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Parole dalla Quarantena
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Parole dalla Quarantena

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Tutto può la reclusione forzata della quarantena, eccetto arrestare il pensiero e proteggere dal fuoco amico dei ricordi. Questi, anzi, sembrano quasi muoversi a un ritmo più veloce, cospirando con il futuro, tratteggiando la forma della prossima nuova normalità. Così Annunziata ha vissuto e raccontato il suo isolamento casalingo, afflitto dalla consapevolezza che nessuna porta chiusa è capace di tenere fuori la minaccia potenziale del contagio. In una celebre Bustina di Minerva, Umberto Eco racconta del rapporto che ognuno può avere coi libri che ha in casa. Quelli letti e quelli in attesa del loro spazio. Qui l’autore dà corpo e forma a quell’immagine, imbastendo una conversazione con le letture più care e stimolanti e quelle programmate: così prende in prestito stralci e citazioni dalla biblioteca dei ricordi, che restituisce ogni volta nuovi, aggiunti di qualcosa. L’eco della pandemia finisce sullo sfondo grazie a protagonisti inattesi: un gatto che inconsapevolmente ha toccato corde che si credevano mute, un uccello che si è prestato alla metafora della liberazione. Infine, il conforto di una compagnia di amici, vicini e lontani, cui si offre e si chiede l’esorcismo della paura, attraverso lo scambio di allegria e leggerezza. Le parole della quarantena di Annunziata sembrano venire da un tempo lontano, per parte andato, per altra tutto ancora da pensare. Da dove sto scrivendo? Spesso si chiede Annunziata. Lo scoprirà chi vorrà chiedersi: da dove sto leggendo?


Francesco Nardi
LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2020
ISBN9788866472681
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    Parole dalla Quarantena - Leo Annunziata

    napoletano.

    I

    Giungono dalla quarantena.

    Sono parole che stanno vivendo un trauma. Mostrano l’avvenuta frattura e la significano.

    Ogni singolo discorso fatto in clausura è collocato in un duplice registro interpretativo. Dire, come pure ho detto appena sveglio: Oggi è una bella giornata, sta a indicare che il sole splende in cielo. Anche quattro mesi fa questa frase indicava il sorgere del sole e il sollievo mattutino nello scoprire che il temporale notturno non aveva lasciato traccia. Ma se oggi la interrogo in base alla sua provenienza: Da dove sto parlando? mi si schiude una dimensione esistenziale inimmaginabile quattro mesi fa. Sto parlando da un luogo fino ad ora inabitato. Come ci suggerisce la pratica scientifica, pretende non un’occupazione fugace ma uno stabile dimorare. È questa la nuova casa che toccherà ammobiliare. Le mura domestiche hanno da sempre rappresentato l’accogliente rifugio, il porto sicuro, la visibile barriera tra il focolare e il mondo esterno. Oggi la stessa casa non protegge dalla trasmissione del virus. Una volta chiusa la porta non ci viene garantita alcuna protezione. La porta resta aperta. E il disagio per questa situazione aumenta. S’insinua nelle nostre abitudini e le destabilizza. Il nostro naturale commercio con le cose del mondo subisce una mortale interruzione. Il divieto ad uscire fa crollare d’un tratto il mondo di ieri. Il linguaggio si fa claustrofobico. Sottratta mobilità alle parole, ristagnano nell’aria. Galleggiano come isole che, causa nubifragio, hanno i collegamenti con la terra ferma interrotti. Si scoprono inadatte ad esprimere quello che sta accadendo.

    Ieri me lo sono imposto: vado a fare la spesa. Ho impiegato un’ora per mettere in sequenza gli atti che questa espressione implicava e implicherà. Nell’ordine: indossare mascherina e guanti, prepararsi ad una lunga fila fuori il supermercato, temere che il distanziamento sociale non sarebbe stato rispettato. Una volta entrato: toccare solo gli alimenti che si vuole comprare, scegliere solo quelli realmente utili, fare in fretta. Una volta metabolizzato tutto questo, ho lasciato perdere. Non per codardia ma per stanchezza. Un vero e proprio affaticamento mentale dovuto al fatto che, fin da quando ero studente universitario fuori sede, andare a fare la spesa ha significato cose ben diverse. Staccare dallo studio, camminare lentamente tra i reparti, osservare e toccare nuovi prodotti, comprare solo quelli inutili. Tanto le provviste che saziano le portavo dal paese.

