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Le donne del castello
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Le donne del castello

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TRE DONNE. IL CONFLITTO PIÙ DEVASTANTE DELLA STORIA. IL CORAGGIO DI RICOMINCIARE.

Dopo la disfatta della Germania nazista, Marianne von Lingenfels torna con i figli nell'antico castello che appartiene da sempre alla famiglia del marito, un'imponente fortezza su cui la guerra ha lasciato il segno. Vedova di un membro della resistenza ucciso durante il fallito attentato alla vita di Hitler, è decisa a mantenere la promessa che ha fatto agli altri cospiratori in tempi non sospetti: proteggere le loro mogli e i loro figli. Così attraversa la patria devastata dal conflitto per rintracciare il piccolo Martin e sua madre, la bellissima e ingenua Benita, e infine Ania e i suoi due bambini.
Marianne è convinta che basteranno le circostanze e il dolore comune a tenere insieme quella strana famiglia improvvisata, ma ben presto scopre che il mondo di un tempo, in cui tutto era bianco o nero, ora è diventato un posto molto più complicato, pieno di segreti e oscure passioni. E che per poter affrontare il futuro lei e le altre donne del castello devono venire a patti con le scelte fatte prima, durante e dopo la guerra e affrontare ciascuna i propri demoni.
LanguageItaliano
Release dateMay 25, 2017
ISBN9788858965405
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    Le donne del castello - Jessica Shattuck

    Tölle

    Prologo

    Burg Lingenfels, 9 novembre 1938

    Il giorno prescelto dalla contessa per la sua famosa festa del raccolto iniziò con una pioggia battente che accentuava le imperfezioni dell’antico castello dei von Lingenfels: le enormi macchie d’umidità sui muri, i pavimenti bagnati, il nerastro lucido della facciata un tempo gialla, che ricordava il colore di un coleottero. Nel cortile, le lanterne di carta e le ghirlande di spighe di grano s’erano afflosciate.

    Ormai era troppo tardi per annullare il ricevimento e Marianne von Lingenfels, nipote acquisita della contessa, impegnata nei preparativi per l’arrivo degli invitati, lo sapeva bene. Ora che la contessa era costretta su una sedia a rotelle, Marianne era diventata a tutti gli effetti la padrona di casa; una padrona di casa che avrebbe dovuto dare ascolto al marito e disdire l’evento la settimana prima. A Parigi, Ernst vom Rath giaceva in un letto d’ospedale, vittima di un attentato, e da Monaco i nazisti stavano diffondendo una frenesia di vendetta per tutto il Paese. E poco importava che prima dell’attentato nessuno avesse sentito parlare di vom Rath, un oscuro diplomatico tedesco, o che l’attentatore fosse un ragazzo di diciassette anni, o ancora che la sparatoria fosse stata essa stessa un atto di rivalsa: i famigliari dell’attentatore erano ammassati sul confine polacco con altre migliaia di ebrei, ebrei che erano stati espulsi dalla Germania, ai quali però era negato l’ingresso in Polonia. I nazisti tendevano a sorvolare sulle complessità dei fatti.

    Un motivo in più per riunire persone ragionevoli qui al castello, lontano dalla follia umana!, aveva sostenuto Marianne solo il giorno prima. Oggi, sotto la pioggia, le sue sembravano argomentazioni banali.

    Ma i festeggiamenti dovevano andare avanti. Così, Marianne curò il posizionamento di candele, fiori e tovaglie di lino, e si accertò che i fornitori riuscissero ad affrontare la fangosa salita per consegnare champagne, ghiaccio e burro, vasi di pesce conservato e carni affumicate, acqua potabile e bombole di gas per i fornelli. Burg Lingenfels era disabitato per buona parte dell’anno. Era privo di acqua corrente e aveva un generatore che bastava appena per il grammofono Victrola della contessa e alcuni fili di costose luci elettriche. Dare quel ricevimento era come portare la civiltà sulla luna. Ma quella sfida era parte del motivo per cui gli invitati continuavano a tornare tutti gli anni nonostante i costanti disastri: principi di incendio e crolli delle dépendance, eleganti berline che restavano impantanate nel fango e topi trovati nei letti degli ospiti che si fermavano a dormire. La festa era diventata famosa per la sua anarchica atmosfera ben poco tedesca. Era l’avamposto di una cultura liberale e bohémienne nel cuore della più rispettabile aristocrazia.

    A metà pomeriggio, con grande sollievo di Marianne, il vento si alzò, cacciando la tetraggine della giornata con raffiche di aria profumata che lasciava ben sperare. Persino le mura di pietra e l’acqua del fossato parvero fresche e pulite. In giardino, i crisantemi luccicavano illuminati dalle passeggere chiazze di sole.

