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Petrolio bollente
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Petrolio bollente

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About this ebook

Gabriella, giovane e brillante ingegnere, lavora presso il dipartimento di ricerca di una multinazionale petrolifera. Caruso è il suo capo, un siciliano aggressivo e autoritario, molto potente. È lui che decide quando e dove Gabriella deve recarsi per risolvere le questioni tecniche più disparate.
L’ambiente di lavoro è maschilista e spregiudicatamente rivolto al profitto; Gabriella è costretta a interagire in contesti operativi e decisionali che la mettono a dura prova. Come primo importante incarico, viene mandata a Pointe Noire, in Congo, per risolvere alcune criticità operative che rischiano di bloccare l’attività di un impianto.
Forse per la giovane età o per il fatto di essere donna, nonostante individui e denunci seri malfunzionamenti viene sistematicamente ignorata, sia dalla dirigenza italiana sia dai tecnici africani. Fino a quando accade l’irreparabile: divampa un incendio e qualcuno rimane gravemente ferito.
Gabriella sarà chiamata a rispondere del suo operato, alla ricerca di un capro espiatorio per salvare il buon nome dell’azienda.
Una storia attuale, che s’ispira ad alcuni eventi realmente accaduti. Scritta quasi come una sceneggiatura per una serie TV, fornisce numerosi spunti di riflessione sul mondo lavorativo del settore industriale, troppo spesso spinto al profitto e discriminante.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateJul 10, 2020
ISBN9788833666037
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    Petrolio bollente - Katia Manfredi

    oltraggio.

    CAPITOLO 1

    Firenze. Mercoledì mattina. Ufficio di Caruso

    «E tu che vuoi? Chi ti manda?»

    «Nessuno.»

    «E allora? Avevamo un appuntamento?»

    «Ehm… Sono Gabriella.»

    «Ah sì! Gabriella, certo… vieni, vieni.»

    La ragazza entrò in quell’ufficio piazzandosi proprio di fronte alla scrivania dove Caruso stava comodamente seduto.

    «Io ho bisogno di gente capace di far marciare macchine e uomini. È di questo che stiamo parlando, mi capisci?» le chiese ad alta voce, con accento marcatamente siciliano guardandola diritto negli occhi.

    «Sì» rispose Gabriella con un debole sorriso da neo arrivata che la sa lunga ma forse non abbastanza.

    «Passavo di qua proprio per chiederle se ha già letto il mio curriculum.»

    «Chiederle? – ripeté lui dando enfasi alla sillaba finale e sgranando gli occhi – con chi stai parlando?»

    «Con lei?» ripeté Gabriella, un po’ imbarazzata e tirando verso l’alto la cinghia della borsetta che portava a tracolla per risistemarla anche se non ce n’era bisogno.

    «Non c’è nessuna lei qua, io mi chiamo Gaetano. Mi puoi dare del tu» sentenziò Caruso.

    «Va bene, grazie – rispose lei. Poi aggiunse, non senza sforzo – Allora, hai letto il mio curriculum?»

    «Altroché – disse lui – hai fatto bene a venire da me. Qui però si viaggia; si va in giro almeno una volta al mese.»

    Fece una pausa, la scrutò socchiudendo gli occhi come avrebbe fatto Clint Eastwood nei panni del pistolero e poi aggiunse: «Tu ci vai in giro?»

    "Ma dove? Cosa voleva dire esattamente Caruso con in giro? In Italia? In Africa? In America?"

    «Certo. Anche nel nostro ufficio ci muoviamo» disse Gabriella di rimando e facendo di sì con la testa, cercando di dissimulare ogni potenziale segno di perplessità, mentre pensava alle cene con gli amici, ad Anna, a sua madre e ai voli già prenotati per tornare a casa.

    Lui la guardò nuovamente corrugando la fronte.

    «Voi vi muovete? – chiese poi, afferrandosi il mento con la mano destra e sollevando le sopracciglia, ostentando curiosità – E dove? Dalla sedia al corridoio?»

    Lei sorrise imbarazzata, con una mano spostò una ciocca dei capelli neri dietro l’orecchio.

    «Vi mandano pure in giro a perdere tempo. Mah! Cose da pazzi.»

