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Il colosso di marmo: L'ardore di Michelangelo
Il colosso di marmo: L'ardore di Michelangelo
Il colosso di marmo: L'ardore di Michelangelo
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Il colosso di marmo: L'ardore di Michelangelo

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Il secolo dei giganti 2
L'ardore di Michelangelo
Una grande trilogia: il Rinascimento come nessuno l’ha mai raccontato.

"Forcellino sa stemperare la grande cultura in una scrittura avvincente e pop."
Brunella Schisa, il Venerdì di Repubblica

"Gli intrighi e le avventure di una delle più straordinarie epoche italiane."
La Stampa.it

Firenze, 1500. Un enorme blocco di marmo giace immobile da quasi mezzo secolo. Un uomo lo osserva in silenzio, poi ci gira attorno, liberandolo dai rovi che lo ricoprono: è Michelangelo Buonarroti. Da quella maestosa massa informe, il grande artista dovrà estrarre una statua raffigurante il giovane David che si appresta ad affrontare Golia, da innalzare nella piazza della Signoria per convincere i cittadini che insieme possono difendere la città dalle mire di Cesare Borgia e che la Repubblica fiorentina rimarrà indomabile e fiera come il giovane eroe di marmo. Ma Firenze non è l’unico teatro di scontri; l’Italia tutta è appesa a un filo, e i principi d’Europa si preparano a giocare la partita della propria vita: Ludovico il Moro, il sultano Bajazet, Luigi XII sono determinati ad accaparrarsi una parte della penisola e a stravolgere per sempre le vecchie gerarchie del potere.

Tra guerre sanguinose, complotti, festini sontuosi e passioni proibite, Il colosso di marmo, secondo romanzo della saga Il secolo dei giganti, ci porta nelle botteghe degli artisti e nelle alcove dei potenti, e ci svela i segreti di alcune tra le opere d’arte più indimenticabili di sempre.
LanguageItaliano
Release dateFeb 21, 2019
ISBN9788858996935
Il colosso di marmo: L'ardore di Michelangelo
Author

Antonio Forcellino

Tra i maggiori studiosi europei di arte rinascimentale, ha realizzato restauri di opere di grande valore, come il Mosè di Michelangelo e l’Arco di Traiano. La sua attenzione si rivolge da sempre a tutta la ricchezza del fare arte, ai contesti storici, alle tecniche e ai materiali, alle radici psicologiche e biografiche dei grandi capolavori. È stato eletto membro del Comitato per le celebrazioni dei 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, promosso dal Ministero per i beni e le attività culturali.

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    Il colosso di marmo - Antonio Forcellino

    I PAPI

    ALESSANDRO VI BORGIA

    (11 agosto 1492 – 18 agosto 1503)

    PIO III

    (22 settembre 1503 – 18 ottobre 1503)

    GIULIO II DELLA ROVERE

    (1° novembre 1503 – 21 febbraio 1513)

    LEONE X

    (9 marzo 1513 – 1° dicembre 1521)

    PROLOGO

    Ebbe movimenti così grandi l’anno mille quattrocento novantanove,

    ma non fu meno vario e memorabile l’anno mille cinquecento.

    Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, capitolo XIII

    Il piccolo Siro si svegliò prima dell’alba intorpidito dal freddo che filtrava dal tetto di paglia sotto il quale aveva trovato rifugio durante la notte. Accanto a lui, c’era il fedele cane Giobbe che lo riscaldava più della coperta in cui si era arrotolato. L’autunno aveva scaricato la prima neve sulle cime delle Prealpi friulane e lui stava lentamente portando in pianura il suo gregge per metterlo al riparo nelle grandi stalle sulla riva del Tagliamento, prima che giungesse l’inverno.

    Uscì dal capanno e fu avvolto da una nebbia gelata che faceva appena trasparire il chiarore del giorno nuovo. Sempre con accanto il fedelissimo Giobbe, si avvicinò al ciglio della mulattiera che si affacciava a strapiombo sulla valle. La nebbia si stava sollevando e sotto il dirupo si intravedeva il nastro scintillante del fiume che si avviava verso le pianure, aspettando le piogge che lo avrebbero ingrossato e reso spaventoso nei mesi a venire.

    Siro orinò maledicendo il freddo e il cane, che immancabilmente cercava di intrufolarsi tra le sue gambe per giocare con il getto caldo che colpiva le foglie. Stava per ritornare verso il capanno, dove aveva la borsa con il pane secco, la polenta arrostita da sua madre una settimana prima e l’ultimo pezzo di formaggio preso su alla malga in cui aveva trascorso l’estate, quando un rumore simile al ronzio di un alveare minacciato da un orso cominciò a salire dalla valle, prima leggero e lontano, poi sempre più forte e più simile al rimbombo di una mandria di cavalli in fuga.

    Giobbe alzò la testa e drizzò le orecchie fiutando l’aria. Girò il muso verso ovest nel punto in cui il fiume si distendeva entrando nella pianura. In lontananza una nuvola di polvere si sollevò nell’aria più chiara e si udirono distintamente le urla di incitamento ai cavalli. Erano migliaia, una mandria mai vista prima dal ragazzo.

    Galoppavano a una velocità spaventosa e in un attimo furono a un tiro di freccia. Il cane iniziò ad abbaiare, Siro gli prese la testa e gli serrò il muso acquattandosi a terra proprio sul ciglio del dirupo. Ora distingueva bene i primi cavalieri, mentre la coda dell’esercito si perdeva ancora in fondo alla valle. Erano uomini mai visti e il terrore si mescolò alla meraviglia per le strane fogge dei loro vestiti. In testa portavano turbanti, e al fianco spade ricurve; le gambe erano inguainate in pantaloni larghi che si stringevano alle caviglie. I cavalli, poi, erano magnifici, bianchi e neri, con zampe snelle e criniere che ondeggiavano al vento.

