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Il mio amico Nepal
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Il mio amico Nepal

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Un lupo alpinista. Le montagne e la vera libertà.
Nell'estate 2018, Andrea Scherini e il suo lupo cecoslovacco Nepal scalano in poche settimane diverse cime oltre i 4000 delle Alpi Pennine, e raggiungendo Punta Zumstein (4563m) conquistano il record europeo di altitudine mai raggiunta da un cane. L'impresa si diffonde su tutti i media e Nepal diventa un beniamino dei social: per tutti è il “cane alpinista”.
Questa è una grande storia di amicizia a sei zampe e dall’estate del 2015 i due sono inseparabili in mille incontri e lezioni di vita. Nepal che scala a 3 mesi i primi 2000. Nepal che salva la madre di Andrea ferita in un bosco. Nepal che sta vicino al suo amico quando finisce un grande amore. Nepal che aiuta un bambino chiuso al mondo a causa delle sue sofferenze. Nepal che sorprende tutti salendo oltre i 4000, e fa capire al suo padrone che la felicità non è nel raggiungere la cima, ma nella gioia di arrivarci. Perché la vera libertà non è seguire traguardi sempre più alti, ma essere tutt’uno con le tue conquiste. La vera storia del cane alpinista che ha scalato il Monte Rosa, oltre i 4500 metri, ottenendo il record europeo, e che adesso punta al Monte Bianco. E soprattutto, la storia di una grande amicizia in cui un cane supera ogni limite per amore del suo amico uomo a cui ha tanto da insegnare.
LanguageItaliano
Release dateNov 14, 2019
ISBN9788830505599
Il mio amico Nepal
Author

Andrea Scherini

ANDREA SCHERINI, valtellinese, 26 anni, appassionato di montagna fin da piccolo, si definisce un “alpinista amatoriale”: nel suo curriculum oltre 100 cime conquistate, tra cui spiccano undici 4.000. È iscritto all’Albo professionale delle Guide Alpine come accompagnatore di media montagna. SALVATORE VITELLINO lavora nell’editoria da vent’anni. È stato autore televisivo e ha al suo attivo diverse pubblicazioni. NEPAL è un cane lupo cecoslovacco di 4 anni, compagno di vita, avventure e scalate di Andrea. Nell’estate del 2018 diventa il “cane più alto d’Europa” grazie alla conquista di Punta Zumstein. Alto 73 cm e con un peso di circa 38 kg, Nepal ha anche vinto numerose gare internazionali di bellezza. Come il suo padrone, è volontario alla Protezione Civile.

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    Il mio amico Nepal - Andrea Scherini

    d’America

    Prologo

    NON TIRARE LA CORDA

    Quanto monotona sarebbe la faccia della Terra senza le montagne.

    Immanuel Kant

    Guardare le orme sulla neve, lungo la stretta cresta che collega il Breithorn occidentale con quello centrale, in una giornata di sole abbagliante, con nient’altro intorno che cielo… fa pensare che il paradiso deve essere qualcosa di simile, un luogo in cima alla Terra a cui ascendere.

    Guardo i miei compagni di cordata, uno davanti e due dietro, la nostra corda gialla, gli zaini colorati, le tante orme fitte sulla neve, unica traccia dei pochi umani su questo picco delle Alpi fra Italia e Svizzera, e mi sembra di galleggiare in un mare di candore, nuvole schiumose, sole bianco… e creste spumeggianti, come immense onde di roccia pietrificate.

    E mentre scendiamo seguendo la sottile curva di questo lungo, gigantesco cavallone di neve, in fila indiana, resto incantato a guardare le cime più alte del massiccio del Monte Rosa, a sinistra della punta del Breithorn centrale, il Lyskamm alle sue spalle, il Castore e il Polluce appena a destra.

