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Isabella e l'ussaro: Harmony History
Isabella e l'ussaro: Harmony History
Isabella e l'ussaro: Harmony History
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Isabella e l'ussaro: Harmony History

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About this ebook

Londra, 1816
Non avendo eredi maschi cui lasciare il prestigioso titolo di conte e le terre di famiglia, l'anziano Lord Westmere impone alla nipote di sposare uno dei suoi quattro cugini. La caparbia Isabella, tuttavia, non vuole saperne di un matrimonio senza amore e si accorda con il più giovane di loro, l'aitante Robert, capitano degli ussari, affinché si finga suo promesso sposo e la porti con sé a Londra, dove lei potrà cercare un buon partito. Durante la Stagione, però, la capricciosa ereditiera non accetta alcuna proposta, forse perché ogni giorno di più subisce il fascino del cugino, pur sapendo che il loro fidanzamento è destinato a finire presto.
LanguageItaliano
Release dateOct 10, 2019
ISBN9788830506411
Isabella e l'ussaro: Harmony History
Author

Mary Nichols

Nata a Singapore, si è trasferita in Inghilterra giovanissima e prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura ha lavorato in ospedale, nella scuola e nell'industria. La ragazza di cristallo è collegato a La contessina ribelle.

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    Isabella e l'ussaro - Mary Nichols

    Immagine di copertina:

    Graziella Reggio Sarno

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Westmere Legacy

    Harlequin Mills & Boon Historical Romance

    © 2001 Mary Nichols

    Traduzione di Daniela Mento

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2007 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3050-641-1

    1

    Marzo 1816

    «Sylvester!»

    William Huntley, secondo Conte di Westmere, gridava così forte che Bella lo sentì dalle cucine dove stava discutendo con la cuoca il menù per il pranzo.

    «Sylveeester! Che tu sia dannato! Vieni subito qui!»

    «La sua gotta deve essere peggiorata» osservò Bella. «Dove può essere andato Sylvester?»

    Si sentirono dei passi affrettati al piano di sopra: Sylvester stava correndo dal suo padrone.

    Pochi minuti dopo il vecchio servitore in livrea nera, alto e magro e ormai quasi calvo, fece capolino in cucina con una brocca in mano. La diede a Daisy, dicendole di riempirla di acqua calda perché il conte voleva radersi.

    «Milord vuole vestirsi e scendere a fare colazione» le spiegò.

    «Il caminetto non è acceso nella sala della colazione» osservò però Daisy, mentre riempiva la brocca.

    «Allora è meglio che corri ad accenderlo» le consigliò Sylvester.

    «Sì, ma chi mi aiuterà a preparare la colazione, se Daisy deve andare ad accendere il fuoco?» si lamentò la cuoca. «Non puoi convincerlo a fare colazione in camera sua, come ha sempre fatto? Che cosa gli è preso? È da anni che non scende alla mattina.»

    «Dice che ha preso una decisione e che oggi non farà colazione a letto» ribadì Sylvester.

    «Quale decisione?»

    «E che cosa ne so?»

    «Il padrone ti confida sempre tutto. Sono sicura che sai di che cosa si tratta e non ce lo vuoi dire» insistette la cuoca.

    «E se anche fosse? Perché dovrei dirlo a voi? Daisy, mi dai quest’acqua calda prima che si rimetta di nuovo a strillare?»

    Proprio in quel momento il conte gridò di nuovo qualcosa dal piano di sopra.

    «Una cosa è certa, la gotta non gli ha fatto perdere la voce» commentò acida la cuoca.

    «Sapete quanto lo tormenta» lo giustificò Bella. «Daisy, vai ad accendere il fuoco nella sala della colazione, resterò io ad aiutare qui in cucina.»

    Daisy, che aveva soltanto tredici anni, restituì a Sylvester la brocca piena di acqua calda e, mentre il valletto risaliva in fretta al piano di sopra, prese il cesto con la legna e corse nella sala della colazione.

    Bella trovò un grembiule in un cassetto, se lo mise, si tirò su le maniche e cominciò a darsi da fare insieme alla cuoca.

    Il conte, anche se il denaro non gli mancava, non amava spenderlo. Alcuni dicevano che era un vero spilorcio, perché in quella grande casa c’erano pochissimi domestici. A parte Sylvester Carpenter, il suo valletto personale, c’erano Sam Jolliffe, il maggiordomo, Martha Tooke, che faceva da governante e da cuoca, Daisy che aiutava in cucina, una lavandaia e due donne che venivano tutti i giorni dal villaggio per aiutare nelle pulizie.