    Erano i turchi, i terribili soldati di cui tutti parlavano con spavento, ma che nessuno aveva mai visto. Adesso erano a poche centinaia di metri da Siro, benché separati dal costone scosceso che proteggeva il giovane dalla loro vista.

    Ci volle più di un’ora perché l’esercito attraversasse la vallata e si perdesse a oriente, verso le montagne che separavano l’Italia dall’Austria.

    Appena fu sicuro che i turchi si fossero dileguati, Siro raccolse il gregge e si precipitò verso la piana, dimenticandosi perfino di mangiare a metà giornata. Quando prima di sera arrivò al piccolo paese in cui abitava d’inverno, vide il fumo salire dai tetti bruciati delle case e sentì i lamenti e le grida di dolore sollevarsi fino al cielo.

    Trovò i genitori in chiesa, dove si erano radunati tutti gli abitanti, o meglio tutti quelli sopravvissuti al massacro dell’orda ottomana. Il sultano Bajazet aveva infatti approfittato della confusione che regnava in Italia per inviare un esercito di seimila cavalieri a saccheggiare il Friuli e ad avvertire Venezia che le scaramucce navali, in cui erano impegnati lungo le coste del Peloponneso, erano solo un assaggio di ciò che di lì a poco si sarebbe scatenato nel cuore stesso della Serenissima.

    Venezia afferrò bene il messaggio e riunì il Senato per giorni e notti, impegnando i suoi diplomatici migliori in convulse assemblee. Alla sanguinosa scorribanda dell’esercito turco si aggiungevano anche le notizie drammatiche delle sconfitte subite dalla flotta serenissima dell’ammiraglio Grimani, che si era rifugiato a Lepanto in attesa di rinforzi che non sarebbero mai arrivati.

    Ma ancora più avvilenti erano le notizie dalla terraferma.

    Ludovico il Moro stava per rientrare a Milano appoggiato dagli spagnoli e da Massimiliano I d’Asburgo, che cercava il momento opportuno per mettere le mani sui territori veneziani al confine con il suo impero.

    La lega stretta da Venezia con la Francia, e benedetta da papa Alessandro Borgia, rischiava di venire travolta dalla furia del Moro redivivo e dell’esercito mercenario che era riuscito a radunare in pochi mesi con l’aiuto dell’imperatore.

    Il re di Francia Luigi XII, dal canto suo, era stato troppo ottimista ad abbandonare Milano subito dopo averla conquistata e a lasciarla nelle mani del generale Trivulzio, valoroso sui campi di battaglia, ma incapace di governare il popolo sempre più scontento per le odiose tasse che aveva imposto. Il Senato a quel punto fu costretto a chiedere a Luigi di far ritorno in Italia per riconquistare i territori della Lombardia e per fronteggiare il Moro e i suoi alleati.

    Sembrava che tutti i principi d’Europa avessero deciso di giocare in quella svolta di secolo la partita della propria vita. Incluso chi principe ancora non era, come Cesare Borgia il quale, forte dell’aiuto del padre e del ricatto che questi aveva fatto al re francese, si preparava alla conquista rapida, sanguinosa e spregiudicata di un intero regno.

    Chi invece aveva deciso di non giocare in quella partita viveva nel terrore. Come Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze, e Niccolò Machiavelli, segretario della Repubblica, che temevano un’annessione da parte di Cesare Borgia o dello stesso re di Francia.

    Il Natale del 1499 vedeva dunque l’Italia appesa a un filo come non accadeva da secoli. E proprio quella notte, durante la messa della Vigilia in San Pietro, tra le volute di incenso si levarono al cielo preghiere inesaudibili dal Signore, perché fatte da figli troppo in contrasto tra loro.

    Nel frattempo, in quegli stessi giorni, Michelangelo, in groppa al suo cavallino morello e stretto nel suo giubbone nero, stava facendo ritorno a Firenze, ammantato di gloria.

    Dopo la pausa savonaroliana, la città aveva finalmente ripreso a essere il centro di grandi imprese artistiche, e Michelangelo era pronto a servire la Repubblica. Oltre che a imporsi su un ambizioso ragazzo umbro, Raffaello Sanzio, il quale, giovanissimo, aveva già superato molti dei maestri più celebrati dell’epoca.

    ALESSANDRO VI BORGIA

    (11 agosto 1492 – 18 agosto 1503)

    UN GIGANTE PER LA REPUBBLICA

    «Eccolo là, nessuno lo tocca da quarant’anni. L’ultimo a provarci è stato mastro Agostino di Duccio, intorno al 1460, se ricordo bene» disse il priore di Santa Maria del Fiore.

    Michelangelo guardava il gigantesco blocco di marmo bianco adagiato nell’erba, che vi si arrampicava sopra nascondendolo in parte. In silenzio cominciò a girargli intorno strappando con le mani i rovi che lo assediavano. Staccava le fronde incurante delle spine, i suoi palmi erano ricoperti da un callo nodoso che li rendeva insensibili ai graffi. L’inverno aveva tolto le foglie dai rami e solo le bacche di rosa canina, vermiglie e lucenti, resistevano punteggiando la pietra bianca.

    La voce del priore lo inseguiva come una preghiera: «Solo tu puoi compiere quest’impresa. Ci sono voluti tre mesi per trasportarlo giù dai monti dell’Altissimo fino ai nostri depositi. Due cavatori hanno perso una mano per rimuoverlo dal fianco della montagna».

    Michelangelo continuava a fissare il marmo, estasiato, accarezzandolo con gli occhi.

    «Sono sette metri, sette metri di lunghezza e quasi due di larghezza in alcuni punti» spiegò il priore con lo stesso tono implorante. «Credo che dai tempi di Costantino nessuno abbia mai separato dalle montagne un blocco così grande.»

    Buonarroti si umettò i polpastrelli con la lingua e strofinò la pietra per portarsi di nuovo le dita alla bocca.