    Sembrano onde appuntite di un mare in tempesta, con esplosioni di nuvole dal bianco abbagliante a far da cornice. Mi ha sempre affascinato vedere come la Natura abbia plasmato immense masse di roccia con un disegno di creste una di fronte all’altra, così come la forza del vento plasma il corpo dell’oceano piegando immense masse d’acqua. Se guardi le foto che immortalano l’istante perfetto dell’apice del rigonfiamento delle grandi onde oceaniche, per quanto pensiamo che le onde siano tutte uguali e che non abbia senso distinguerle, in realtà nel momento in cui raggiungono la loro altezza estrema ogni onda ha un suo corpo, un suo volto, il suo destino in quella forma. Così mi piace immaginare le catene montuose, onde vecchie milioni di anni che non si muovono più, come se quella foto fosse stata congelata per sempre da qualcuno soddisfatto del capolavoro che aveva appena creato.

    Ci aspetta una mezz’ora di camminata su questo crinale che curva a sinistra e risale per impennarsi in un ciuffo diagonale come le onde dipinte da Hokusai. Guardo le minute sagome degli alpinisti in coda in questo stretto passaggio di mezzo metro: macchie nere in questa grande coperta soffice e bianca che ricade ripida da un lato e l’altro del Breithorn. È risaputo fra gli alpinisti che questa cima del massiccio del Monte Rosa è un 4000 facile, forse addirittura il più facile, il primo che si consiglia a chi vuole avvicinarsi a questo mondo. È vero, perché la funivia ti porta oltre i 3400 e da lì segui una dolce salita lungo il vasto ghiacciaio della Verra, che solo sul finale diventa più ripida inerpicandosi verso la vetta, e disegnando sul versante sud della montagna un’enorme zeta che taglia in diagonale quell’infinito manto bianco. Ma se decidi di non fermarti e percorrere la cresta che collega il monte occidentale con quello centrale, le cose cambiano…

    Lì, in quel crinale appuntito i cui pendii laterali superano anche i cinquanta gradi, se metti un piede in fallo e scivoli nessuno ti ferma più. L’unica speranza di salvezza, se rotoli giù, è che il tuo compagno sia pronto a buttarsi verso il baratro dall’altro lato per cercare di trattenerti col suo peso. Certo ci vuole coraggio, freddezza, e una buona dose di riflessi pronti.

    Ti guardo, amico mio, mi precedi sicuro e coraggioso in quest’avventura per te assolutamente nuova. Guardo più in là, le punte Gnifetti e Zumstein del Monte Rosa, l’anno prima le avevo raggiunte con due colleghi, gli stessi che adesso ci stanno accompagnando, e fantastico sul fatto che sarebbe bello raggiungerle con te, il mio amico speciale. Poi ho un attimo di apprensione. Mi ricordo che siamo sopra i 4000 metri, in bilico fra due pareti ripide che precipitano verso ghiacciai millenari. Ho un attimo di vertigine pensando al rischio. Le condizioni di sicurezza sono calcolate, lo so. Se cadi tu, che pesi poco, io ti tengo. Se cado io gli altri due dietro servono da sicurezza. Però c’è sempre l’eventualità che scivoli tu e io con te, e per gli altri due, a quel punto, diventa impegnativo trattenerci. È una catena di fiducia, come del resto ogni cordata. Ma questa volta noi ci affidiamo a te, che fai da apripista e che secondo tutte le regole di buon senso non dovresti nemmeno stare quassù.

    Ti guardo, amico mio, sempre fiero, col tuo sguardo intento a scrutare lontano, con tutta la figura del tuo corpo che sembra puntare verso spazi precisi, da qualche parte più avanti. C’è qualcosa nei tuoi occhi stretti che ti fa sembrare concentrato, assorto in chissà quali pensieri, come se tu dessi un’importanza superiore a ogni luogo che ti accoglie, come se tu incarnassi un rispetto ieratico della montagna tanto che al confronto noi sembriamo dei camminatori della domenica contenti per aver conquistato questo 4000 semplice e dalle linee morbide.

    Nemmeno mezz’ora prima avevo accorciato il pezzo di corda che ci collega, da tre o quattro metri ero passato a due. Più la corda è corta e tesa, più è scomoda, ma dà meno strappi in caso di cadute. Mi ero avvicinato, ti avevo abbracciato, e nel farlo ti ho sussurrato all’orecchio: «Mi raccomando, io mi fido di te, ma… non tirare quella corda!».