    Dunque ho desistito e sono rimasto in casa: dopotutto stiamo accumulando riserve di cibo che potrebbero sfamare un reggimento di soldati!

    Questa espressione la usava sempre mia nonna quando raccontava a noi nipoti le storie della sua guerra. La ripeto a me stesso e sorrido. Mai avrei immaginato che mi sarebbe servita per interpretare il presente. Un tempo, il nostro, poco incline a rammemorare e trasmettere quelle storie. Di questa come di altre storture, ammesso che lo siano, non ho mai sentito il bisogno di rammaricarmi. E anche oggi non me ne lamento. Semplicemente registro una cosa che mi è capitata: l’affiorare di parole antiche che in qualche modo appartengono al mio oggi più di quanto sia capace di scorgere e giustificare. Sedimentate nel e violate dal quotidiano parlare, quelle storie riemergono reclamando maggiore attenzione. Non foss’altro che per ricordarci di un tempo, non troppo lontano, segnato dalla guerra e dalla fame... Mia nonna che sfugge ai Tedeschi, questa l’immagine che mi ha accompagnato per due giorni. O forse tre. Una fuga che non ho visto, una donna giovane e soldati altrettanto giovani che non ho mai conosciuto, ma la scena limpidamente si staglia davanti ai miei occhi. Disegnata sulla parete del mio studio, mi ha fatto compagnia per due giorni. O forse tre.

    Contare i giorni è diventata, tra le tante, un’altra inutile attività. Non solo perché, come si suol dire, le ore si susseguono uguali, scandite come sono da una ristretta abitudine primordiale e casalinga. Quanto perché la clausura mi restituisce una diversa percezione del tempo. Meno innocua e più straniante. Ridotte al minimo le solite occupazioni, costretti in casa per necessità e non per scelta, si sta in una durata continua. Pesante. In un persistente dormiveglia. Stancante. Questo tempo mi restituisce con forza e senza infingimenti il mio stesso passare. L’accumularsi di queste ore, silenziati i movimenti esterni, la spasmodica e ossessiva attenzione a ciò che sta capitando o può capitare al mio corpo, mi fanno sentire prossima la possibilità della morte.

    Da dove sto parlando ora?

    Certamente ho preso a prestito queste ultime espressioni dal giovane che più di vent’anni fa sbatteva la testa su Essere e tempo di Heidegger. Superare l’esame di teoretica significava aver compreso, almeno in parte!, l’analitica esistenziale. Alla domanda inerente la distinzione tra l’autentico e l’inautentico essere per la morte era impossibile sfuggire. Ora più di allora. Ma il quesito è radicalmente mutato. Allora mi apparteneva in modo inautentico: ero un normale studente che voleva superare l’esame e che, vista l’età, a tutto pensava fuorché alla possibilità di mo-rire.

    Oggi, questa possibilità incombe. S’impone come l’essenza propria di questi giorni. Ci reclama. Ci interroga.

    Me la sono ritrovata affianco un pomeriggio piovoso. Ospite indesiderato. Stavo leggendo un giallo. In questa quarantena leggo solo gialli o noir. Stavo per scoprire l’assassino. Complice un acuto dolore alla spalla, mi ha investito l’angoscia della morte. Immobile ho avuto paura... del vuoto. Una volta alzatomi, accortomi che la spalla migliorava, ero convinto che l’ospite se ne fosse andato, vista la mia brusca accoglienza. Al contrario è diventato una presenza fissa. Benché sia un pessimo padrone di casa ha deciso di restare. E, cosa inaudita, credo che mi stia affezionando alla sua silenziosa presenza.

    Da più parti si sente dire che con il virus toccherà conviverci, nel piccolo mi sto allenando. Questa forzata e a tratti piacevole convivenza sta producendo anticorpi che in futuro mi saranno utili. Almeno spero.

    Se è vero che l’uomo è tale perché contestualmente vede la morte e occulta la visione, pena la sua stessa sopravvivenza, molto probabilmente ci stiamo preparando a parole che non saranno più in grado di nascondere, dissimulare, distanziare non una generica possibilità di morire ma la concreta possibilità di morire qui

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