    «L’idea fu del magnifico Cosimo e del priore di allora, Lapo di Giovanni. Volevano cavarci un profeta da mettere sullo sperone basso del duomo. Poi la costruzione della facciata si è interrotta e Agostino ci ha rinunciato. Vent’anni fa abbiamo provato ad assegnarlo a mastro Antonio Rossellino, ma anche lui, dopo neppure un mese, ha restituito i soldi e si è ritirato» aggiunse il padre superiore.

    Finalmente Michelangelo lo guardò in faccia. «E cosa vi fa pensare che io possa scolpirlo?»

    «Michelangelo, abbiamo implorato tuo padre perché tornassi a Firenze. L’Italia intera parla della tua Pietà e dei miracoli che hai compiuto a Roma. Con l’aiuto di Dio e di santa Reparata, potrai fare un miracolo anche a Firenze.»

    «Ma la Pietà era alta meno di un terzo di questo colosso» rispose mentre vedeva animarsi nel marmo figure in ogni posizione, tutte possibili e tutte bellissime. Il blocco per lui era diventato trasparente come vetro, e vi scorgeva già dentro la vita.

    Un colpo sordo d’ascia attirò la sua attenzione verso un angolo in penombra dello stanzone aperto sul giardino che fiancheggiava la chiesa. Un ragazzo molto giovane era intento a spaccare grandi ceppi di legno, accatastandoli ordinatamente contro il muro. Era così assorto nel suo compito che sembrava non essersi neppure accorto della presenza dei due uomini. Si era tolto la giubba cenciosa di panno grigio e indossava soltanto una camicia lacera sbottonata sul petto e arrotolata sulle braccia muscolose che ripetevano con la precisione di una macchina i gesti del lavoro. Michelangelo fece in tempo ad apprezzarne il bellissimo corpo modellato dalla fatica e dalla giovinezza, a tratti lucente per il sudore nell’istante in cui le braccia entravano nel raggio di luce radente che filtrava dall’arco del portico. Stava quasi per chiedergli di avvicinarsi, quando una voce allegra lo fece girare di scatto verso il cancello.

    «Eccomi, spero di non essere arrivato troppo tardi per convincere il nostro Michelangelo a servire la Repubblica.» Il portone di legno si era spalancato e un uomo avanzava nel cortile dove era disteso il blocco. Aveva la fronte alta, i capelli neri con una leggera stempiatura, il volto ossuto e occhi furbi come quelli di una lince. «Sono Niccolò Machiavelli, segretario della Repubblica» si presentò. «Non puoi ricordarti di me, ma io mi ricordo benissimo di te. Ho visto il tuo Ercole e la tua Pietà e sono convinto che tu sia l’uomo che stiamo cercando.»

    Michelangelo alzò la testa e fissò il volto affilato che lo scrutava. «La Repubblica si interessa di questo blocco di marmo?» chiese.

    «Questi sono tempi in cui la Repubblica si interessa anche delle foglie che cadono dagli alberi. Michelangelo, il parlar chiaro è fatto per gli amici, e tu sei un amico. I Buonarroti servono Firenze da due secoli e non possono non avere a cuore la libertà della propria città» replicò Machiavelli.

    Michelangelo drizzò le orecchie come ogni volta che in pubblico si accennava alla passata grandezza dei Buonarroti. Cominciava finalmente a raccogliere i primi frutti del suo lavoro per ristabilire l’onore del padre e della famiglia dopo il miserabile declino che li aveva coperti di vergogna per più di vent’anni. Il declino in cui lui era nato.

    «Firenze è in pericolo» disse il giovane segretario sicuro di aver catturato l’attenzione dello scultore. «L’ultimo regalo velenoso di Piero de’ Medici inizia a dare i suoi frutti in questi giorni.» A quel nome, Michelangelo corrugò la fronte. «No, non crucciarti, so benissimo che non hai condiviso la politica di Piero e che ti sei allontanato da lui prima che tradisse la città. A ogni modo Piero ha dato Pisa in pegno al re di Francia Carlo VIII e la città si è resa indipendente, costringendoci a una guerra che ci sta dissanguando. Ora i pericoli sono aumentati con le mire di Cesare Borgia, il Valentino, di cui avrai certamente sentito parlare a Roma.» Si fermò inchiodando Michelangelo con i suoi occhi. «Cesare sta risalendo l’Italia con il suo spietato esercito di mercenari. Ha la furia di una folgore che travolge ogni ostacolo lasciando dietro di sé soltanto sangue e disperazione. Si è dovuto fermare solo perché l’esercito francese è stato richiamato a Milano per fronteggiare il tentativo di quel miserabile di Ludovico il Moro di rientrare in possesso della città.» Buonarroti lo guardò sorpreso per le parole dure rivolte al Moro. «No, Michelangelo, il Moro non mi fa nessuna pena: è lui che ci ha regalato l’invasione francese pensando di potersene servire contro il re di Napoli. Adesso, però, è stato definitivamente sconfitto e i francesi torneranno ad appoggiare Cesare offrendogli duecento lance ben armate e diversi cannoni. I suoi obiettivi sono chiarissimi. Conquisterà Pesaro, Urbino e poi passerà a Firenze.»

    Il priore emise un gemito e si fece il segno della croce. Michelangelo invece sbiancò in viso. Messer Machiavelli parlava con una lucidità a lui sconosciuta. Il suo volto sembrava indifferente all’emozione che causava con le sue analisi. Nitido, chiaro e veloce come un fulmine.

    «Firenze non può difendersi senza l’aiuto del re di Francia, il quale per il momento ha tenuto a bada Cesare, ma non è detto che Alessandro VI, papa Borgia, non riesca a convincerlo o a ricattarlo, per donare Firenze al figlio e alla sua famiglia» continuò ser Niccolò. «In più, Cesare ha tra le sue fila Vitellozzo Vitelli, il fratello di quel Paolo che ci ha traditi a Pisa e che noi abbiamo decapitato a palazzo l’ottobre di due anni fa.»