    L’unica ala di Westmere Hall che veniva pulita era quella est, la sola a essere abitata dal conte e da Isabella, insieme alla sua cameriera personale, Ellen Battersby, che in quei giorni era andata in visita alla sorella malata. Bella sentiva molto la mancanza di Ellen.

    Isabella, che tutti chiamavano Bella, era la nipote del conte, la sola figlia di suo figlio Charles. Aveva diciassette anni e aveva vissuto a Westmere Hall per tutta la vita.

    Bella ricordava appena sua madre, morta dopo aver dato alla luce un figlio maschio, l’erede tanto atteso, che le era sopravvissuto solamente un paio di giorni.

    Di suo padre, invece, aveva un ricordo più netto. Charles Huntley puzzava sempre di tabacco e di brandy, soprattutto di brandy. Sarebbe stato un brav’uomo, se non avesse avuto la brutta abitudine di bere, ma l’alcol aveva reso instabile il suo carattere. A volte era allegro e gioviale, poi però poteva rimanere muto e depresso per giorni interi. Gli capitava anche di avere scatti d’ira improvvisi e violenti che spaventavano sua figlia.

    Era morto nel 1805, quando Bella aveva sei anni, un evento che la giovanissima mente della bambina aveva registrato soltanto perché da quel giorno si era sentita libera da ogni genere di paura.

    Suo nonno diceva di non sapere da dove fosse venuto il comportamento collerico del figlio, se non dall’alcol. Il conte era un tipo scorbutico, ma non si lasciava trascinare dall’ira, per questo Bella non si era mai sentita spaventata da lui.

    Adesso il nonno aveva settantanove anni e gli erano rimasti pochi capelli, tutti bianchi, ma da giovane era stato un bell’uomo, come testimoniava un suo ritratto nella galleria di Westmere Hall. Alto, con folti capelli ondulati e sopracciglia ben disegnate che mettevano in risalto i begli occhi castani. La gotta lo faceva penare, spesso brontolava che per lui era venuta l’ora di morire, e Bella provava una fitta al cuore tutte le volte che glielo sentiva dire.

    Le raccontava con nostalgia dei tempi in cui lui e suo fratello John erano ragazzi e Westmere Hall era circondata dalle paludi. Per Bella era difficile immaginarlo, perché adesso tutte le paludi erano state bonificate grazie a un sistema di canali e di mulini a vento che drenavano l’acqua, e la terra era diventata coltivabile.

    La morte improvvisa del fratello all’inizio dell’anno aveva reso il conte ancora più consapevole della propria età avanzata. John era di tre anni più giovane di lui e aveva sempre goduto di ottima salute.

    «Chi avrebbe mai detto che gli sarei sopravvissuto?» si lamentava Lord Westmere. «Con la mia gotta e il cuore che perde colpi da anni...»

    Sir John Huntley era morto inaspettatamente a mezzanotte, nella sua residenza di Palgrave Manor, nell’Essex, mentre le campane della chiesa suonavano a festa per annunciare l’inizio del nuovo anno, il 1816.

    Come Lord Westmere era sopravvissuto alla moglie e all’unico figlio maschio, ma lasciava due figlie vedove e cinque nipoti, quattro maschi e una femmina.

    Al suo funerale la chiesa era gremita, i parenti in lutto sembravano sinceramente afflitti per la sua morte. Più tardi, però, a Palgrave Manor, dove i familiari più stretti si erano riuniti per la lettura del testamento, Bella aveva percepito una certa tensione fra gli eredi.

    «Non ne capisco la ragione» era stato il suo commento mentre lei e il nonno tornavano a casa in carrozza. «Il prozio ha disposto nel modo migliore delle sue sostanze. Ha lasciato il titolo e la tenuta a Edward, che ne aveva il diritto essendo il maggiore dei nipoti maschi, ma non si è dimenticato degli altri, che hanno avuto vitalizi e lasciti generosi. Non si è scordato nemmeno dei servitori più fedeli.»

    Il viaggio di ritorno a Westmere era stato molto faticoso. Nevicava, le strade erano gelate e i cavalli avevano faticato a tirare la pesante carrozza del conte. Bella si era sentita gelare fin nelle ossa, nonostante le calde coperte che avevano avvolto lei e il nonno e i mattoni bollenti che avevano avuto sotto i piedi. Lord Westmere però non aveva voluto sentire ragioni, il tempo inclemente e la sua tarda età non gli avevano impedito di essere presente alle esequie dell’amato fratello.