    Marianne era rinfrancata. Davanti al forno, un architetto conoscente della contessa aveva trasformato un vecchio abbeveratoio per i cavalli in una fontana. L’effetto era allo stesso tempo magico e comico. Il castello era come un elefante vestito da fata.

    «Albrecht» chiamò Marianne entrando nella lunga biblioteca dal soffitto basso, dove il marito era seduto all’imponente scrivania che un tempo era stata del conte. «Devi venire a vedere… sembra un carnevale!»

    Lui alzò gli occhi, ancora concentrato sulla frase che stava componendo. Era un uomo alto con un viso dai tratti marcati, la fronte spaziosa e folte sopracciglia che davano l’impressione che fosse accigliato anche quando non lo era.

    «Solo per un attimo, prima che arrivino tutti.» Gli tese la mano. «Vieni. L’aria fresca ti schiarirà la mente.»

    «No, no, non ancora.» Il marito agitò una mano e riportò l’attenzione sulla lettera che stava scrivendo.

    Su, andiamo, lo avrebbe esortato Marianne in un’altra circostanza, ma quella sera preferì mordersi la lingua. Albrecht era un perfezionista ossessionato dal lavoro. Non sarebbe mai cambiato. Stava componendo una missiva per un suo vecchio conoscente della facoltà di legge che ora lavorava nel Foreign Office britannico e aveva chiesto più volte l’opinione di Marianne su alcune frasi. Meglio: L’annessione del Sudetenland sarà solo il principio: vi esorto a guardarvi dall’aggressione del nostro governo, oppure: Se non saremo vigili, le intenzioni aggressive del nostro governo saranno solo l’inizio?

    Il significato è identico, era stata la risposta di Marianne. Scegli quella che ti piace di più. Ma Albrecht era una persona riflessiva. Non aveva nemmeno notato l’irritazione del tono di lei. Le sue emozioni non erano mai complicate o meschine. Era il tipo d’uomo che rifletteva su grandi astrazioni come gli Inalienabili Diritti dell’Uomo o i Problemi della Democrazia mentre si faceva la barba. Questo lo rendeva indifferente alle cose di tutti i giorni.

    Marianne si limitò a un sospiro eloquente, si girò e lo lasciò al suo lavoro.

    Quando tornò nella sala del banchetto, la contessa stava rimproverando uno dei suoi giovani discepoli dalla sedia a rotelle. «Non Schumann. Dio ce ne scampi! Tanto varrebbe suonare Wagner… No, qualcosa di italiano. Qualcosa di abbastanza decadente da scandalizzare qualunque idiota in camicia bruna metta piede qui stasera.»

    Nonostante l’età avanzata, la contessa era una ribelle che poteva vantare un folto seguito di artisti e gente di mondo. Francese per nascita, tedesca per matrimonio, era sempre stata una figura controversa. Quando era più giovane, aveva ospitato salotti serali famosi per i balli improvvisati e le discussioni intellettuali su argomenti audaci come l’arte moderna e la filosofia francese. Perché avesse sposato il dignitoso, reazionario conte, un uomo di vent’anni più vecchio di lei e noto per il vezzo di addormentarsi al tavolo da pranzo, era oggetto di speculazioni non troppo generose.

    Marianne, che era il prodotto di un’oppressiva e onorata educazione prussiana, aveva sempre ammirato la contessa. La donna non aveva remore ad andare oltre il suo ruolo di madre e di Hausfrau, padrona di casa, per gettarsi nella mischia del potere maschile e della vita intellettuale. Diceva ciò che pensava e faceva a modo suo. Sin dal loro primo incontro, avvenuto svariati anni prima, quando era una giovane studentessa universitaria che frequentava il suo professore, Albrecht, Marianne aveva desiderato diventare una donna come la contessa.

    «È un incanto, là fuori.» Marianne fece un cenno in direzione del cortile. «Monsieur Pareille è un mago.»

    «È un artista, vero?» convenne la contessa.

    Erano quasi le sei. I primi invitati sarebbero arrivati a minuti.

    Marianne corse di sopra fino alla gelida infilata di stanze: le sue bambine stavano rintanate in un antico letto a baldacchino, una reliquia del passato feudale del castello. Il suo figlioletto di un anno, Fritz, era rimasto a casa a Weisslau con la balia, grazie al cielo.

    «Mamma!» strillarono deliziate Elisabeth, di sei anni, e Katarina, di quattro. Elfie, la loro dolce, mite ragazza alla pari, guardò Marianne come se fosse sotto assedio.

    «È vero che ora Hitler si riprenderà la Polonia?» chiese Elisabeth, saltellando sul materasso.

    «Elisabeth!» esclamò Marianne. «Come ti è venuta un’idea simile?»

    «Ho sentito Herr Zeppel dirlo a papà» rispose la bambina, continuando a rimbalzare.