    Michelangelo ascoltava intimidito come poche volte nella sua giovane vita. «E che può fare un povero scultore contro i principi della guerra?» domandò prima a Machiavelli e poi al priore che continuava a snocciolare sommessamente orazioni a santa Reparata.

    «Un grande scultore, non un povero scultore» precisò Machiavelli. «Firenze non ha eserciti se non quelli che paga: i mercenari. Ma ora non ci sono più soldi nelle casse, la protezione del re di Francia ci ha dissanguati. Dobbiamo creare una milizia cittadina, come quella che avevamo nei secoli che ci hanno visto grandi. Vi arruoleremo i contadini e i cittadini, però abbiamo bisogno di convincere tutti della necessità di quest’impresa e tu puoi aiutarci. Il profeta che devi tirare fuori da questa montagna dev’essere un David, il giovane che ha sconfitto il gigante Golia. Il David sarà Firenze e solo tu puoi dare alla nostra città la fierezza di cui ha bisogno. Golia sono i nemici che dobbiamo fronteggiare e tu farai la tua parte.»

    Alcune gocce di pioggia cominciarono a cadere, rapide e sempre più corpose, come se volessero chiosare la conclusione del discorso del segretario della Repubblica. Michelangelo si tirò sulla testa l’incerata nera che aveva sulle spalle.

    Machiavelli fece alcuni passi verso il portico che chiudeva il cortile e gli altri due lo raggiunsero. Il priore si torceva le mani, spostando gli occhi ora su Michelangelo ora su Machiavelli. Si fissavano senza parlare. Nessuno di loro amava le parole superflue. Il silenzio fece di nuovo rimbombare il rumore ritmico dell’ascia del ragazzo intento a spaccare la legna.

    Michelangelo si girò verso il giovane: il profilo era immobile, il naso dritto, la bocca carnosa, e i riccioli tenuti insieme dal sudore rimanevano incollati sulla fronte. Per un attimo si fermò per tirarsi su con la mano libera dall’ascia la camicia che continuava a scivolargli sulla spalla tornita che sembrava lustrata dal piombo. Una luce guizzò negli occhi di Michelangelo. Fu solo un istante, era sempre molto accorto a trattenere le sue emozioni, tanto più adesso che era sotto lo sguardo acuto di ser Niccolò. La luce si ritirò dagli occhi e raggiunse l’anima, e poi il cuore. Ecco a chi avrebbe somigliato il suo David, l’eroe che tutta Firenze avrebbe adorato.

    «Va bene. Accetto. Portatemi il blocco all’interno dello stanzone» disse Buonarroti. «Anzi no, fatemi trovare qui sei manovali, canapi a sufficienza e pali insaponati. Chiodi e tavole di olmo. Farò spostare io il blocco e lo farò erigere e puntellare. E poi vi farò costruire intorno un’impalcatura per lavorare.»

    Machiavelli assentì con la testa. Non si era sbagliato, quel ragazzo era l’uomo giusto per la Repubblica.

    LA DONNA DEI CAVALLI

    Il barco scivolava sull’acqua senza rumore.

    Leonardo guardava la nebbia inghiottire i colori della riva, le sagome altissime dei pioppi e i salici piegati dal vento. Solo il fischio del timoniere interrompeva ogni tanto il silenzio dell’alba per salutare i pescatori di anguille che gettavano le reti dai pontili nascosti tra i muri di canne. Un battello li superò silenzioso come un’apparizione, mentre cinque mucche lo fissavano immobili. Leonardo notò cataste di sacchi pieni di granaglie e a poppa una famiglia di contadini, la madre stringeva tra le coperte un bambino di pochi mesi, circondata da figli di ogni età, da un tavolo e dalle spalliere di ferro dei letti.

    Anche loro stanno fuggendo, come me, speriamo che sappiano cosa li aspetta. Su questo fiume transita tutta l’Italia, pensò.

    Salai dormiva accanto a lui da quando avevano abbandonato Milano, spaventati dal ritorno di Ludovico il Moro. Ferrando era seduto più avanti poggiato alle casse di libri che il maestro non aveva voluto lasciare a Milano, libri e faldoni di carte nei quali aveva raccolto i suoi appunti disordinati. Se la barca si fosse rovesciata, vent’anni di studi, ricerche e riflessioni sarebbero colati a picco senza che il mondo potesse avere neppure sentore di ciò che lui aveva scoperto o pensato di aver scoperto sui fluidi, l’ottica, la meccanica, il volo, l’anatomia, la matematica e mille altre questioni intrappolate in quei grovigli di segni e schizzi che nessuno avrebbe mai potuto capire.

    Quel pensiero gli fece mancare il respiro. Adesso che era di nuovo in fuga, si rendeva conto di quanto fosse importante dare un ordine ai suoi studi, rendere gli altri partecipi delle sue fatiche.

    «Leonardo, cos’è la nebbia? Perché è così fitta qui sul Po? Non ho mai visto niente del genere neppure a Milano.» La voce di Zoroastro gli arrivò da dietro le spalle con la solita inflessione ironica; sperava di sorprenderlo impreparato per poterlo poi canzonare.

    «La nebbia è un fumo d’acqua, formato da minuscole gocce sospese nell’aria» rispose Leonardo, senza però convincere del tutto l’altro.

    «Sì, ma perché è così fitta qui lungo il Po? E non si vede sul mare che è una immensa distesa d’acqua?» insistette quello.

    Per nulla turbato dal tono dubbioso del suo più vecchio amico, Leonardo replicò con la pazienza di quando doveva spiegare agli uomini i misteri della natura a cui aveva dedicato tutta la sua vita: «Intanto non è vero che sul mare non c’è la nebbia. Mercanti che viaggiano spesso nel Nord mi dicono che al largo della Bretagna, dell’Olanda e su fino alla Norvegia spesso in primavera il mare è coperto da una nebbia talmente fitta che le navi non sono in grado di manovrare. È l’assenza di vento a crearla. Qui nella valle del Po, le Alpi fermano il vento che proviene dall’Atlantico e la nebbia permane indisturbata quasi per tutto l’anno. Contento adesso?».