    Caruso alludeva al dipartimento di ricerca per cui Gabriella lavorava. Si alzò dalla sua poltrona, tirò un po’ su la cintura dei pantaloni e dirigendosi verso la porta le ordinò deciso: «Vieni con me.»

    Si muoveva per il corridoio noncurante degli sguardi curiosi che incrociava.

    Basso, tarchiato e scuro di carnagione com’era, con il suo cipiglio contrariato e i mustacchi decisamente retrò, si contrapponeva alla figura fresca e sorridente di lei. Indossava un giubbotto di pelle nera striminzito, sbottonato sul davanti e assolutamente inadeguato al suo fisico.

    Camminava tenendo un’espressione seria sul volto. Il suo passo era rumoroso per via dei corti stivaletti neri da motociclista che portava. L’aria si spostava ai suoi fianchi e vortici invisibili raggiungevano anche gli uffici più lontani, annunciando il suo passaggio alla gente. Non guardava a destra o a sinistra, ma vedeva tutto lo stesso e le sue orecchie erano un radar; andava dritto e stava sempre uno o due passi più avanti di quelli che lo accompagnavano, segno che era lui a dare la direzione e il ritmo.

    Quando arrivarono nell’ufficio della segretaria, lo trovarono vuoto.

    «E dove minchia è?» chiese irritato ad alta voce. Poi, rivolgendosi verso Gabriella, aggiunse: «Questa è nuova, ancora non ha capito chi comanda.»

    Rigirò su se stesso per tornare indietro. Lei lo seguì.

    «Parli inglese?» le chiese, lisciandosi con il palmo della mano i corti e ispidi capelli neri.

    «Me la cavo, però ho un accento come quello del padrino» rispose la giovane che avrebbe voluto aggiungere con noncurante vanità: veramente parlo anche spagnolo e francese.

    «Va benissimo. L’importante è capire e farsi capire. Di dove sei esattamente?»

    «Palermo.»

    «Lo sapevo. Quelli del Sud… – disse, alludendo con un sorriso a chissà che cosa, lasciando ampio spazio all’immaginazione e aggiungendo subito dopo con reticenza – lasciamo stare.»

    Poi riprese nuovamente: «Io sono nato a Lecce, ma ho vissuto tanti anni in Sicilia, sin da quando ero bambino. Mia madre era siciliana – dondolò vanitosamente la testa e le spalle – perciò occhio perché io ti capisciu¹» disse guardandola di sbieco.

    «Certo, certo» rispose lei annuendo.

    «Sei stata nel Salento?» le chiese continuando a camminare.

    «No. Non ancora» rispose Gabriella immaginando spiagge bianchissime e un mare verde acqua.

    «Allora devi andarci al più presto.»

    Lei si sentì in dovere di precisare: «Non so. Per quest’anno mi sono rimasti pochi giorni di ferie.»

    Seguì qualche secondo di silenzio in cui Caruso la guardò serio, piegando gli angoli della bocca in giù, quasi deluso.

    Avrò detto qualcosa che non va? Forse non era proprio il caso di tirare in ballo l’argomento ferie… pensò Gabriella. Cercò di rimediare: «Cioè – aggiunse con un sorriso – non ho ancora dei programmi».

    Di nuovo silenzio, la smorfia quasi di disgusto sulla faccia di lui: «La mia non era una domanda.»

    Svoltò l’angolo per rientrare nel suo ufficio e Gabriella lo seguì ammutolita con circospezione. Aveva già parlato troppo.

    Caruso, cambiando argomento, commentò: «Bene, bene, adesso ci penso io» così dicendo si risedette sulla sua poltrona di pelle marrone dietro la scrivania, prese in mano il telefono e chiamò qualcuno d’importante. Si capiva per il tono rispettoso, confidenziale e insolitamente tranquillo che usava verso l’interlocutore misterioso: «Pronto? Come stai?» chiese sorridendo alla cornetta. Gabriella attese in silenzio, con gli occhi distratti verso l’alto, una mano sulla borsetta e l’altra infilata nella tasca posteriore dei jeans.

    «Senti – continuò – qui c’è una ragazza che lavora alla ricerca, ma io non capisco che ci sta a fare là una con il suo curriculum. La possiamo trasferire da noi, in Assistenza Tecnica? Abbiamo bisogno, lo sai.»