    «No.» Marianne scosse la testa. «E comunque, non mi pare una cosa eccitante. Significherebbe guerra!»

    «Ma dovrebbe essere nostra.» Elisabeth mise il broncio, smettendola di saltare. «E poi, Herr Zeppel ha detto che i polacchi non ce la fanno da soli.»

    «Sciocchezze» ribatté Marianne, irritata dal fatto che il marito avesse lasciato che la bambina ascoltasse una conversazione del genere. Zeppel era il sovrintendente della loro tenuta in Slesia e un fervente nazista. Albrecht tollerava le sue idee politiche perché erano cresciuti insieme: Weisslau era una piccola cittadina.

    «Ma era nostra, vero?» insistette Elisabeth. «Prima della guerra?»

    «Elisabeth.» Marianne sospirò. «Preoccupati di ciò che è tuo, per favore… e ciò include il libro che dovresti leggere con Elfie in questo momento.»

    La bambina esasperava Marianne con la sua ossessione per il possesso. Sembrava che avesse assorbito il nazionale senso di risentimento, come se lei, personalmente, fosse vittima di una grande ingiustizia. Aveva tanti privilegi, ma voleva sempre di più… un vestito più nuovo, una gonna più bella. Se riceveva un coniglio, voleva un cane. Se le era concesso un bonbon, ne voleva due. Per come la vedeva lei, il mondo intero era a sua disposizione. Marianne, che era stata educata all’insegna di valori quali la parsimonia e la moderazione, non si capacitava di aver potuto generare questa esigente, presuntuosa creatura.

    «Elfie…» Si girò verso la ragazza alla pari. «Si assicurerà che le candele vengano spente alle otto, vero? Le bambine possono scendere fino al ballatoio, ma non oltre. E questo è quanto.»

    «Ma…» iniziò a protestare Elisabeth. Marianne le lanciò un’occhiata severa.

    «Buonanotte» augurò, dando un abbraccio alla dolce, bruna Katarina e posando un bacio sulla fronte aggrottata dell’esasperante Elisabeth.

    Mentre scendeva, Marianne si fermò un attimo sul ballatoio a osservare il salone sotto di lei e i suoi archi di pietra illuminati dai candelabri. I primi invitati cominciavano ad arrivare: la maggior parte degli uomini indossava gilet e giacche a coda, alcuni invece si erano presentati con le nuove, sgargianti divise sulle quali facevano bella mostra le insegne naziste cucite sul bavero; le donne erano inguainate in sfavillanti abiti da sera, tutti all’ultima moda. Sotto Hitler, l’economia era decollata: le persone avevano di nuovo denaro per sete, velluti e i più recenti modelli parigini. Da una poltrona simile a un trono, al centro della sala, la contessa accoglieva gli ospiti; la sedia a rotelle era stata accuratamente nascosta per la serata. Sembrava una montagna di seta azzurra e verde, colori che nessun’altra donna tedesca della sua età, o di qualunque altra, avrebbe osato portare. Quella risata robusta mal si addiceva a una persona dalla salute cagionevole… Era mai esistita una donna che amasse tanto le feste? E lì, a inchinarsi davanti a lei, c’era l’uomo che aveva suscitato quella risata: Connie Fledermann. Marianne ebbe un tuffo al cuore. Chi altri avrebbe potuto ricevere un tale benvenuto? Connie era tra i favoriti della contessa. Era un uomo di grandi meriti, uno che si faceva amare da tutti per il carattere forte, l’acume e l’intelligenza: dalle signore che subivano il suo fascino agli uomini che si fidavano di lui e lo onoravano delle proprie confidenze. Nessuno, dall’ultranazionalista Hermann Göring al più diplomatico George Messersmith, era immune al suo carisma.

    «Connie!» lo chiamò Marianne, avvicinandosi.

    Lui si girò e un sorriso gli illuminò il volto.

    «Ah! La donna che stavo aspettando!» Si portò la mano di lei alle labbra. «Sei bellissima.» Lanciò un’occhiata verso il ballatoio. «Potrò salutare le mie principessine o le hai messe a letto?»

    «A letto.» Marianne rise. «Spero.»

    «Ahimè.» Lui si posò un palmo sul cuore e finse uno svenimento. «Bene, almeno posso vedere la regina madre. Vieni…» Allungò un braccio. «Voglio presentarti la mia Benita!»

    Il sorriso di Marianne si irrigidì. Nella concitazione dell’ultima settimana, le era passato di mente. Martin Constantine Fledermann stava per sposarsi. Sembrava impossibile. Anche se la data era stata fissata (due settimane da oggi!), lei aveva ancora la sensazione che quell’unione fosse uno scherzo durato troppo a lungo.

