Roma sotto scacco. Da Annibale a Scipione l'Africano
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Roma sotto scacco. Da Annibale a Scipione l'Africano - Antero Reginelli
© Copyright 2019 by Antero Reginelli
Via Enrico Ferri 16
00046 Grottaferrata - Roma
e-mail: anteroreginelli@yahoo.it
Finito di scrivere a marzo del 2019
Indice
Illustrazioni
Introduzione
CAPITOLO PRIMO
Sagunto
CAPITOLO SECONDO
Anno 218 avanti Cristo
Inizia una nuova guerra
Battaglia del Ticino
Battaglia del Trebbia
CAPITOLO TERZO
Anno 217 avanti Cristo
Inverno/inizio primavera
Intanto in Spagna
Inverno a Roma
Battaglia del lago Trasimeno
Quinto Fabio Massimo Dittatore
Nello stesso tempo in Spagna
Due Dittatori
CAPITOLO QUARTO
Anno 216 avanti Cristo
La battaglia di Canne
Diciannovenne autorevole
Paura a Roma
Annibale e Pacuvio
A Roma e a Cartagine
Operazioni in Campania
Gli ozi di Capua
CAPITOLO QUINTO
Anno 215 avanti Cristo
Primi mesi
I nuovi Consoli
In Spagna
Il conflitto si estende
Guerra di logoramento e riconquista
Geronimo
Elezioni a Roma
CAPITOLO SESTO
Anno 214 avanti Cristo
Primavera
Un esercito di schiavi valorosi
La spada di Roma
Annibale a Taranto
I fatti di Siracusa
Sembrava che la guerra si fosse spostata dall’Italia in Sicilia
Nuovi teatri di guerra
CAPITOLO SETTIMO
Anno 213 avanti Cristo
Il giovane Scipione alla ribalta
Battaglia di Arpi
Buone notizie dalla Spagna
In Italia meridionale, in Sicilia e a Roma
CAPITOLO OTTAVO
Anno 212 avanti Cristo
Lo scandalo Postumio
A Taranto
La battaglia di Benevento
L’assedio di Capua
Taranto, Metaponto, Turi
Siracusa
212 avanti Cristo in Spagna
Lucio Marcio Settimio
CAPITOLO NONO
Anno 211 avanti Cristo
L’affaire Gneo Fulvio Flacco
La battaglia di Capua
Hannibal ad portas
Accadde a Capua
Caio Claudio Nerone in Spagna
Publio Cornelio Scipione il giovane
Altri avvenimenti dopo Capua
CAPITOLO DECIMO
Anno 210 avanti Cristo
Subito problemi per i nuovi Consoli
Salapia, Taranto e Sicilia
Scipione in Spagna
In Italia
Inverno
CAPITOLO UNDICESIMO
Anno 209 avanti Cristo
Colonie ribelli
Marcello contro Annibale
Fabio Massimo a Taranto
Nuove alleanze in Spagna
Consensi a Roma
CAPITOLO DODICESIMO
Anno 208 avanti Cristo
Aretini e Tarantini
Le operazioni dei Consoli
In Africa e in Grecia
Tempo di elezioni
Pericolo Asdrubale
CAPITOLO TREDICESIMO
Anno 207 avanti Cristo
Asdrubale Barca in Italia
Nel Meridione
La battaglia del Metauro
Sembrava la Spagna tranquilla
Marco Livio e Claudio Nerone a Roma
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Anno 206 avanti Cristo
Annibale non combatte
La battaglia di Ilipa
Strano incontro
Iliturgi e Castulone (Cazlona)
Corbi e Orsua cugini
Scipione malato
Lelio e Marcio
Punire gli Ilergeti
Massinissa e Magone
Scipione a Roma
CAPITOLO QUINDICESIMO
Anno 205 avanti Cristo
Dispute in Senato
Preparativi di guerra
Scipione, Lelio e Magone
I fattacci di Locri
In Spagna quell’estate
CAPITOLO SEDICESIMO
Anno 204 avanti Cristo
Il caso Locri
La partenza
Breve storia di Massinissa
Prime operazioni di guerra
Estate in Italia
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Anno 203 avanti Cristo
Con il pensiero rivolto all’Africa
Si comincia a fare sul serio
Battaglia navale
Sofonisba e Massinissa
Richiesta di pace
Digrignando i denti
Trattative
Annibale sbarca
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Anno 202 avanti Cristo
Romani e Cartaginesi preoccupati
L’incontro
La battaglia di Naraggara detta anche di Zama
Trattative di pace
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Anno 201 avanti Cristo
Ambasciatori a Roma
La pace
CAPITOLO VENTESIMO
Gli anni successivi
Nuovo incontro
Straordinaria coincidenza
Teatro di guerra

Campagna in Campania (autore Cristiano 64)