    «Sì, sei davvero un pozzo di scienza. Ma vorrei scorgere con i miei occhi le goccioline d’acqua nell’aria.»

    «Lo vedi che sei stupido? Non puoi scorgerle, sono minuscole, ma sono visibili quando si condensano su un corpo più freddo. Il freddo diminuisce il movimento dei corpi…»

    «Va bene, va bene, ho capito. È una cosa complicata. Quando arriviamo a Mantova?»

    «Questo dovresti chiederlo al timoniere.»

    «Non manca molto, prima che il sole sia levato del tutto saremo a Mantova» rispose l’uomo.

    «Meno male, sto morendo di fame» ribatté Salai sbadigliando. Quelle erano le parole che ripeteva più di frequente nella sua giornata.

    «Ma se hai mangiato tutto il coscio di vitello che la signora Cecilia ci aveva preparato per il viaggio!» lo incalzò Zoroastro.

    «E le frittate e il pane e la cotognata di mele? Praticamente ha esaurito i viveri che dovevano bastare per tre giorni» intervenne Ferrando, che non era proprio tenero con la voracità di Salai.

    «Che volete, sono giovane, il corpo reclama» si difese quello, mentre si sporgeva dalla barca per orinare nell’acqua.

    Zoroastro non resistette alla tentazione e, attaccandosi con le mani ai due bordi del barco, lo fece oscillare pericolosamente.

    «Fermo, fermo, mi fai pisciare addosso!» esclamò Salai.

    «Zoroastro, per carità, sei impazzito? Se capovolgi la barca perdiamo i libri e i quadri e quel poco che siamo riusciti a portare via. Possibile che non puoi rinunciare ai tuoi scherzi idioti?» sbottò Leonardo.

    «Calma, calma, il signorino non finirà in acqua e neppure i tuoi libri, Leonardo. Era solo per iniziare bene la giornata.»

    «Guarda, fottuto toscano, mi sono pisciato sulle calze fino agli stivali» si lamentò Salai.

    «Non sarà un bel vedere per la marchesa Isabella. Lo sai che è considerata la donna più elegante d’Italia?»

    «Smettila, Zoroastro. Pensa piuttosto a comportarti bene in questi giorni. Isabella Gonzaga è una donna straordinaria. Solo la mia Cecilia può starle a confronto» disse Leonardo.

    «La mia Cecilia. L’hai fatta morire di desiderio per dieci anni. Per dieci anni ha tentato di portarti a letto e ora la chiami la mia Cecilia. E comunque, per quel che ricordo, la marchesa di Mantova è parecchio più bruttina.»

    «Cosa puoi capire tu, rozzo contadino pistoiese? Io e Cecilia ci siamo amati d’amore purissimo.»

    «Sei sicuro che non fosse troppo puro? Secondo me, lei un po’ più sporco lo avrebbe gradito.» Zoroastro lanciò un’occhiata a Ferrando e scoppiarono a ridere.

    «Basta, non impicciarti di cose che non puoi capire» lo ammonì il maestro. «Per quanto riguarda Isabella, è una donna elegantissima, colta e che si intende alla perfezione delle cose dell’arte. Ha una collezione di dipinti straordinari. Nessuno in Italia, né uomo né donna, può starle a confronto per quanto riguarda il buon gusto e la sapienza.»

    «È per questo che ci ha invitati. Ecco un’altra vittima della tua negligenza. Immagino che vorrà anche lei un tuo dipinto, come il Moro, come Cecilia, come quei poveri disgraziati dei monaci di San Francesco, il re di Francia e il governatore d’Amboise e…»

    «Non hai ancora finito? Possibile che devi infastidirmi dalla mattina alla sera? Mi chiedo perché continui a stare con me se sei così scontento.»

    «Per la verità me lo chiedo anch’io quasi tutte le mattine» ribatté Zoroastro. «Ma che vuoi, sono vent’anni che ti seguo e ci sono state anche giornate buone, non posso negarlo. Dico solo che dovresti impegnarti a esaudire le richieste dei tuoi committenti. Non chiedono altro che qualcosa di mano tua, potresti con pochissimo sforzo accontentarli e invece… niente. Perdi la tua vita dietro agli uccelli, alle gocce d’acqua che non si vedono e a scorticare morti.»

    «Zoroastro, se ora non la finisci la faccio rovesciare io la barca e così non se ne parla più!»

    «Ecco, maestro, siamo arrivati» annunciò il timoniere.

    Alzarono lo sguardo verso la prua e videro apparire nella nebbia un grande pontile di legno dove alcuni uomini tenevano in mano fiaccole accese. Dietro, si intravedeva una massa scura, grande come una montagna, irta di torri e pinnacoli.

    «Cos’è quell’enorme montagna appena dietro il pontile?» chiese Ferrando.

    «Il Palazzo Ducale dei Gonzaga» rispose Zoroastro guardandone il profilo a bocca aperta.

    «Che cosa stupefacente, affacciato sul lago e sul fiume da cui si parte e si arriva in barca comodamente» commentò Leonardo che aveva colto subito i vantaggi pratici di quella posizione.

    «In tempi di guerra è meno stupefacente. Però le mura verso il lago sono altissime, come vedete, da questo lato è quasi imprendibile» spiegò molto soddisfatto il timoniere.

    «Ma come fanno dei signorotti di una landa sperduta della Lombardia ad avere una dimora tanto vasta? Come fanno a essere tanto ricchi? In Spagna neppure l’Alcázar di Madrid è così grande» sussurrò Ferrando nell’orecchio a Zoroastro.