    Seguì un nuovo momento di silenzio in cui Gabriella tentò di carpire e decifrare i suoni provenienti dal telefono. Niente da fare. Cercò di distrarsi guardando le pareti e l’arredo di quella stanza, come si fa dal medico quando i tempi sono lunghi e, finite le riviste, hai la possibilità di rileggere tabelle di orari e comunicazioni di servizio.

    Nell’ufficio di Caruso, che non era molto grande, erano sparpagliate sulla scrivania numerose cianfrusaglie provenienti da paesi arabi. Probabilmente luoghi dove egli aveva in precedenza lavorato e vissuto.

    Proprio alle sue spalle, sull’unica parete libera disponibile, era appesa una magnifica mappa geografica raffigurante i due emisferi. Di fronte alla sua scrivania c’era un piccolo tavolo da riunione con alcune sedie e alla sua destra una grande vetrata con vista su un giardino. Alla sua sinistra, accanto alla porta, un grande armadio grigio.

    Caruso – al telefono – sorrideva e gesticolava e, ogni tanto, attraverso la vetrata guardava fuori. A un certo punto disse: «E io gli mando il Barone. Che dici? – seguì ancora una pausa e poi – Sì, certo che quello parla inglese e ha fatto pure un master a Parigi, ma è il cervello, il problema».

    Rise sonoramente alla sua battuta e tamburellò con le dita sul tavolo.

    «Perfetto. Allora facciamo così, ti ringrazio. Ciao, ciao, ciao» e così dicendo, chiuse la comunicazione.

    Caruso prima indietreggiò sulle ruote della sua poltrona, scostando la grossa pancia dalla scrivania. Si alzò e prese due faldoni dall’armadio vicino. Li porse a Gabriella dicendole: «Fammi un confronto tra queste due tecnologie di conversione del petrolio, dentro trovi la presentazione del dipartimento d’ingegneria: mi servono costi fissi, costi variabili ed economics

    Evidentemente notò l’aria spaesata di lei e ripeté alzando la voce: «CAPEX, OPEX e IRR, entro domani. Hai capito?»

    «Domani?» si affrettò a chiedere Gabriella mentre cercava di decifrare velocemente quelle sigle, tentando di riacciuffare qualche brandello dell’unico corso di economia che aveva seguito all’università e che ancora vagava nella sua testa. Era sorpresa per quella richiesta perché lei non lavorava per quell’ufficio e inoltre possedeva una laurea in ingegneria chimica, non in finanza.

    «E quando allora? Hai detto che vuoi lavorare qua o sbaglio?»

    «Sì, ok, però io veramente non ho avvisato il mio capo di questo cambiamento e…»

    «Non ce ne frega niente, quelli purtroppo sono dei fancazzisti – la intimò, accollandole i faldoni – mentre noi ci sbattiamo per riempire i barili di prodotti chimici di primissima qualità, quelli sono impegnati a vuotare barili di caffè.»

    E chi lo contraddice adesso? Non commentare Gabriella, per favore, non commentare!, disse a se stessa.

    «E poi tu non ti devi preoccupare – aggiunse lui – ci ho pensato io: da domani sarai qui, organizzati il trasloco e mi raccomando, fammi avere queste informazioni subito. Ciaooo» disse cantilenando.

    La sua ultima frase di per sé non avrebbe sortito particolare effetto se non fosse stata pronunciata con tono minaccioso e accompagnata da uno sguardo torvo. In verità suonava come un’intimidazione: MiRRaccomando, fammi AVERE queste informaZZIOOni suBBito.

    Caruso si rimise a sedere alla sua scrivania, distogliendo lo sguardo da lei e rivolgendolo un po’ al PC e un po’ allo smartphone per leggere i messaggi in posta elettronica – liquidandola così, senza darle alcuna possibilità di replicare.

    Voltando le spalle per uscire, Gabriella sentì il suo sguardo su di sé. Istintivamente, con l’unica mano libera, poiché l’altra teneva i faldoni, si scostò i capelli dietro le spalle. Poi, con una mossa svelta, girò la borsa a tracolla in modo da coprirsi il sedere; non le andava proprio di essere radiografata e sapeva con certezza che quello sarebbe stato uno dei punti cui l’occhio indiscreto di Caruso avrebbe indugiato.