    E adesso eccoci qua, con la mia vita legata da un filo alla tua, con le nostre sei orme che si confondono nella neve calpestata di questa stretta cresta.

    Ma io mi fido davvero di te, anche se sei un cane ed è la prima volta che raggiungi queste vette. Forse la prima volta in assoluto che un cane conquista un 4000. Stiamo scrivendo una pagina di cinoalpinismo, noi due; penso che in molti parleranno di te, mio amico lupo, che sei nato al mare ma sembri fatto della stessa sostanza della montagna.

    Come faccia a non spaventarti, a capire istintivamente questo gioco sottile di equilibrio e a muoverti disinvolto, io non lo so, ma forse nel nome che porti, in onore alle montagne più alte della Terra, era già scritto il tuo destino, mio caro amico Nepal.

    1

    LA REGINA DELLE CIME

    L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando le sei vicino.

    Charles Bukowski

    Quando incontriamo una persona sconosciuta possiamo essere attratti dal suo aspetto estetico, perché ne ammiriamo la bellezza come una promessa recondita per noi. Oppure dal suo carisma, perché pensiamo che la sua forte personalità abbia qualcosa da darci. Quando incontriamo un cane, per diversità di specie, queste emozioni sono molto ridotte. Per quanto possa darci un’idea di grazia, eleganza o tenerezza, un cane non può mai trasmetterci gli stessi sentimenti suscitati da una bella donna, un corpo atletico o un neonato. E per quanto alcuni animali come i gatti abbiano un’espressione davvero enigmatica, non è lo stesso magnetismo che ci trasmettono certe persone dal forte ascendente.

    Eppure quando ho visto per la prima volta un esemplare della tua razza, è come se avessi visto l’idea perfetta del cane. O meglio, tutto ciò che per me dovrebbe rappresentare un cane, un mix di bellezza, forza, fierezza, e quel qualcosa di irraggiungibile che è la fusione perfetta con la natura selvaggia.

    Era l’agosto del 2009, ero al primo anno delle superiori e con tre coppie di amici stavamo facendo l’Alta via della Valmalenco. Per chi ama le montagne e vive da queste parti in Valtellina, questo giro panoramico della valle, fra pascoli, laghi, valichi e piccoli ghiacciai, è una chicca che prima o poi almeno una volta nella vita devi fare. E ne vale davvero la pena. Per otto giorni, se hai voglia di camminare in mezzo alla vera natura alpina, sei lontano da strade e da borghi abitati, e puoi fare il giro ad anello di tutta la Valmalenco, partendo da Torre di Santa Maria e ridiscendendo a Caspoggio. Il percorso, con le sue innumerevoli varianti più o meno alpinistiche, attraversa le valli che discendono dai gruppi montuosi del Disgrazia, del Bernina e del Pizzo Scalino, passando da un rifugio all’altro ogni giorno, e restando per quasi tutti i suoi centodieci chilometri di sviluppo al di sopra dei 2000 metri. Tra i luoghi più belli che si incrociano, sicuramente il più suggestivo è il vallone dello Scerscen, un incredibile anfiteatro naturale ai piedi del Pizzo Bernina, l’unico 4000 della Valtellina nonché il più orientale di tutte le Alpi, costituito da una grande conca glaciale dalla forma circolare – infatti pare che il nome derivi da scérsc, che in dialetto locale vuol dire cerchio.

    Con i miei compagni eravamo arrivati al rifugio Marinelli a quota 2813 metri, il più grande e il più rinomato di tutta la Valmalenco, che domina il cerchio da uno sperone di roccia rossastra. Loro erano entrati a prendere da bere e comunicare il nostro arrivo, io ero rimasto fuori per cambiarmi gli scarponi, ed è stato allora che l’ho visto. Sbucò all’improvviso da una cuccia e mi venne incontro. Era legato con una lunga catena ma non ci trovai nulla di strano perché c’era davvero molta gente e in un luogo pubblico così affollato non puoi mai sapere come reagisce un cane, non puoi lasciarlo libero.