    Ma lui era serio, addirittura nervoso, mentre la prendeva per un gomito. «Devi esserle amica. Non conosce nessuno. Le ho detto che saresti stata la sua alleata. E…» Si girò verso Marianne. «Sai meglio di me che ne avrà bisogno, qui.»

    «Perché dici questo?» domandò lei. «Siete fra amici.»

    «Io sì» ammise Connie. «Ma non lei.»

    Marianne aggrottò la fronte a quella sottile distinzione, ma non ci fu tempo per le spiegazioni: a un tratto eccola lì, la Benita di Connie, una ragazza di una bellezza singolare, quel genere di volto nordico, un po’ piatto, che emanava placidità. Portava i capelli biondi raccolti in una treccia appuntata intorno alla testa nello stile tanto amato dai nazisti, una Brunilde wagneriana in un tradizionale abito Dirndl. Stava fra due giovani uomini che lavoravano con Albrecht agli Affari esteri, entrambi dall’aria deliziata. Marianne provò un’insolita fitta di gelosia. Non che invidiasse la bellezza o l’aura di sensualità della giovane donna – lei stessa molto tempo prima era stata oggetto di attenzioni maschili – ma in quel momento, in compagnia di quei tre uomini… due sciocchi ragazzi sovraeccitati e un caro amico, il fidanzatino dell’infanzia, un luminare dell’opposizione… la bellezza dell’altra la sconfortò. A trentuno anni, Marianne si sentì come un’adulta in una recita infantile, una maestra fra scolaretti euforici.

    «Scusate, signori» disse Connie, scostando in maniera plateale uno di loro. «Devo portarmela via.» Posò una mano sul braccio di Benita e la attirò verso Marianne. «Amore mio» le disse – che strano sentirglielo pronunciare – «ti presento la mia… come posso chiamarti?» Guardò Marianne. «La mia più vecchia amica, la mia più severa consigliera, la persona che mi mantiene un uomo probo?»

    «Oh, che sciocchezze, Connie!» esclamò Marianne, cercando di contenere l’irritazione. «Marianne» si presentò, tendendo la mano alla giovane donna che, valutò, non doveva avere più di vent’anni.

    «Grazie.» La ragazza batté le palpebre come una cerbiatta spaventata. «È un piacere conoscervi.»

    Nel frattempo altri invitati stavano arrivando e Marianne li sentiva intorno a sé, mani da stringere, saluti da scambiare, argomenti politici da sviscerare. Scorse Greta von Viersdahl, che cercava di intercettare il suo sguardo; da quando Hitler aveva dato il via all’invasione, Greta non parlava d’altro che degli indumenti invernali che stava raccogliendo per i tedeschi dei Sudeti, così recentemente tornati alla madrepatria, così a lungo oppressi dagli slavi… Marianne non aveva voglia però di farsi coinvolgere in quei discorsi. Impulsivamente, prese a braccetto Benita. «Dacci un’opportunità di fare amicizia» disse a Connie voltandosi e guidando la giovane verso la porta posteriore che dava sul cortile rischiarato dalle lanterne.

    «Che meraviglia!» esclamò Benita.

    «Sì, vero?» convenne Marianne. «È fiabesco. La contessa von Lingenfels ha un talento per gli effetti speciali.»

    Benita annuì, guardandosi attorno con gli occhi sgranati.

    «Parlatemi di voi prima che ci travolgano gli ammiratori» esordì Marianne. «Il viaggio è andato bene? Avete trovato la vostra stanza?» Snocciolò tutte le domande necessarie, ascoltando le risposte con un orecchio solo.

    Sentiva gli sguardi degli ospiti su di sé. «Ricordatemi come avete conosciuto Connie.» Prese due calici di champagne da un tavolo e ne porse uno a Benita, che lo accettò senza ringraziare.

    «Ci siamo incontrati nella piazza della mia città. Io mi trovavo là con la mia sezione della Bund Deutscher Mädel…»

    «Santo cielo! La Lega delle Ragazze Tedesche? Ma quanti anni avete?» esclamò Marianne.

    «Oh no, non quella per le bambine… quella per le più grandi, la Fede e Bellezza. Ho diciannove anni.»

    «Ah.» Marianne le diede un colpetto sul braccio. «Piuttosto anziana.»

    La ragazza le lanciò un’occhiata perplessa.

    «Non sono deliziosi?» Marianne indicò i crisantemi bianchi e gli scuri anemoni autunnali disposti nei vasi lungo la balaustra. Sopra le loro teste, nuvole chiare attraversavano il cielo del crepuscolo. E, in lontananza, i boschi sembravano color inchiostro. «Dunque, la piazza della città…»

    Benita bevve un sorso di champagne e tossì. «Non c’è molto da dire. Ci siamo incontrati, abbiamo parlato, siamo usciti a cena.»