    «Non si preoccupavano certo per il titolo e gli averi del mio povero fratello, mia cara, ma per i miei» le aveva risposto il nonno in tono burbero.

    «I tuoi?»

    «Non ci hai pensato? Non ho figli maschi, mio fratello era il mio unico erede e adesso lui è morto. A chi andranno il mio titolo e le mie terre? Non vedono l’ora che anch’io tiri le cuoia per saperlo!»

    «Oh, nonno, non dire così!» aveva protestato Bella. «Sono sicura che ti sbagli e che tutti ti augurano di vivere cent’anni.»

    «Spero anch’io di vivere cent’anni, ma sono sicuro che loro non ne sarebbero affatto contenti se accadesse davvero.»

    «Anch’io te lo auguro, nonno.»

    «Tesoro, sei la sola persona al mondo che lo pensi veramente.»

    Poi Lord Westmere aveva detto che non vedeva l’ora che arrivasse la primavera, quando gli agnellini si rincorrevano sull’erba dei prati. Bella, con sollievo, aveva capito che non considerava ancora vicina la data della propria morte.

    Una volta tornato a casa il conte aveva ripreso la vita di sempre. Si svegliava presto, faceva colazione in camera, si lavava e si radeva con cura e poi, se la gotta glielo permetteva, usciva a fare un giro nella tenuta e a parlare con il suo intendente, per decidere i lavori nei campi.

    A volte Bella lo accompagnava, altre volte andavano insieme in carrozza a far visita ai vicini. Il pranzo era sempre alle tre, la cena alle sette, poi si andava a dormire.

    Ogni domenica mattina si recavano a messa nella chiesetta del villaggio. Lord Westmere, dopo la funzione, indugiava a chiacchierare con il vicario e faceva qualche commento, non sempre benevolo, sulla predica. Poi tornavano a casa per il pranzo.

    Il compito principale di Bella, in casa, era di decidere con la cuoca il menù per il pranzo e per la cena. Poi doveva occuparsi della posta del nonno e leggergli ad alta voce gli articoli del Morning Post e del Times che gli interessavano. Oltre a quei due giornali, da Londra gli arrivava anche il Political Register, una pubblicazione dalle tendenze radicali i cui articoli lo facevano infuriare per l’indignazione.

    Bella si chiedeva perché insistesse tanto per farle leggere anche quel giornale, dato che i punti di vista del suo direttore e dei redattori lo infastidivano.

    «Sono solo spazzatura!» dichiarava sempre lui.

    Forse se lo faceva mandare per poter sfogare in quel modo i suoi malumori, finì per pensare la giovane.

    Quando non teneva compagnia al nonno, Bella occupava il proprio tempo passeggiando, ricamando e scrivendo il suo diario. Non che avesse molto da raccontare, non le accadeva mai nulla di importante, ma le piaceva molto osservare la gente e la natura. Prendeva nota del giorno in cui cominciava il raccolto, di quando gelava lo stagno e si poteva andare a pattinare, del primo merlo che sentiva cantare e dei primi fiori che scorgeva fra l’erba a primavera.

    Le piaceva anche tenersi aggiornata su quanto succedeva al villaggio: i bambini che nascevano, i vecchi che morivano, i giovani che si sposavano.

    Si era abbonata alla biblioteca circolante di Ely e prendeva in prestito gli ultimi romanzi pubblicati a Londra, da leggere la sera prima di dormire. Aveva perfino incominciato a scriverne uno, pieno di duelli, incontri amorosi, mistero e avventure. Le sarebbe tanto piaciuto avere una vita un po’ più eccitante. Non sapeva ancora che il destino non avrebbe tardato molto ad accontentarla.

    Quel mattino, dopo aver fatto colazione al piano di sotto invece che in camera sua come al solito, il conte si alzò dalla sedia e disse alla nipote di seguirlo in biblioteca, per scrivere alcune lettere.

    Il suo valletto corse subito ad aiutarlo, vedendo che si alzava da tavola, ma fu respinto con sdegno.

    «Non sono ancora decrepito!» si ribellò il conte. Una volta in biblioteca, si lasciò cadere sulla poltrona davanti al fuoco.

    «Sei sicuro di volermi dettare queste lettere proprio oggi?» gli chiese la nipote, vedendolo così di malumore.

    «Sì, ho rimandato anche troppo. Avrei dovuto farlo molto tempo fa.»

    La primavera quell’anno tardava ad arrivare. Forse per questo il nonno sembrava così nervoso e impaziente, si disse Bella.