    «I Gonzaga sono ricchi perché questa terra è molto ricca e fertile. Allevano cavalli e controllano i traffici sul Po, insieme ai loro alleati, gli Este di Ferrara. Ma la loro vera fortuna è legata alla guerra. I Gonzaga sono condottieri di valore, mercenari che offrono i loro eserciti ai potenti quando servono» spiegò Leonardo intromettendosi nella conversazione e mantenendo basso il tono di voce. «Sì, i Gonzaga sono signori della guerra» continuò, «ma questa guerra di cavalieri e cavalli è destinata a finire. I conflitti ormai si combattono con i cannoni e le spingarde. Presto i cavalli dei Gonzaga torneranno ai pascoli. Il padre di Isabella è stato ben più furbo: Ercole d’Este ha costruito a Ferrara numerose officine per fondere armi. Anche il mio cavallo è finito nei suoi cannoni.» Ogni volta che Leonardo pensava al suo cavallo di bronzo distrutto gli salivano le lacrime agli occhi. «Comunque sono anche furbi. Ferrara ha raddoppiato le sue dimensioni e gli abitanti. Ercole ha fatto venire dalla Spagna gli ebrei sefarditi cacciati nel 1492. Lui e il sultano di Costantinopoli hanno accolto gli ebrei e ne hanno tratto benefici enormi.»

    La barca intanto aveva toccato il pontile e una voce squillante accolse i viaggiatori. «Maestro Leonardo. Sono Borso, il primo cameriere della marchesa. Benvenuto a Mantova. La marchesa vi sta aspettando nella sala dei cavalli per la colazione. Non vede l’ora di ricevervi di persona.»

    Leonardo guardò i suoi amici. Salai si fregava le mani: «Colazione, che parola magnifica, non oso immaginare cosa possano averci preparato in questo castello».

    Zoroastro gli rivolse un’occhiata in tralice indicando l’inguine bagnato con il dito indice, mentre l’altra mano si turò il naso.

    Leonardo si avvicinò a Borso che gli tendeva la mano per aiutarlo a scendere. «Grazie, e ringraziate la marchesa per l’accoglienza. Ma credo che avremo bisogno di passare per un bagno prima di essere presentabili. Durante il viaggio abbiamo avuto qualche incidente.»

    Meno di un’ora più tardi il piccolo gruppo, ripulito sommariamente, faceva il suo ingresso nel grande corridoio che portava alla sala dei cavalli. Dalle finestre affacciate sul lago arrivava una luce lattiginosa e a tratti anche un baluginio di sole riflesso dall’acqua. Da quelle sulla parete opposta invece si intravedeva un immenso giardino attraversato da siepi di aranci e melangoli e potato dalle forbici di un geometra.

    Leonardo, che procedeva davanti ai suoi assistenti sul lato destro di Borso, era riuscito a indossare un giubbone di raso verde e delle calze rosse a doppio filo. I capelli avevano perso l’oro della giovinezza, ma ricadevano ancora sulle spalle con onde regolari avvitate su se stesse. Ormai non era l’angelo guerriero che si era presentato al Moro vent’anni prima, ma un filosofo solenne, che aveva fatto buon uso della medicina e della propria sapienza.

    Borso spalancò la porta dove erano di guardia quattro camerieri in livrea rossa e nera, e Leonardo entrò nella sala in cui Isabella lo attendeva con le sue dame di compagnia e la piccola Eleonora, di appena sette anni, vestita come una principessa. Il maestro ricordava il viaggio di Isabella a Milano nove anni addietro, quando aveva accompagnato sua sorella Beatrice alle nozze con Ludovico il Moro. Allora aveva stupito tutta la città con la sua eleganza, i suoi abiti originali e i cappelli che lei stessa aveva disegnato. Rammentava la sua conversazione arguta e una gioia di vivere che raramente si vedeva nelle donne potenti.

    Adesso si trovò di fronte una persona diversa, i due figli avuti nel frattempo avevano appesantito la sua linea, eppure nello sguardo aveva una sicurezza nuova, dovuta all’esperienza di governo fatta nel suo piccolo stato in sostituzione del marito Francesco, impegnato nelle guerre e nel corteggiamento di decine di altre donne. Indossava un vestito che le strizzava il busto lasciandole scoperte le spalle. La parte superiore era formata da nastri d’argento alternati a strisce di velluto rosso e da due maniche di raso cangiante, rosso e viola, che stringevano ai polsi le sue belle mani affusolate. I capelli ramati, ravvivati certamente da una tintura confezionata con il mallo di noce e melograno, erano raccolti da una rete d’oro e acconciati con grande semplicità come un’unica onda che ricadeva sulle spalle. Sulla fronte era poggiato un nastro di seta con una perla grande come una nocciola proprio sopra gli occhi verdi, piccoli e scintillanti come quelli di una volpe.

    Isabella si avvicinò a Leonardo porgendogli entrambe le mani. «Leonardo, carissimo, non posso credere di avervi qui tutto per me, il nuovo secolo mi porta un regalo immenso, nonostante quello che avevano previsto quei menagramo dei miei astrologi.»

    «Marchesa, non ditemi che prestate fede a quei ciarlatani! Invece di osservare il movimento delle stelle osservano gli intrugli delle fattucchiere. Ogni cambio di secolo prevedono disgrazie terrificanti per tenere in soggezione gli uomini creduloni. Poi quest’anno, che cade alla metà del millennio, si sono scatenati, non hanno raggiunto il delirio dell’anno mille ma ci sono andati vicino» replicò Leonardo.

    «Avete ragione, siamo comunque scampati alla fine del mondo ancora una volta. Festeggeremo con un carnevale degno della ricorrenza. Le celebrazioni che stiamo organizzando diventeranno memorabili con il vostro aiuto. Spero che resterete il più a lungo possibile. La guerra alle porte non deve turbare questo soggiorno. Del resto ormai viviamo in una guerra perenne. Ma sono certa che voi saprete trasportarci in quel mondo magnifico che avete fermato nei vostri dipinti e perfino nelle vostre commedie. Fantasia, abbiamo bisogno di fantasia per sopravvivere!»