    Marianne posò il bicchiere su un muretto. «E ora state per sposarvi.»

    «Se lo dite così…» Benita esitò. «Suona strano.»

    Marianne sorrise e piegò la testa di lato, aggrottando le sopracciglia. Aveva imparato dalla contessa quell’espressione scrutatrice che le si era rivelata utile per estorcere confessioni e spiegazioni da bambini, membri della famiglia e persino adulti.

    Ma con Benita non sortì l’effetto desiderato. Anzi, la ragazza parve farsi coraggio e raddrizzò le spalle. «C’è stata una frequentazione, fra una cosa e l’altra.»

    «Ovviamente» s’affrettò ad annuire Marianne. Perché quel tono da interrogatorio? Benita sarebbe diventata la moglie di Connie. Non doveva partire col piede sbagliato, non le avrebbe giovato. «Scusatemi, non volevo impicciarmi… Venite.» Si guardò attorno nel cortile che si stava rapidamente riempiendo e, con un certo sollievo, scorse Herman Kempel, uno dei sempliciotti che erano parsi così incantati dalla giovane prima. «Andiamo a parlare col suo più recente ammiratore.»

    Col calar della notte, la serata prese una piega frivola e irrequieta. Una comica figura in Lederhosen – i tradizionali pantaloni corti di cuoio – e calzettoni al ginocchio suonava la fisarmonica (un musicista ingaggiato dalla contessa o uno del paese?), e gli invitati si cimentavano in danze folcloristiche sui ciottoli irregolari. Le donne finirono persino per togliersi le scarpe, malgrado il freddo. All’interno, il trio jazz americano che la contessa aveva invitato era finalmente arrivato, e stava suonando il ragtime, mentre alcuni degli ospiti più audaci e cosmopoliti si esibivano in balli dai nomi sciocchi, quali il Big Apple e il Lindy Hop. In qualche modo, nonostante i fornelli improvvisati e l’assenza di acqua corrente, lo chef faceva uscire dalla cucina un flusso costante di prelibatezze tradizionali: polpettine di maiale con una delicata salsa al prezzemolo, gonfi ravioli bianchi cotti al vapore, bocconcini di salsiccia con patate. Ma c’erano anche delle innovazioni: asparagi avvolti in sottilissime fette di prosciutto, budini di gelatina, ananas flambé, tartine al caviale… Come la musica, anche il cibo era eclettico.

    Marianne si muoveva fra gli invitati trasognata, non per l’alcol – la padrona di casa non beveva mai più di un bicchiere di punch, anche questo aveva imparato dalla contessa – ma per il sollievo. Era riuscita a portare avanti la sontuosa tradizione della festa del raccolto, nonostante la nazione fosse attraversata da questa ventata di rigida, irascibile militanza. Ed era riuscita a passare sopra anche alla sua stessa educazione (quanto sarebbe stato mortificato suo padre nel sapere che aveva dato un party con musica jazz e champagne!), regalando ai suoi ospiti una serata piacevole, liberatoria ed eterea.

    Rinfrancata da quel pensiero, intratteneva gli invitati, controllava i liquori del bar, il cibo sul buffet. «La contessa junior!» esclamò un gioviale, garrulo cugino della contessa, posandole un braccio pesante sulle spalle. «Che party! Ma dov’è il tuo stimato sposo? E quegli intellettualoni dei suoi amici? È un’ora che non vedo nessuno della cricca! Si sono rintanati da qualche parte per una riunione d’élite senza il buon vecchio Jochen?»

    «Ma no, ma no.» Marianne lo congedò con un bacio sulla guancia. E tuttavia la sua era una buona domanda. Dove era finito Albrecht? E Connie, e Hans, e Gerhardt Friedlander? Ora che ci pensava, era da un po’ che non vedeva nessuno di loro. Albrecht probabilmente li aveva portati in biblioteca per sottoporre anche a loro la sua lettera. Quel pensiero la irritò. A volte avvertiva la sobrietà di Albrecht, la sua capacità di concentrarsi sul quadro generale, ignorando ciò che aveva sotto il naso, come un rimprovero. Aveva ragione, ovviamente. Il povero Ernst vom Rath giaceva in un letto d’ospedale e migliaia di ebrei dormivano all’addiaccio sul confine. La Germania era guidata da un gracchiante sobillatore, intenzionato a coinvolgere altre nazioni in un conflitto e a rendere la vita impossibile a masse di cittadini innocenti. E loro erano lì, a bere champagne e a ballare sulle note di Scott Joplin.

    Innervosita e sulla difensiva, fece irruzione nello studio di Albrecht, dove… sì, lì si erano rifugiati tutti gli invitati che erano spariti. C’erano Albrecht e Connie, Hans e Gerhardt, Torsten Frye e l’americano, Sam Beverwill, e alcuni altri che, come Connie, erano ufficiali di Stato maggiore nell’Abwehr, il servizio di intelligence militare.