    Gabriella intuiva che Caruso voleva metterla alla prova e che bisognava darsi da fare immediatamente per rispettare la tempistica e dimostrare di poter lavorare in Assistenza Tecnica. D’altra parte l’aveva voluto lei, era andata a cercarlo e si era presentata da sola.

    Il lavoro poteva essere alla sua portata, sebbene alcuni interrogativi abitassero la sua testa confusa, ma non aveva ancora il coraggio di chiedere, troppo presto. E poi come avrebbe reagito Fabrizio, il suo attuale capo, a questa novità?

    Be be beep squillò il telefonino di Gabriella che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni.

    Be be beep continuò a squillare finché Gabriella non trovò un punto d’appoggio per i raccoglitori che teneva in mano, vicino una fotocopiatrice della sala stampa.

    «Sì. Anna?» Era la sua amica.

    «Ciao Gabriella, sei impegnata?»

    «Ho appena finito di parlare con il tipo che sarà il mio nuovo capo, a quanto pare.»

    «Com’è?»

    «Lascia stare… ti racconterò.»

    «Senti, per sabato sera ci sei? Stefano e Sandro ci aspettano per una pizza da Peppino. Andiamo?»

    Nel frattempo un collega, Giampaolo, era entrato nella saletta per recuperare delle stampe. Gabriella, incollata alla cornetta, inchinò la testa in avanti. Sollevò la mano destra muovendo le dita per mimare un saluto. Si scostò per fargli spazio. Prima di voltarsi di spalle, nel tentativo di ritagliarsi un po’ di privacy, vide che lui rispondeva al buongiorno imitando il suo gesto.

    «Sì, lo so. Mi ha inviato un messaggio Stefano… ma sì dai. Così non devo cucinare» disse Gabriella mostrando uno dei suoi migliori sorrisi a Giampaolo, ignaro, come se stesse parlando con lui.

    «Bene. Allora facciamo alle otto in piazza. Dillo anche a quel tuo collega, Michele.»

    «Wow. Non perdiamo tempo!»

    Seguì un risolino di Anna. «Ma no! È solo che mi sta molto simpatico.»

    «Già. Come Patrick, l’anno scorso…» disse ripetendo nuovamente il gesto di saluto a Giampaolo, il quale per un secondo la guardò negli occhi e poi, a testa bassa, uscì dalla saletta silenzioso e sfuggente.

    Infine concluse al telefono: «No problem. Michele ci sarà. Ciao cara, ciao».

    Rimise il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni, quindi si diresse in ufficio per leggere la documentazione. Durante il tragitto pensava a quale scusa inventarsi per giustificare, al suo attuale capo, l’attività che avrebbe dovuto svolgere fino al tardo pomeriggio. Di tutto il resto ne avrebbe parlato dopo.

    Giovedì al lavoro

    Con gran sorpresa del capo dipartimento della ricerca – incazzatissimo – il giorno successivo Gabriella ricevette una lettera che citava il suo passaggio alla nuova funzione presso il dipartimento di Assistenza Tecnica: odore di potere nell’aria solitamente impregnata di ragnatele.

    La stessa comunicazione la ricevette quello che ormai poteva dirsi il suo ex–responsabile: Fabrizio – ultimo anello della catena di mail proveniente dal capo supremo della Direzione Tecnica ovvero il Vice President.

    Egli voleva sapere come tutto ciò era potuto accadere a sua insaputa e in tempi così rapidi; perciò quella mattina chiamò a rapporto Gabriella.

    Quando lei entrò nel suo ufficio si accorse subito che l’aria era gelida nonostante il climatizzatore fosse spento.

    «Buongiorno Fabrizio, hai visto la mail?» disse Gabriella tutto d’un fiato, trovandolo seduto alla scrivania. Lui non rispose.

    «Scusa ma questa storia è andata fuori dal mio controllo» aggiunse lei ancora in piedi vicino alla porta in attesa di un cenno d’invito a entrare.

    Fabrizio la guardò di traverso, serio. Era un uomo sui cinquant’anni, d’aspetto gradevole e in ordine, con i capelli ricci e stranamente grigi per la sua età. Assumeva sempre un atteggiamento distaccato e aziendale.

    Attese giusto quattro, cinque secondi con masochismo e poi, usando un tono di voce piuttosto aspro, esordì: «Dovevi dirmelo».

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