mi interruppi, perché la mia lingua traditrice stava per aggiungere Henry. Ma era impossibile. «Staremo ancora felicemente insieme, e allora il mio cuore sarà completo.» Parlavo con voce allegra per mascherare il timore che mi incuteva quell’avventura.

    Non potevo permettere che Justine si preoccupasse. Ero partita per quel viaggio soltanto perché lei aveva accettato di accompagnarmi. Il giudice Frankenstein aveva respinto le mie suppliche di andare a controllare come stava Victor. Credo che fosse sollevato al pensiero che il figlio si fosse allontanato, e che non gli importasse se non avevamo sue notizie. Diceva sempre che Victor sarebbe tornato appena fosse stato pronto e che non dovevo angosciarmi.

    Mi angosciavo. Molto. Specialmente dopo aver trovato un elenco di spese con il mio nome sopra. Il giudice stava ispezionando i miei conti: non dubitavo che presto avrebbe deciso che non valeva più la pena tenermi in casa. Ero stata troppo brava a rimettere in sesto Victor. Ora lui era là fuori nel mondo e io non servivo più a suo padre.

    Non gli avrei permesso di cacciarmi via dopo tutti quegli anni di duro lavoro. Dopo tutto ciò che avevo fatto.

    Per fortuna il giudice Frankenstein era dovuto partire a sua volta per un viaggio misterioso. Così non gli avevo dovuto chiedere il permesso, ma… me ne ero andata. Justine non lo sapeva. La sua presenza mi dava la libertà di muovermi senza suscitare sospetti o critiche. William ed Ernest, i fratelli minori di Victor di cui Justine era la governante, se la sarebbero cavata benissimo con la cameriera fino al nostro ritorno.

    Un altro tuono ci rintronò nel petto: lo sentimmo fin dentro il cuore.

    «Raccontami di quando hai conosciuto Victor» pigolò lei, stringendomi la mano fino a farmi male.

    La donna che non era mia madre mi strattonava i capelli con cattiveria brutale ed efficiente.

    L’abito che indossavo mi stava grande. Le maniche mi penzolavano sui polsi, in maniera poco adatta ai bambini. Però servivano a nascondere i lividi. Una settimana prima ero stata sorpresa a rubare una razione di cibo in più. Sanguinavo spesso per mano della mia irascibile tutrice, ma quella volta mi aveva picchiata finché tutto era diventato nero. Avevo passato le tre notti successive nascosta tra gli alberi sul lago a mangiare frutti di bosco. Pensavo che se mi avesse trovata mi avrebbe uccisa, come minacciava sovente di fare. Invece aveva scoperto che potevo tornarle utile in un altro modo.

    «Non rovinare ogni cosa» sibilò. «Sarebbe stato meglio che tu fossi morta alla nascita, insieme a tua madre, piuttosto che finire qui con me. Egoista da viva, egoista da morta. Ecco da che stirpe discendi.»

    Alzai la testa, lasciai che terminasse di spazzolarmi i capelli fino a renderli brillanti come l’oro.

    «Falli innamorare di te» ordinò, mentre qualcuno bussava delicatamente alla porta della stamberga che dividevo con lei e i suoi quattro figli. «Se non ti prendono, ti affogherò nel barile dell’acqua piovana, come con l’ultima cucciolata della gatta.»

    Sulla soglia c’era una donna circondata da un alone di luce accecante.

    «È lei» disse la tutrice. «Elizabeth, l’angioletto in persona. Figlia di nobili. Il destino le ha rubato la madre, l’orgoglio le ha imprigionato il padre, l’Austria si è presa il suo patrimonio. Ma nulla può intaccare la sua bellezza e la sua bontà.»

    Mi venne voglia di pestarle un piede o di tirarle un pugno per quel falso affetto.

    «Vuoi conoscere mio figlio?» chiese l’estranea. Le tremava la voce come se fosse lei ad avere paura.

    Annuii con solennità. Lei mi prese per mano e mi condusse via. Non mi voltai per guardarmi indietro.

    «Mio figlio si chiama Victor e ha soltanto un anno o due più di te. È un bambino speciale. Intelligente e curioso. Però non è bravo a farsi nuovi amici. Gli altri bambini sono…» Si interruppe, come se cercasse la caramella giusta in una scodella piena. «Sono intimiditi da lui. È sempre solo. Ma penso che un’amica come te possa avere su di lui proprio l’influenza calmante di cui ha bisogno. Credi di riuscirci, Elizabeth? Puoi essere l’amica speciale di Victor?»