    «E questo cos’è?» chiese, cercando di mantenere un tono leggero. «Un party segreto per persone serie? La contessa non sarà contenta di sapere che vi siete nascosti nello studio invece di ballare.»

    «Marianne…» iniziò Albrecht.

    «Albrecht! Lascia che i tuoi ospiti si godano la serata…»

    Mentre parlava, notò una persona nuova nel gruppo: un uomo basso di statura, con i capelli scuri, stempiato, il viso bonario di una strana intensità. Nella stanza si respirava un’aria pesante e i volti rimasero gravi e impassibili anche dopo l’ingresso di Marianne.

    «Scusate» disse allo sconosciuto. «Non credo ci abbiano presentati.»

    «Pietre Grabarek.» L’uomo si fece avanti e le tese la mano. Un polacco. Sia Albrecht che Connie avevano molti contatti nel partito nazionale polacco.

    «Marianne von Lingenfels. La moglie del vostro pacato ospite» precisò, con un piccolo cenno in direzione di Albrecht.

    «Marianne…» intervenne Albrecht. «Pietre è arrivato da Monaco con delle notizie allarmanti. Questa sera…»

    «Vom Rath è morto?» Avvertì un brivido gelido.

    Albrecht annuì. «Ma non è tutto.»

    A un tratto Marianne si sentì a disagio al centro di quel gruppetto di uomini che spiavano la sua reazione. Non era abituata a trovarsi in quella posizione. Quella della donna ignorante.

    «Pare che Goebbels abbia dato ordine alle SA di istigare la sommossa, con la distruzione delle proprietà degli ebrei. Stanno tirando pietre contro le vetrine dei negozi, saccheggiano, si divertono a…»

    «Non è un divertimento… è una battaglia! Un attacco organizzato!» lo interruppe l’uomo.

    «… a distruggere la vita delle persone.»

    «Terribile!» esclamò Marianne. «E Lutze lo ha permesso? Cosa significa questo?» Lutze era il capo delle SA, le squadre d’assalto del nuovo regime, un uomo sgradevole che lei aveva incontrato da poco e che le aveva ispirato antipatia.

    «Pare di sì» rispose Albrecht.

    Ci fu uno scambio di occhiate.

    «È una discesa all’inferno… Hitler è proprio il folle che sospettavamo!» esclamò Hans, ma nessuno gli prestò attenzione. Era un dolce, sciocco ragazzo. Ci sono pensatori e ci sono uomini d’azione, aveva detto una volta Connie. Hans è un uomo d’azione. Albrecht aveva rifiutato quella dicotomia, riduttiva e poco flessibile. L’azione doveva seguire il pensiero e il pensiero doveva includere un attento processo decisionale. Ma non era quello il modo di pensare di Connie. Era più uomo d’azione anche lui, e le sue opinioni, pur informate e consapevoli, erano raramente meditate e sempre assolute.

    «Tutto questo significa infamia per la Germania, agli occhi del mondo» disse Albrecht.

    Si sollevò un generale mormorio d’approvazione.

    «Significa anche sofferenze» intervenne Connie. «Per tante, troppe persone…»

    Il silenzio calò sul gruppo mentre dalle finestre piombate arrivavano echi di risate e note di fisarmonica.

    «E significa che i cittadini ragionevoli devono intervenire.» rincarò. «Non siamo tutti bruti e malvagi. Ma lo diventeremo, se non tentiamo di cambiare le cose.»

    Era un’affermazione molto audace, quasi una sfida, e Marianne spiò la reazione dei vari uomini mentre registravano le implicazioni di quelle parole. Hans annuì enfaticamente, affascinato. Eberhardt von Strallen, che chiaramente disapprovava discorsi così avventati, si stava spolverando il bavero. Albrecht era accigliato e pensoso.

    «È nostro dovere» insistette Connie. «Se non ci attiviamo per fermare Hitler, la situazione può solo peggiorare. Quest’uomo, questo fanatico che si definisce la nostra guida, rovinerà tutto ciò che abbiamo ottenuto come nazione unita. Se non cominciamo a mobilitare contro di lui persone che la pensano come noi, se non iniziamo ad attivare i nostri contatti all’estero… gli inglesi, gli americani, i francesi… ci trascinerà in una guerra, e peggio. Se ascoltate le cose che quest’uomo dice… se le ascoltate davvero, e le leggete… è tutto là in quel suo odioso libro, Mein Kampf; il suo intento è di trasformarci in animali! Leggete, leggete bene… Bisogna conoscere il nemico! La sua visione è arcaica! Forse peggio, anarchica! Che la vita non sia altro che una lotta tra le razze per contendersi le risorse… questa Razza superiore di cui gli piace parlare e i profili razziali che ha concepito… questi sono gli strumenti che userà per dividerci e conquistare.»