    Leonardo si era portato alle labbra le mani della donna con un leggero inchino principesco. «Marchesa, come posso ringraziarvi per aver accolto un esule nella vostra splendida casa? Vorrei trattenermi con voi tutta la vita, però devo pensare anche ai progetti che ho iniziato e che devo condurre a termine. Il mio amico Luca Pacioli, che avete avuto la generosità di ospitare qui prima di me, si è stabilito a Venezia, dove insegna matematica. Sapete che è l’intelletto più acuto d’Italia al giorno d’oggi. Lui mi scrive di raggiungerlo a Venezia dove potrò continuare i miei studi e servire quella Repubblica che sta lottando per tutti noi contro i turchi. Ma non voglio guastare l’arrivo con l’annuncio di una partenza. Ora sono qui e sono anch’io convinto che questo carnevale ci divertiremo molto insieme.»

    «Giusto, Leonardo, avete ragione, non parliamo già oggi della partenza. Ho scritto alla vostra amica Cecilia per sapere come meglio onorarvi a tavola. Ho scoperto che non amate la carne, ma siete ghiotto di pesce e frittate. Bene, non credo di essere presuntuosa se dico che qui a Mantova troverete il pesce più buono e fresco d’Italia. Del resto, come potete vedere, possiamo pescarlo quasi dalle nostre finestre.»

    Tutti scoppiarono a ridere alla battuta di Isabella, che distolse il suo sguardo dall’amico per apprezzare con la migliore eleganza il plauso alla sua arguzia. «Venite a tavola dunque, venite, sarete affamati. Ci sono lucci e trote pescate appena ieri sera. Vi ho fatto preparare alcune frittate con le uova di faraona, una gallina che si alleva solo sulle nostre terre e poi ci sono…»

    «Grazie, marchesa, grazie. Vedo che sulla tavola non manca proprio niente. Ci vorrebbe un mese per consumare questa colazione.»

    Isabella guardò Salai, Ferrando e Zoroastro e sorrise: «Oppure un buon appetito come quello che sentono questi giovani». Così dicendo si diresse verso il lungo tavolo, coperto di fiori e di stoviglie d’argento facendo cenno ai coppieri di versare il vino nei calici di cristallo.

    Zoroastro si avvicinò all’orecchio di Leonardo: «Ecco, carissimo, ecco uno di quei giorni per i quali vale la pena di seguirti anche in capo al mondo».

    «Quando avrete finito, voglio portarvi a vedere il mio studiolo, e la camera dipinta da Mantegna» disse Isabella al maestro. «Sono curiosa di sapere cosa ne pensate. E cosa pensate dei ritratti di Giambellino e di quello che mi ha fatto questo pittore di Urbino, Giovanni Santi, poco prima di morire. Suo figlio Raffaello sta facendo parlare tutta l’Italia con i suoi ritratti di Madonne. Non ha ancora vent’anni, ma sembra nato con il pennello in mano.»

    «Certamente è nato molto vicino ai pennelli, se suo padre era così bravo da venire a servirvi qui a Mantova da Urbino.»

    Isabella batté le mani dalla felicità. «Vicino ai pennelli. Che immagine splendida, Leonardo, credo davvero che i giorni che ci aspettano mi saranno invidiati da tutte le corti d’Italia. Ma vi avverto subito di una cosa: non pensate di lasciarmi senza un’opera di mano vostra. Non pensateci neppure. Darò ordine di murare tutte le vie di fuga pur di non lasciarvi partire senza avermi fatto un dipinto. Anche piccolo, piccolissimo, ma ne voglio uno vostro. Naturalmente lo pagherò quel che vorrete.»

    «Ahi ahi» commentò Zoroastro. «Ecco che ci risiamo. La marchesa non sa che deve davvero farlo prigioniero per costringerlo a dipingere.»

    Nel frattempo, dal fondo della sala, i musici cominciarono a suonare i pifferi e le mandole fatte arrivare da Anversa con le migliori voci del coro. La festa per il nuovo secolo era iniziata.

    IL LEONE INIZIA LA CACCIA

    «Quest’anno il Natale sembra caduto a Pasqua. C’è un vento tiepido che ha fatto fiorire perfino le rose. I mandorli del giardino sono pronti a sbocciare. Non avranno ragione i fraticelli scalzi che predicano la fine del mondo per il secolo nuovo?»

    «Lucrezia, quando finirai di essere così credulona?» disse Giulia. «L’unica fine del mondo è quella che stanno portando gli eserciti francesi che sono entrati in Italia. I fraticelli fanno il loro mestiere. Gridano alla fine del mondo, la gente si spaventa, pensa di morire nel peccato e corre a fare elemosine, perché non si sa mai…»

    «Mio padre e mio fratello sono pieni di eccitazione per l’anno nuovo, non capisco il motivo.»

    Giulia cambiò ancora una volta il vestito con l’aiuto delle sue due cameriere. Indossò una tunica di velluto liscia, senza ricami. «Questa dovrebbe andare bene per la messa di mezzanotte. Visto il caldo che fa non è il caso di indossare vestiti foderati di pelliccia. Certo, l’abito rivestito di zibellino che mi ha regalato sua santità è bellissimo e stanotte ci sarà tutta Roma in chiesa, ma con questo caldo saremmo ridicole a presentarci con i manti adatti alla neve.»

    Anche Lucrezia si avvicinò allo specchio. «Possiamo sempre portarci dietro le sbernie spagnole. Tu ne hai una stupenda, quella rivestita di seta operata viola, ti posso prestare le mie maniche dello stesso colore» propose all’amica.

    «Per carità, tuo padre odia il viola e gli rovinerei la vigilia se indossassi una veste di quel colore. Anche se per la verità non mi sembra più tanto interessato a me. Finalmente…» aggiunse dopo un attimo.

    Lucrezia la guardò con aria dubbiosa. «Certo, la Vigilia di Natale…»

    «No, intendo la vigilia della conquista. Non hai ancora capito cosa sta succedendo?»

    Adesso sul viso di Lucrezia comparve un’espressione afflitta, ogni azione dei suoi familiari si rivelava una disgrazia per lei. «No, spiegamelo.»