    Avevamo raggiunto la loro villa delle vacanze. Mi fermai di colpo, sbalordita da ciò che vedevo. La donna proseguì tenendomi per mano e io barcollai, sgomenta.

    Avevo avuto una vita, prima. Prima del tugurio e dei bambini cattivi che mi mordevano. Prima della donna che si occupava di me con pugni e lividi. Prima di un’esistenza fatta di fame, timori e freddo, pigiata insieme a degli sconosciuti in una sporca oscurità.

    Con cautela, misi la punta di un piede oltre la soglia della villa che i Frankenstein avevano affittato per il loro soggiorno sul lago di Como. La seguii attraverso le lussuose sale decorate in verde e oro, piene di finestre e luce, ed entrai in quel mondo da sogno lasciandomi alle spalle la paura.

    Avevo vissuto lì, prima. E tornavo a viverci ogni sera quando chiudevo gli occhi.

    Nonostante avessi perso la mia casa e mio padre più di due anni prima, e nonostante i bambini non conservino ricordi perfettamente nitidi, io lo sapevo. Quella era stata la mia vita. In quelle stanze, belle e spaziose – così tanto spazio! – avevo trascorso la mia infanzia. Non proprio in quella villa, ma c’era la stessa atmosfera. C’è sicurezza nella pulizia, c’è conforto nella bellezza.

    Madame Frankenstein mi aveva fatta uscire dall’oscurità e mi aveva riportata alla luce.

    Mi strofinai le braccia doloranti e coperte di lividi, magre come fuscelli. Il mio corpo di bambina era carico di determinazione. Sarei stata tutto ciò di cui suo figlio aveva bisogno, a patto di poter riavere indietro quella vita. Era una bella giornata, la mano della signora era la cosa più morbida che toccavo da anni, le stanze davanti a noi sembravano traboccare di speranza per un nuovo futuro.

    Madame Frankenstein mi condusse nei corridoi e poi in giardino.

    Victor era lì da solo, con le dita intrecciate dietro la schiena. Aveva appena un paio d’anni più di me, ma pareva quasi un adulto. Provai la stessa timidezza diffidente con cui mi sarei avvicinata a un uomo sconosciuto.

    «Victor» disse la madre, e di nuovo percepii timore e nervosismo nella sua voce. «Victor, ti ho portato un’amica.»

    Si girò. Quant’era pulito! Mi vergognai profondamente del vestito troppo grande e rattoppato che indossavo. Avevo i capelli lavati – la mia tutrice li definiva la mia dote migliore –, ma sapevo che i miei piedi erano sporchi nelle scarpe. Quando mi guardò, fui certa che lo sapesse anche lui.

    Tentò di sorridere. «Ciao» disse.

    «Ciao» risposi.

    Restammo entrambi immobili sotto lo sguardo di sua madre.

    Mi sembrava di piacergli. Ma cosa potevo offrire a un bambino che aveva tutto? «Ti va di cercare un nido d’uccello con me?» gli chiesi di getto. Ero più brava degli altri bambini con le parole. Victor non aveva l’aria di essersi mai arrampicato su un albero. Era la prima cosa che mi era venuta in mente. «È primavera, quindi stanno per nascere i passerotti.»

    Victor aggrottò le sopracciglia scure. E poi annuì e mi porse la mano. Mi feci avanti e la afferrai. Sua madre sospirò di sollievo.

    «Divertitevi! Non allontanatevi dalla villa, però» ci pregò.

    Condussi Victor fuori dal giardino, nella rigogliosa foresta che circondava la tenuta. Il lago non era lontano: sentivo il suo odore freddo e scuro nella brezza. Iniziai a vagare senza meta, con gli occhi fissi sui rami sopra di noi. Era importantissimo trovare il nido promesso. Era una specie di esame, e se l’avessi superato sarei potuta restare nel mondo di Victor.

    E se non ce l’avessi fatta…

    Invece eccolo, come una speranza racchiusa tra fango e rametti: un nido! Lo indicai e sorrisi.

    Victor si rabbuiò. «È in alto.»

    «Posso arrivarci!»

    Mi squadrò. «Sei una femmina. Non dovresti salire sugli alberi.»

    Mi arrampicavo da quando avevo imparato a camminare, eppure quell’affermazione mi riempì della stessa vergogna che avevo provato per via dei piedi sporchi. Stavo sbagliando tutto.