    Restai a bocca aperta, magnifico, pensavo. Aveva una bella taglia, più grande del solito, un pelo bianco e grigio che mi ricordava Zanna Bianca in certe illustrazioni del libro di Jack London che avevo letto da ragazzino. Con le orecchie alte e dritte, il muso da lupo addolcito dai tratti del cane lupo, aveva un che di solenne nello sguardo; non si mostrava impettito o aggressivo, come fanno certi cani che sotto sotto sono spaventati, non doveva dimostrare nulla perché era perfettamente a suo agio, calmo, dal portamento regale, come fosse il signore di quelle cime.

    Per un attimo restammo a guardarci, immobili. Lui non sembrava percepirmi come una minaccia, e io ero troppo incuriosito e avevo voglia di stringere un contatto. Decisi di avvicinarmi, piano, porgendogli la mano vuota per fargliela annusare. Mi chinai, sempre lentamente, e sempre con la mano in segno di amicizia. E lui si avvicinò, mi studiò col naso e non diede nessun segno di nervosismo. Quando mi inginocchiai ed eravamo quasi alla stessa altezza, con grande naturalezza mi leccò tutto il viso. Ero contentissimo, gli accarezzai i lati del collo e con mia grande sorpresa si sdraiò a pancia in su e con le zampe piegate, offrendosi alle mie carezze. Non riuscivo a crederci, era un cane bellissimo, e il superlativo non mi sembrava esagerato, non ne conoscevo la razza ma doveva avere qualcosa a che fare con il lupo di sicuro, per certi aspetti poteva ricordare un husky per il pelo biancogrigio, era evidente che doveva essere adatto al freddo e alle cime. Una parte di me già fantasticava di prenderne e crescerne uno, anche se a casa avevo la mia Briciola, la bastardina con cui ero cresciuto da quando avevo sei anni, un incrocio di volpino di poco più di dieci chili ma che tanto mi voleva bene, e io ne volevo a lei. Passavo la mano sul petto caldo e sul pelo liscio e mi sembrava incredibile che mi avesse concesso la sua confidenza.

    «Andre? Cosa fai, vieni?» Era il mio amico Marco, l’amico dai tempi dell’asilo, che mi chiamava dalla porta del rifugio.

    Entrai in uno stato di eccitazione mista a contentezza, quella di quando non vedi l’ora di condividere con gli amici una bella esperienza che ti è capitata. «Ragazzi ho visto un cane fuori che è una meraviglia! Una specie di lupo» dissi mentre mi sedevo alla tavolata nello stesso momento in cui la moglie del gestore veniva a prendere le ordinazioni.

    «È una femmina» mi corresse la signora, «si chiama Yumi. È un lupo cecoslovacco.»

    «Che razza è? Non ne ho mai visto uno…» chiesi incuriosito.

    «È una razza recente» mi rispose da dietro il bancone il gestore del locale, «un incrocio fra lupo dei Carpazi e pastore tedesco. Non ce n’è molti qua, eh! Il primo in Valtellina l’hanno portato quelli del rifugio Marco e Rosa, su a Cresta Guzza. Lei è una della prima cucciolata!»

    Quel fatto, che fossero così sconosciuti nella mia zona e padroni della montagna, accese ancora di più il mio entusiasmo. Per darmi un po’ di tono dissi: «Ma è socievole, si fa accarezzare…».

    «L’hai accarezzata?» mi chiese il gestore, e non capivo se era stupito o se volesse rimproverarmi per aver toccato il suo cane. Esitai, nel dubbio.

    «Ehm, sì, è venuta e mi ha leccato tutto…»

    «Come? Yumi?» Ancora più stupito, il gestore, o geloso?

    «Sì… perché?»

    «Strano! Quel cane lì è diffidente, non si avvicina alle persone che non conosce. Ha un istinto un po’ imprevedibile, è sempre un lupo eh, per cui è meglio non toccarlo. Proprio strano, ma le hai dato qualcosa da mangiare?» Sembrava quasi un rimprovero e io mio sono affrettato a dire: «No, no, gli ho dato la mano vuota!».

    «Mah… sicuro? Chi sei Balla coi lupi tu?!»