    Marianne conosceva le idee di Connie. Quante volte avevano discusso fino a tardi la sera intorno al fuoco, a Weisslau? Hitler era un folle e un criminale, su questo erano tutti d’accordo. Era chiaro sin dal Putsch di Monaco. Connie, come Albrecht, aveva passato una buona parte degli ultimi anni ad assistere le vittime dei nazionalsocialisti: ebrei che volevano emigrare, comunisti incarcerati, artisti le cui opere erano state bandite. Senza legge, diceva sempre Albrecht, siamo come scimmie. Il suo lavoro consisteva tanto nel difendere la legalità quanto nel vincere ogni singola causa.

    Ma Connie aveva rinunciato alla legge, castrata com’era sotto i nazisti. Era un dissidente nato, un fautore dell’azione diretta. Era uno degli aspetti che più piacevano a Marianne: lui era il suo compagno di giochi dell’infanzia, il suo più caro amico e l’uomo che più ammirava… a parte Albrecht, ovviamente. Era sempre stato un agitatore, un appassionato paladino di ciò che riteneva giusto. Da bambini, lui e Marianne avevano passato le estati con le loro famiglie sul mar Baltico, e Connie era stato il promotore di campagne contro l’ingiustizia, sempre impegnato a denunciare la crudeltà del portiere d’albergo verso i cani o i pregiudizi infondati che scopriva nei genitori. E di solito riusciva nel suo intento, grazie alla pura forza di carattere e alla sua risolutezza.

    «… Dobbiamo trovare dei modi per ostacolarlo» stava dicendo Connie ora. «Non solo per portare all’attenzione del mondo le sue orrende aspirazioni, ma per noi stessi. Se ce ne stiamo seduti a giudicare dalla sicurezza delle nostre scrivanie, la colpa ricadrà anche su di noi. Quindi, propongo che, da oggi, ci impegniamo in una resistenza attiva. Per tentare di far deviare il nostro Paese rispetto al sentiero di distruzione che gli sta facendo imboccare Hitler.»

    Connie aveva finito. Aveva l’attaccatura dei capelli imperlata di sudore e il fiato corto.

    Fra gli uomini riuniti si diffusero mormorii e cenni affermativi.

    «Sono d’accordo col principio» disse Albrecht lentamente. «Ma un’attiva opposizione contro il nostro governo… contro questo governo… è una cosa pericolosa. E abbiamo mogli e famiglie a cui pensare. Non sto dicendo che non dovremmo farlo, soltanto che dobbiamo rifletterci bene…»

    «Le vostre mogli e le vostre famiglie vi appoggeranno» lo interruppe Marianne, sorprendendo se stessa e il resto della sala. Era suonato come un rimprovero. Albrecht era sempre così misurato, lento, riflessivo. Una tartaruga che avanza laboriosa in confronto al cervo scattante che era Connie.

    «Tutte?» domandò von Strallen beffardo.

    «Tutte» assicurò Marianne. Von Strallen era un maschilista. A sua moglie, Missy, non diceva nulla e non la portava da nessuna parte. Povera Missy, trattata come una stupida mucca grassa.

    «E correranno il rischio?» chiese Albrecht con tono gentile.

    «Correranno il rischio» gli fece eco Marianne.

    «Perfetto» approvò Connie, fissandola intensamente. «Allora ti assicurerai che stiano bene. Sei nominata Comandante delle mogli e dei bambini.»

    Marianne sostenne il suo sguardo. Comandante delle mogli e dei bambini. Sapeva che lui non aveva avuto intenzione di sminuirla, ma quella frase le bruciò come uno schiaffo.

    La riunione, se di questo si trattava, si sciolse, e, con un senso di irrealtà, Marianne tornò nel salone e riprese i suoi compiti di padrona di casa. Le arrivavano all’orecchio frammenti di conversazioni, il trio jazz continuava a suonare e sulle scale qualcuno recitava Cicerone in latino.

    Ma fuori, oltre le mura del castello, stavano succedendo cose atroci. Marianne immaginò le brutali Camicie brune di Hitler battere le strade con la loro andatura spavalda e terrorizzare la gente. Li aveva visti marciare in una parata quell’estate, a Monaco. All’improvviso due uomini si erano staccati dalla formazione ed erano corsi verso di lei sul marciapiede. Per un attimo era rimasta impietrita dalla paura di essere attaccata: ma per quale motivo? Invece, loro avevano buttato a terra uno studente universitario accanto a lei e lo avevano preso a calci mentre quello si rannicchiava in posizione fetale per proteggersi dai lucidi stivali neri che gli colpivano ripetutamente la schiena. Era successo tutto così in fretta che Marianne non era riuscita a fare altro che guardare. Perché? Cosa ha fatto?, aveva chiesto a un uomo quando le SA se n’erano andate. Non ha alzato la mano per un adeguato Heil, aveva bisbigliato l’uomo, mentre si chinava ad aiutare il povero studente a tirarsi su da terra.