    «Forse…» dissi, torcendomi il vestito tra le mani, «forse posso arrampicarmi su questo per l’ultima volta? Per te?»

    Ci pensò su e poi sorrise. «Sì, va bene.»

    «Conterò le uova e ti dirò quante ce ne sono!» Mi stavo già aggrappando al ramo; avrei voluto togliermi le scarpe però ero troppo imbarazzata.

    «No, porta giù il nido.»

    Mi fermai a metà. «Se lo spostiamo, la madre potrebbe non trovarlo più.»

    «Hai detto di volermi mostrare un nido. Hai mentito?» Sembrava furioso all’idea che potessi averlo ingannato. Ero disposta a tutto pur di vederlo sorridere, soprattutto quel primo giorno.

    «No!» esclamai, con il fiato corto. Raggiunsi il ramo e mi allungai. Dentro il nido c’erano quattro uova minuscole e perfette, di un azzurro chiaro.

    Con tutta la delicatezza di cui ero capace, lo staccai. L’avrei mostrato a Victor e poi l’avrei rimesso a posto. Era difficile scendere senza rovinarlo, però ci riuscii. Glielo misi davanti con un gran sorriso, trionfante.

    Lui guardò dentro. «Quando si schiuderanno?»

    «Presto.»

    Prese il nido. Poi trovò un sasso piatto e ce lo posò sopra.

    «Pettirossi, credo.» Accarezzai i gusci azzurri e levigati. Immaginai che fossero frammenti di cielo, e che, se fossi riuscita ad arrampicarmi abbastanza in alto, il cielo sarebbe stato morbido e caldo come quelle uova.

    «Forse è stato il cielo a deporre queste uova» ridacchiai. «E quando si schiuderanno ne uscirà un sole in miniatura che volerà in alto.»

    Victor mi squadrò. «È un’idea assurda. Sei molto strana.»

    Chiusi la bocca e tentai di sorridergli per dimostrargli che le sue parole non avevano ferito i miei sentimenti. Lui ricambiò, con cautela, e aggiunse: «Ci sono quattro uova e un unico sole. Magari le altre saranno nuvole». Provai un moto d’affetto per lui. Prese il primo uovo e lo sollevò alla luce. «Guarda, si vede l’uccellino.»

    Aveva ragione. Il guscio era traslucido e si scorgeva in controluce la sagoma di un uccellino raggomitolato. Risi, divertita. «È come vedere il futuro» commentai.

    «Quasi.»

    Se uno di noi due avesse potuto vedere il futuro, avremmo scoperto che l’indomani sua madre avrebbe pagato la mia crudele tutrice e mi avrebbe portata via per sempre, per donarmi a Victor come un regalo speciale.

    Justine sospirò felice. «Adoro questa storia.»

    La adorava perché la raccontavo solo a lei. Non era proprio la verità. Ma non dicevo quasi mai la verità, a nessuno. Avevo smesso da tempo di sentirmi in colpa. Parole e storie erano utensili, servivano a suscitare negli altri le reazioni desiderate, e io ero un’esperta artigiana.

    Quella storia in particolare era quasi vera. Ci avevo ricamato un po’ sopra, specialmente i ricordi della villa, perché era importantissimo mentire su quelli. E omettevo sempre il finale: Justine non l’avrebbe capito e io preferivo non pensarci.

    «Gli sento battere il cuore» bisbigliò Victor nei miei ricordi.

    Sbirciai dalla tendina e vidi che la città di Ingolstadt ci stava inghiottendo: le case di pietra scura si chiudevano intorno a noi come file di denti. Aveva catturato il mio Victor e l’aveva divorato. Avevo mandato lì Henry, per convincerlo a tornare a casa, e così li avevo persi entrambi.

    Ero lì per riprendermi Victor. Non me ne sarei andata senza di lui.

    Non avevo mentito a Justine sulle mie motivazioni. Il tradimento di Henry era doloroso come una ferita aperta e profonda. Però di quello potevo farmene una ragione. Non potevo sopravvivere, invece, alla perdita del mio Victor. Avevo bisogno di Victor. E quella bambina che aveva fatto tutto il possibile per conquistare il suo cuore avrebbe continuato a fare tutto il possibile per tenerselo.

    Guardai la città e serrai la mascella: che non provasse a fermarmi!

    2

    COSA HA A CHE FARE LA NOTTE CON IL SONNO?