    Giulia raggiunse il tavolo su cui erano appoggiati due bicchieri di cristallo e una caraffa piena di vino rosso che mandava bagliori attraversata dalla luce delle candele. Fece cenno alle cameriere di uscire, poi porse a Lucrezia uno dei calici e la fece accomodare accanto a sé sulla piccola panca imbottita accanto alla finestra. «Hai visto che è tornato Cesare ieri mattina?»

    Lucrezia abbassò gli occhi con un sospiro. «Perché è tornato, secondo te?»

    «È venuto a trattare per avere l’appoggio della milizia di Alessandro Orsini, lo zio di mio marito. Sta per assediare Imola e Forlì. Il re di Francia ha dato il suo benestare alla conquista delle due città romagnole. Cesare diventerà a breve duca di Romagna.»

    «Ma sono territori della Chiesa!» esclamò Lucrezia.

    «Come no. Ma tuo padre ha già convinto con le buone maniere – come prova l’assassinio del cardinale Michiel – il collegio cardinalizio a conferire a Cesare il titolo di gonfaloniere della Chiesa. Così sembrerà che voglia riconquistare i territori in nome della Chiesa, ma quando vi avrà installato i suoi uomini lo nominerà duca di Romagna.»

    Lucrezia la guardò desolata. «Ancora guerra, e chissà cosa aspetta me, chissà chi dovrò sposare questa volta per fare il loro gioco. A volte penso che preferirei morire. Se non avessi mio figlio…»

    «Smettila, Lucrezia. Smettila di comportarti da femminuccia. Tu devi insistere affinché tuo padre paghi la dote che ha chiesto Alfonso d’Este per prenderti in moglie. Sarà la tua salvezza.»

    «Ma come posso amare uno sconosciuto che neppure mi vuole? Dopo essere stata innamorata del duca di Bisceglie che mio fratello ha ammazzato nel mio letto?»

    «Se non amerai lui, ti troverai un amante. La corte di Ferrara è piena di uomini belli e raffinati. L’importante è che tu vada via da questa fogna e dia al più presto un figlio all’erede degli Este.» Giulia all’improvviso scattò in piedi. «Stai prendendo le pillole che ti ho dato?»

    Lucrezia rimase in silenzio.

    «Dimmelo, le stai prendendo?» insistette brusca Giulia. «Lucrezia, non essere stupida. Quelle pillole serviranno a farti restare subito incinta. È la tua unica salvezza, devi andare via di qui.»

    «Sì, le sto prendendo. Lo sai che mi fido ciecamente di te.»

    Giulia tornò vicino al cofanetto con i gioielli poggiato sul tavolo. «E ricordati di mettere tutte le sere la pomata di semi di lino che ti ho dato. Hai un viso terribile. Vieni qua.» Tirò fuori una scatolina d’argento da un cassetto. «Prendi anche questa crema, è fatta con i gusci frantumati delle uova di quaglia, semi di girasole, verbena e grasso d’oca, schiarisce la pelle e copre le lentiggini. Bene, adesso prepariamoci. Sono già le dieci e tra poco inizieranno a prendere posto in Chiesa gli ambasciatori e le loro mogli. Dobbiamo andare a San Pietro.»

    «Ma è qui a due passi.»

    «Non possiamo arrivare correndo. Tu sei la figlia del papa e io la sua amante, almeno credo di esserlo ancora. Dobbiamo avere un contegno e un’eleganza inappuntabili. Gli sguardi della corte saranno tutti per noi. Per te in particolare. Io sono ormai la puttana di Pietro e sono maritata a quell’imbecille dell’Orsini. Devo solo pensare a mia figlia, ma tu… Gli occhi dell’ambasciatore di Ferrara saranno puntati su di te. Scriverà subito a Ercole d’Este: come eri vestita, come ti sei comportata, quanto è stato onorevole il tuo ingresso in chiesa.» Lucrezia sbiancò in viso. Non aveva nessuna voglia di sentirsi sotto esame anche la notte di Natale. Giulia invece riprese a parlare ancora più animata: quella sfida sembrava divertirla. «E poi c’è l’ambasciatore di Mantova, sai che quella pettegola di Isabella, la sorella del tuo futuro marito, non fa altro che sparlare di te. È uno dei maggiori ostacoli al tuo matrimonio. Perciò, coraggio. Vieni qua che ti metto un po’ di rosso in faccia. Devi sembrare la Vergine Maria quando salirai le scale di San Pietro. La basilica sarà illuminata a giorno e la navata è la più lunga del mondo. Dovrai percorrerla lentamente, molto lentamente. E soprattutto dovrai essere fiera di te. Devono convincersi che non hai nulla da nascondere. Tutte le nefandezze che dicono sul tuo conto sono inventate.»

    Lucrezia aveva di nuovo abbassato gli occhi.

    «Non importa se sono vere. Tu non ne hai colpa, capito? Quindi sono inventate. Ci mancherebbe altro che sentissimo il peso delle ignominie che ci hanno imposto, dei torti che abbiamo subito.»

    Un’ora più tardi facevano il loro ingresso nella navata centrale di San Pietro.

    Si fermarono sotto il grande portico e finsero di lanciare un’occhiata devota ai mosaici che Giotto aveva composto sotto le volte. Poi attraversarono l’immensa porta di bronzo e furono abbagliate dalle luci delle candele e dagli ori che ricoprivano gli altari. Sfilarono tra un’ala di folla a sua volta splendente come un unico gioiello. Per la notte di Natale la basilica di San Pietro si riempiva di bagliori come un forziere d’oro.

    Uomini di qualsiasi estrazione sussurravano ammirati dalla bellezza delle due dame. Donne di qualsiasi moralità si sforzavano di piegare le bocche in segno di scherno, ma non riuscivano a non tradire l’invidia per l’avvenenza e l’eleganza delle due peccatrici romane, alle quali chissà perché Nostro Signore aveva voluto

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