    Per giorni e giorni, Marianne aveva continuato a pensare ai volti di quegli uomini che correvano verso di lei: comuni facce di mezz’età appiattite e istupidite dalla violenza.

    «Cosa c’è? Sembra che tu abbia visto un fantasma» disse Mimi Armacher, strappandola a quel ricordo. Mimi era una donna dolce, una lontana cugina di Albrecht che a Marianne era sempre piaciuta.

    «Ho appena saputo…» Marianne esitò. Come definirlo? Era un atto che apparteneva a tempi meno civilizzati, un ambito di cui lei non conosceva il lessico. «Abbiamo avuto notizia che ci sono dei disordini a Monaco… le SA picchiano gli ebrei, distruggono le loro proprietà…»

    «Notizia?» ripeté Mimi, come se fosse questa la cosa incomprensibile.

    «Da un amico di Connie che è appena arrivato» spiegò Marianne.

    «Oh, che faccenda terribile.» Il viso di Mimi sbiancò. «In tutte le grandi città?»

    Altre persone si erano aggiunte formando un capannello intorno a loro. Ai margini del gruppo Marianne notò Berna e Gottlieb Bruckner, e Alfred Klausner, amici ebrei la cui posizione, in Germania, si faceva sempre più difficile. Generazioni di integrazione all’improvviso non contavano più e li rendevano simili agli ebrei immigrati dall’Est che Hitler era determinato a deportare. Nessuno era più al sicuro.

    A un tratto Marianne si sentì sfinita. «È ciò che ho inteso.»

    «Distruggono le proprietà?» chiese qualcuno. «A caso?»

    «Le proprietà degli ebrei» affermò Mimi con raggelante precisione. «Solo proprietà ebree.» Si girò verso Marianne. «Non è ciò che hai detto?»

    Marianne la fissò. «Non lo so.» Raddrizzò la schiena. «Ha importanza? Il nostro governo sta sguinzagliando bande di violenti.»

    «È l’inizio della fine» sentenziò teatralmente la contessa quando seppe di tutta quella devastazione, che in seguito sarebbe stata chiamata Notte dei cristalli. «Quell’austriaco rovinerà questo Paese.»

    Detto ciò, se ne andò a letto.

    Marianne invidiava la sua libertà. Lei avrebbe dovuto portare quel ricevimento sino alla sua amara conclusione.

    A mano a mano che le notizie si diffondevano, gli ospiti con ruoli governativi o con ragguardevoli proprietà nelle città vicine si congedarono precipitosamente e scesero la collina affrontando le curve come ubriachi, suonando il clacson e facendo lampeggiare i fari. Furono seguiti, con modi più sobri, dai pochi invitati ebrei. Alcuni idioti curiosi partirono per la vicina cittadina di Ehrenheim, per vedere fin dove si fossero diffusi i disordini.

    Accanto alla fontana dello champagne, Gerhardt Friedlander discuteva con gli Stollmeyer, due gemelli un po’ brilli dalla faccia rubizza che erano devoti nazisti. La folla innervosita aveva fatto il vuoto intorno a loro.

    «La cospirazione della comunità ebraica mondiale non si fermerà all’assassinio di vom Rath» strepitava uno degli Stollmeyer. «Dobbiamo agire contro di loro…»

    «Che idiozia» sbottò Gerhardt. «Vom Rath è stato ucciso da un diciassettenne disturbato, non da una cospirazione.»

    «Un diciassettenne disturbato che era un ebreo e un bolscevico» ribatté l’altro. «Uno che voleva distruggere l’orgoglio e l’unità del Volk tedesco…»

    Marianne non poteva ascoltare oltre. Queste farneticazioni naziste erano ovunque, pronte per essere adottate dagli ignoranti come gli Stollmeyer. Come avevano fatto quei due a essere inclusi nella lista degli invitati? Grazie a Dio c’era Gerhardt a rimetterli al loro posto.

    Nel salone, il trio jazz era sparito (erano tornati a Berlino? Ma erano stati pagati?), e qualche stolto aveva messo sul Victrola un disco di marce naziste, con l’unico risultato di diventare il bersaglio di una raffica di Frikadellen, le polpette calde che lo chef aveva appena fatto portare. I curiosi che si erano recati a Ehrenheim tornarono e parvero quasi delusi nel riferire che no, non stava accadendo proprio nulla. Che cosa si aspettavano? Era una cittadina bavarese rigorosamente, ostinatamente cattolica. Non c’era un solo

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