    Il temporale si era già impadronito del cielo, nascondendo il tramonto. Ma, quando arrivammo all’alloggio che avevo prenotato in tutta fretta per lettera, non poteva essere notte da molto. Non sapevo se Victor potesse ricevere ospiti nelle sue stanze, né in che stato fossero.

    Sebbene avessimo vissuto nella medesima casa fino alla sua partenza, non mi sembrava opportuno dare per scontato che avrei potuto soggiornare con lui anche lì. Non era più lo stesso Victor di due anni prima. Dovevo rivederlo per capire che ruolo avrei dovuto interpretare per lui, chi aveva bisogno che fossi. E certamente Justine si sarebbe rifiutata di pernottare nell’appartamento di un giovane studente.

    Dunque ci ritrovammo sotto gli ombrelli, sferzate da una pioggia ostinata e deprimente, a bussare alla porta della Casa per signore di Frau Gottschalk. La carrozza aspettava alle nostre spalle, i cavalli battevano gli zoccoli sul selciato con impazienza. Avrei voluto anch’io battere i piedi. Finalmente ero lì, nella città di Victor, ma non avrei potuto cercarlo fino al mattino.

    Picchiai sulla porta fino a farmi male alla mano. Alla fine si aprì di uno spiraglio. Una donna, illuminata da una lampada gialla che la faceva sembrare una statua di cera, ci scrutò con sorprendente ferocia.

    «Cosa volete?» domandò in tedesco.

    Sfoggiai un sorriso cordiale e fiducioso. «Buonasera. Mi chiamo Elizabeth Lavenza. Vi avevo scritto a proposito di un soggiorno per…»

    «Regole della casa! Le porte si chiudono al tramonto. Se non siete dentro, non entrate.»

    Riecheggiò un tuono lontano e Justine tremò al mio fianco. Piegai le labbra carnose in un’espressione contrita e annuii convinta. «Sì, certo. Solo che siamo appena arrivate e non potevamo sapere quali fossero le regole. Ma è una richiesta ragionevole, ed è un grande sollievo che due ragazze come noi possano affidarsi alle cure di una signora così capace e attenta alla sicurezza delle sue ospiti!» Mi portai al cuore le mani giunte e le sorrisi. «Anzi, prima del nostro arrivo temevo di aver preso una decisione avventata prenotando qui, però ora vedo che siete un angelo inviato a proteggerci!»

    La donna batté le palpebre, storse il naso come se fiutasse l’ipocrisia, ma il mio viso rimase impassibile. Aggrottò la fronte e fece saettare qua e là gli occhietti, squadrando noi e la carrozza.

    «Be’, allora sbrigatevi e venite all’asciutto. E ricordate che questa regola non potrà mai più essere violata!»

    «Oh, certo! Grazie mille! Siamo davvero fortunate, vero, Justine?»

    Justine stava con il capo chino e gli occhi fissi sugli scalini. Parlava soprattutto francese e non ero sicura che capisse bene il tedesco, però il tono e l’atteggiamento dell’affittacamere non avevano bisogno di traduzione. Justine pareva un cagnolino bastonato. Odiavo già quella donna.

    Ordinò al cocchiere di lasciare il nostro baule nell’ingresso. Fu una danza goffa: la proprietaria non gli permetteva di entrare in casa con più di un piede alla volta. Lo ricompensai generosamente per il suo servizio, sperando di poterlo ingaggiare anche per il viaggio di ritorno, chissà quando.

    L’affittacamere sbatté la porta alle sue spalle e chiuse due chiavistelli. Da ultimo estrasse una grossa chiave di ferro dalla tasca del grembiule e la girò nella toppa.

    «È una città pericolosa, di notte? Non l’avevo sentito dire.» Era una città universitaria. Un centro di studi non poteva essere tanto minaccioso. Quando mai la ricerca della sapienza aveva richiesto tutti quei chiavistelli?

    La donna grugnì. «Dubito che sentiate parlare molto di Ingolstadt, lassù sui vostri bei monti. Siete sorelle?»

    Justine trasalì. Mi spostai per piazzarmi tra lei e l’affittacamere. «No. Justine lavora per i miei benefattori. Ma le voglio bene come fosse una sorella.» Non ci somigliavamo così tanto da indurre qualcuno a pensare che fossimo parenti. Io avevo la carnagione chiara, gli occhi azzurri e i capelli biondi di cui mi prendevo gran cura, come se la mia vita dipendesse da loro. Nell’ultimo anno avevo smesso di crescere, ero minuta e con le ossa piccole. A volte mi domandavo: se da bambina mi avessero dato più da mangiare, sarei diventata più alta? Più forte? Eppure il mio aspetto giocava in mio favore. Sembravo fragile e inoffensiva, incapace di far male a una mosca.