    Lo disse ridendo, non credo volesse paragonarmi a Kevin Costner, era una bonaria presa in giro. Tutti risero, ma per me fu un complimento folgorante. Voleva dire che avevo un feeling speciale con quei lupi cecoslovacchi, voleva dire che Yumi mi aveva concesso la sua fiducia, e se non lo faceva con tutti allora io dovevo essere particolare ai suoi occhi. Per un sedicenne convinto che uomini e cani hanno un legame più profondo di quanto si immagina quel piccolo dettaglio fu sufficiente a farmi sentire un eletto.

    Era quasi sera, da lì a poco avremmo cenato e poi a nanna presto perché l’indomani ci aspettava la traversata al rifugio Bignami passando per la Bocchetta di Caspoggio, che con i suoi 2983 metri rappresenta il passaggio più elevato e impegnativo dell’intera Alta via. Sveglia alle 6, abbondante colazione, e partenza di buon’ora perché bisogna risalire un ripido ghiacciaio, ed è meglio farlo prima che il sole riscaldi troppo il manto nevoso rendendolo instabile e pericoloso, e anche molto più faticoso a causa dello sprofondare eccessivo di ogni passo. Io cercavo di fare quante più domande potevo su quella razza sconosciuta, riprendendo il discorso a intermittenza, appena il gestore aveva un attimo libero al bancone del bar. «Son belle bestie, quei cani lì, l’istinto del lupo è ancora forte, eh» mi disse a un certo punto. Io ascoltavo avidamente come se mi stesse svelando i segreti della Forza e io fossi un giovane Jedi. Bisognava stare attenti nella fase di imprinting, perché la fiducia te la concedono a fatica, gli devi dimostrare che sei il capobranco, ma se si crea il legame poi è per sempre. Mi colpì una frase: «Non son cani da appartamento quelli lì! Non è che li porti a pisciare tre volte al giorno ed è finita lì. Te lo devi guadagnare il loro rispetto!».

    Quell’uomo non poteva sapere quale impatto le sue parole stavano avendo su di me, lui aveva tutta l’aria dell’adulto che deve spiegare al giovane adolescente come funziona il mondo, probabilmente tra le righe del suo discorso c’era: «Preparati, perché non sei ancora pronto a essere un capobranco per un cane simile». Non importava che avesse ragione o meno. L’unica cosa che contava per me era che avevo capito che quello sarebbe stato il cane della mia vita. Meglio se non erano cani da città e se erano esclusivisti nel concedere la fiducia. Meglio ancora se avevano un forte istinto selvatico, se volevano la libertà dei grandi spazi, delle altezze e delle nevi. Era quello che volevo anch’io. E il fatto che amassero la montagna era la ciliegina sulla torta. Ascoltavo incantato il racconto dell’altro lupo del rifugio Marco e Rosa. Era un maschio, e capitava spesso che scendesse a trovare Yumi o lei sparisse per qualche giorno per salire su da lui. Ma salire non è uno scherzo, ed era questa la cosa sorprendente per me e i miei amici. Il rifugio Marinelli, pur essendo già parecchio in quota, si trova su un costone piatto e d’estate senza neve lo si raggiunge attraverso un sentiero di roccia brulla percorribile anche da non esperti. Ma il Marco e Rosa è a 3610 metri di altezza su uno sperone roccioso che sembra sospeso nel vuoto, è il rifugio più alto della Lombardia ed è roba per escursionisti esperti e attrezzati. Dal Marinelli bisogna salire alla vedretta dello Scerscen superiore, il ghiacciaio a forma di catino circolare ai piedi dei giganti della Valmalenco che lo sovrastano dall’alto dei loro quasi 4000 metri. In successione sembrano guardarlo benevoli il Piz Roseg, il Piz Scerscen, il Pizzo Bernina, la Cresta Guzza e i Piz Argient e Zupò. Raggiunto e superato il ghiacciaio hai due possibilità: o sali per il canale nevoso dalla pendenza incredibile fra la Cresta Guzza e il Pizzo Bernina, o ti devi arrampicare per la ferrata nella parete rocciosa proprio sotto il rifugio. Sono posti pericolosi, su cui ci si muove in cordata, tratti di roccia in cui ci si lega, noi per esempio non ci saremmo saliti quella volta, e invece quei due cani si muovevano tranquilli e da soli da un rifugio all’altro! A ripensarci quella sensazione di fierezza e padronanza che mi aveva trasmesso nel primo istante in cui l’avevo vista era più che motivata, era davvero la regina di quelle cime.