    «Scriverai quattro lettere, una per ognuno dei nipoti di John.»

    Bella prese carta, penna e calamaio e si sedette alla scrivania.

    «Le lettere saranno tutte uguali» incominciò il conte. «Dovrai dire ai miei quattro pronipoti di venire qui, a Westmere Hall, giovedì 20 marzo. Voglio parlare con loro.»

    «Nonno, ma mancano solo tre giorni al 20 marzo» obiettò Bella. «Forse qualcuno di loro ha già degli impegni e non potrà venire.»

    Il conte scoppiò a ridere divertito. «Vedrai che arriveranno di corsa, quando riceveranno la mia lettera.»

    «Perché li fai venire tutti insieme? Non potresti convocarli uno alla volta?»

    «Li vedrò tutti insieme, alle due del pomeriggio, così ognuno di loro sentirà che cosa dico agli altri.»

    «Di che cosa vuoi parlare, nonno?»

    «Voglio comunicare loro le mie ultime volontà.»

    Bella per poco non lasciò cadere la penna.

    «Ti senti male, nonno?»

    «Non mi sono mai sentito meglio, ma non sono immortale, Bella. Voglio sistemare le cose con il passato e pensare al tuo futuro, bambina mia.»

    «Il mio futuro?»

    Bella aveva sempre pensato che alla morte del nonno il suo erede avrebbe provveduto a lei, nel caso non fosse ancora sposata. Il suo erede voleva dire uno dei quattro nipoti di suo fratello John... Sì, ma quale?

    Louis era il più anziano, ma non portava il cognome Huntley perché era figlio di una figlia di John. Edward era il maggiore dei due nipoti che si chiamavano Huntley, probabilmente il titolo sarebbe passato a lui. Poi c’era James, anche lui figlio di una figlia, e per finire il più giovane di tutti, Robert, il fratello minore di Edward.

    Bella non aveva mai avuto il minimo dubbio che avrebbero provveduto a lei come aveva fatto il nonno. Ora, il nervosismo del conte le fece temere per la prima volta che il suo futuro potesse essere incerto.

    «Sì, mia cara» le disse il nonno, come se le avesse letto nel pensiero. «Tu sei molto giovane, ma prima o poi ti sposerai. Se io non ci sarò più, chi potrà guidarti e consigliarti nella scelta di un marito?»

    «Miss Battersby potrebbe consigliarmi, nonno.»

    «Miss Battersby? Quella ha la testa piena di stupidi sentimentalismi! Ti farebbe sposare il primo cicisbeo che ti facesse la corte.»

    «Vuoi allora che sia uno dei tuoi pronipoti a consigliarmi?»

    «Nemmeno per sogno! Non mi fido di nessuno, soltanto di me stesso. Per questo motivo ho deciso che ti sposerai al più presto, in modo che sia io a occuparmi di tutta la faccenda.»

    «Nonno, non ho alcuna fretta di sposarmi» protestò Bella.

    «Tu non hai fretta, ma io sì. Se potessi lascerei a te il mio titolo e tutto quello che possiedo, però sei una donna, purtroppo. L’unica soluzione è che tu sposi uno dei nipoti di John. Sarà lui il terzo Conte di Westmere e tu diventerai contessa.»

    Bella restò senza fiato.

    «Dovrei... dovrei sposare uno dei miei cugini?»

    «Quello che preferirai. La scelta sarà tua.»

    Bella provò un senso di vertigine. Le sembrava una conversazione assurda, forse stava solo sognando. Louis, Edward, James e Robert non erano suoi cugini di primo grado, ma li aveva sempre considerati alla stregua di fratelli. Non riusciva proprio a immaginarsi sposata a uno di loro.

    «Nonno, sono tutti uomini adulti, io ho solo diciassette anni» obiettò con voce tremante. «Non vorranno saperne di sposarmi.»

    «Faranno a gara per conquistare la tua mano, te lo garantisco, quando sapranno che chi ci riuscirà diventerà il mio erede.»

    «Ma mi sposerà solo per avere il titolo e le tue terre!» si lamentò lei.

    Il conte non badò alle sue obiezioni.

    «Come sarebbe stato facile se tu fossi stato un uomo! Invece, se anche fossi tu la mia erede, sarebbe tuo marito a diventare il padrone di quanto ti ho lasciato. Quindi è meglio che sposi uno della famiglia.»

    «Non voglio sposare uno dei miei cugini, nonno! Non sono innamorata

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