    Justine era una spanna più alta di me. Spalle larghe, mani forti e capaci. Capelli castani che al sole risplendevano di riflessi rossi e dorati. Ogni cosa risplendeva, in lei. Era una creatura nata per il tepore e la gioia. Ma nella piega delle sue labbra morbide e nei suoi occhi fissi a terra si intuiva una storia di dolore e sofferenza che mi legava a lei, mi ricordava che non era forte come appariva.

    Se avessi potuto scegliermi una sorella, avrei scelto Justine. Avevo scelto Justine. Ma lei aveva avuto altre sorelle, un tempo. Avrei preferito che quella donna orribile non trascinasse i loro spettri in quel brutto ingresso insieme al nostro bagaglio. Afferrai una maniglia del baule e feci cenno a Justine di prendere l’altra.

    Justine guardò l’affittacamere con gli occhi sbarrati e un’espressione ferita. Osservai meglio la donna. Non somigliava particolarmente alla madre di Justine, però quel tono di voce secco e autoritario e il modo sprezzante in cui aveva risposto alla mia domanda innocente bastavano a turbare i nervi della povera Justine. Avrei dovuto evitare che interagisse con lei. Per fortuna, forse avremmo trascorso una sola notte in casa di quell’arpia.

    «Sono così felice di avervi trovata!» ripetei sorridendo, mentre lei ci precedeva sbuffando verso una stretta rampa di scale. Poi mi girai e feci l’occhiolino a Justine. Lei mi sorrise debolmente, il suo bel viso contorto nello sforzo di fingere.

    «Potete chiamarmi Frau Gottschalk. Le regole della casa sono le seguenti: nessun uomo può entrare qui, mai. La colazione è alle sette in punto e non verrà servita a chi si siede dopo quell’ora. Dovete essere sempre presentabili quando siete negli spazi comuni.»

    «Ci sono molte altre ospiti?» Feci girare il nostro grande baule oltre un angolo in cui la carta da parati si stava scollando.

    «No, nessuna. Se posso continuare, gli spazi comuni sono destinati ad attività silenziose nelle ore serali, per esempio il ricamo.»

    «O la lettura?» chiese speranzosa Justine, in un tedesco stentato. Sapeva quanto amavo leggere. Tipico che pensasse a me per prima.

    «Lettura? No. Non c’è una biblioteca in casa.» Frau Gottschalk ci guardò come se fossimo le creature più sciocche al mondo per aver creduto che un’abitazione per signore potesse contenere libri. «Se volete dei libri, dovrete visitare una delle biblioteche dell’università o una libreria. Non saprei dirvi dove si trovano. Qui c’è il bagno. Svuoto i vasi da notte una sola volta al giorno, quindi badate a non riempirli troppo. Ecco la vostra stanza.» Aprì una porta goffamente intagliata con un’immagine che avrebbe dovuto rappresentare dei fiori, di bellezza pari alla gentilezza di Frau Gottschalk. La porta cigolò, come in segno di protesta.

    «Del pranzo ve ne dovete occupare voi. Non potete usare la cucina per alcun motivo. E la cena è servita alle sei in punto, che è pure l’ora in cui la casa chiude per la notte. Non illudetevi che la mia gentilezza di stasera possa ripetersi! Quando quella porta è chiusa a chiave, nessuno può aprirla.» Ci mostrò la grossa chiave di ferro. «Neanche voi. Quindi non apritevela a vicenda. Rispettate il coprifuoco.»

    Si girò con un gran fruscio di gonne inamidate e si fermò. Mi preparai a sfoggiare un sorriso grato con cui rispondere al suo augurio di buonanotte, buona permanenza o, meglio ancora, all’invito a una tarda cena.

    Invece, Frau Gottschalk disse: «Vi consiglio di tapparvi le orecchie con il cotone che è sul comodino. Per smorzare i… suoni».

    E sparì nel corridoio scuro, lasciandoci sole sulla soglia della stanza.

    «Be’.» Appoggiai il baule sul vecchio parquet consumato. «È buio, qui.» Avanzai a tentoni nella camera. Dopo aver sbattuto il piede contro la zampa di un letto, raggiunsi una finestra chiusa.

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