    La sera, dopo cena, quando ormai nel salone eravamo rimasti solo noi, il gestore ha fatto entrare dentro Yumi e le ha dato da mangiare una noce, come stuzzichino. «Guarda che furba!» mi fa il gestore, e io sono rimasto stupito a guardarla: sdraiata in terra, con la noce tra le zampe, ha lavorato con i denti finché non è riuscita a rompere il guscio, ha mangiato i gherigli e lasciato il resto. Come abbia fatto non lo so. Continuavo a pensare che quello che facevano quei cani aveva dell’incredibile e mi stupii per una coincidenza, uno di quei sincronismi che non si scordano più.

    «No, incredibile!» sentii urlare il mio amico Marco.

    Alzai gli occhi verso la voce e vidi solo a quel punto cosa trasmetteva la TV accesa. Avevo dimenticato che era il 16 agosto 2009, c’erano i Campionati del mondo di atletica leggera di Berlino e nella finale dei 100 metri piani Usain Bolt aveva stabilito il nuovo record mondiale correndoli in 9’’58, l’uomo più veloce di sempre, forse anche più del vento. Non aveva solo vinto, aveva cambiato la storia dell’atletica, migliorando di ben 11 centesimi il suo record precedente ottenuto esattamente lo stesso giorno di un anno prima ai Giochi Olimpici di Pechino. Era praticamente imprendibile per tutti gli altri. Il telecronista della Rai si sgolava per la gioia, urlava «Siamo in un’altra dimensione» mentre Bolt continuava il suo giro per prendersi gli applausi dello stadio impazzito. «È cominciata un’altra era, l’era di Usain Bolt!» Avevano corso tutti da dio, ma Bolt era di un altro pianeta. Un’impresa incredibile, una giornata incredibile. Era tutto incredibile per me quel giorno, come se qualcosa mi dicesse che al di là delle incertezze del futuro una cosa era chiara: non sapevo quando, ma prima o poi avrei preso un lupo cecoslovacco.

    2

    UN SOLO PADRONE

    Chi non ha avuto un cane non sa cosa significhi essere amato.

    Mariano José de Larra

    Il destino è un grande scrittore. Ha una ineguagliabile fantasia nell’abbinare fatti sincronici, altri palesemente simili o sfacciatamente opposti, tanto da suggerire una metafora, un significato più ampio, e fissarsi in maniera cinematografica nella nostra memoria. Così la nostra vita a volte ci sembra un grande romanzo, o quantomeno un romanzo ben scritto.

    Per questo mi sembra buffo il fatto che tu, che sei diventato celebre sui social per aver scalato con me diversi 4000, in realtà sei nato al mare. E già mi sembrava curioso nel luglio 2015 mentre guidavo in autostrada e mi era apparsa davanti Genova, col ponte Morandi e il mare in lontananza. Curioso perché pensavo a Yumi e al suo compagno delle Alpi valtellinesi così ben adattati al ghiaccio e al freddo.

    Erano passati sei anni da quando avevo scoperto la bellezza del cane lupo cecoslovacco, e da allora non avevo perso occasione per documentarmi dove e quando potevo, su Internet, riviste specializzate o passaparola. In teoria sapevo tutto quello che c’era da sapere, o meglio, che si poteva sapere solo leggendo. Avevo imparato che per quanto abbia tutta l’aria del lupo sceso dai monti, e incarni l’idea di primitivo, millenario e selvatico, quella del cecoslovacco è una razza giovanissima, selezionata solo a partire dal 1955 nella Cecoslovacchia del blocco sovietico dal colonnello Karel Hartl. Il suo scopo era ottenere un incrocio che potesse accompagnare le guardie di frontiera nei loro pattugliamenti dei confini, un cane che fosse addestrabile e intelligente come il pastore tedesco ma con la tempra fisica

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