Annibale verso Roma

Campagna d’Africa

Autore Cristiano64
Introduzione
Avevo pensato per titolo a L’elmo di Scipio
, ma ho preferito Roma sotto scacco. Da Annibale a Scipione l’Africano
, meno impegnativo.
C’è molto Tito Livio, un po’ di Polibio, altre ricerche e qualche sprazzo di fantasia, tutto, comunque, fedele a quanto scritto dagli storici. Cos’altro dire in un’introduzione?
Forse che è la straordinaria avventura di due grandi condottieri, un Cartaginese e un Romano, in una guerra iniziata per la conquista del mondo, diventata per difendere il proprio paese: evento non nuovo nella storia.
O ricordare alcune frasi ad effetto: Odierai i Romani per tutta la vita
; Hannibal ad portas
; Se i cittadini di Roma vogliono eleggermi anche se non ho l’età richiesta, vuol dire che ce l’ho
; Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur.
(Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata); Ingrata patria non avrai le mie ossa
.
Epiche imprese? Il primo attraversamento delle Alpi di un grande esercito; sedici anni di Annibale a scorrazzare per l’Italia alla guida di truppe eterogenee; Roma che risorge dopo ogni batosta.
Oppure ancora elencare i protagonisti principali, personaggi notissimi, oltre ai due super generali: Quinto Fabio Massimo detto il Verrucoso, poi il Temporeggiatore; Claudio Marcello, la spada di Roma
; Asdrubale Barca, fratello di Annibale, Magone, pure lui fratello di Annibale, i Numidi Massinissa e Siface e la Cartaginese Sofonisba.
Le battaglie? Ticino, Trasimeno, Canne, Nola, Capua, Cartagena, Metauro, Ilipa, Zama.
Basta, inizio con il primo capitolo.
CAPITOLO PRIMO
Sagunto
La prima guerra contro Cartagine era terminata da sei anni quando, nel 235 avanti Cristo, nacque a Roma Publio Cornelio Scipione, detto anche l’Africano, di Publio Cornelio Scipione (chiamato il Vecchio) e di Pomponia. Parecchio tempo dopo, nel momento del suo massimo splendore politico, la gente di Roma favoleggiò che fosse il frutto di una divina concezione, nato, come Alessandro Magno, dall'unione della madre con un grande serpente, visto giacere una notte con lei e scomparso al sopraggiungere della servitù. Tale prodigio non fu mai smentito da Cornelio, anzi tentò con abilità, di renderlo credibile con il non negarlo né confermarlo apertamente.
Tre anni prima, nel 238 avanti Cristo, Amilcare, detto Barak
, che in Punico significa fulmine
, latinizzato in Barca
, padre di Hannibal (significa dono di Baal
), aveva iniziato una spedizione militare alla conquista di territori nella penisola Iberica, allo scopo di risollevare le sorti del proprio paese, sull’orlo di una grave crisi economica dovuta al pagamento delle pesanti indennità di guerra a Roma e alla perdita della Sicilia e della Sardegna.
La campagna era andata avanti a gonfie vele fino quando, nel 228 avanti Cristo, Amilcare morì in battaglia.
Scipione era un bimbo di 7 anni, Annibale un giovanotto di 19.
Acclamato dai soldati, venne nominato comandante delle truppe Puniche in Spagna Asdrubale Maior, detto anche il Bello, il marito di una delle figlie di Amilcare, nonché suo amante. Di carattere diverso dall’amato predecessore, le conquiste proseguirono con successo anche sotto il suo comando, più con la forza della diplomazia che con quella delle armi.
Comunque, all’orizzonte erano minacciose le cupi nubi di una nuova guerra: i Cartaginesi ancora non avevano digerito la precedente sconfitta ed erano indignati per la superbia dei Romani; i Romani erano irritati perché i Punici, già vinti, non la smettevano di avere mire espansionistiche e li provocavano. Impossibile non chiudere la faccenda in modo definitivo. In poche parole, i Cartaginesi odiavano con tutta l’anima i Capitolini, ricambiati con altrettanta forza. A dimostrazione di ciò, è significativo un aneddoto dell’epoca: raccontano che mentre Amilcare Barca stava compiendo un sacrificio agli Dei prima della partenza per la Spagna, chiamò il figlio Annibale, di nove anni (era nato nel 247 avanti Cristo a Cartagine), e gli disse:
«Giura, Annibale! Giura che finché vivrai, odierai con tutto te stesso i Romani.»
Annibale rispose toccando un oggetto sacro, con una fermezza inusuale per un bambino:
«Te lo giuro!»
E andò con il padre in Spagna: da allora mai il giovane Barak dimenticò quel giuramento.
Intanto la sistematica penetrazione in Spagna di Asdrubale il Bello continuava indisturbata da Roma, impegnata in una difficile guerra nell’Illiria e minacciata dai Galli in Italia settentrionale. L’espansione durò fino al 226, quando le parti rinnovarono, definendolo nei dettagli, un vecchio Trattato che stabiliva il fiume Ebro come limite massimo alle conquiste Cartaginesi.
Scipione aveva 9 anni, Annibale 21.
L’Urbe, tuttavia, aveva conservato, anche dopo il nuovo Trattato, l’alleanza con la colonia greca di Sagunto, ricca città situata 200 chilometri a sud del fiume e a 4 dal mare, la quale avrebbe dovuto mantenere la propria libertà pur essendo in una regione nella sfera d’influenza Punica.
Calma per un quinquennio, fino a quando, nel 221, Asdrubale il Bello venne trucidato a pugnalate dal fedele servo di un Principe Celtibero, condannato a morte mediante crocifissione dal Cartaginese (alcuni storici dicono sia stato ucciso da un mercenario Gallo per questioni di donne) e le cose in Spagna cambiarono radicalmente.
Scipione era un quattordicenne che già manifestava indubbie doti di valore, Annibale un ventiseienne in procinto di guidare una grande armata.
Subito dopo le onoranze funebri del generale, le truppe acclamarono Annibale comandante dell’esercito, un giovane che coniugava in sé grande coraggio, prudenza, innata intelligenza politica e profonda conoscenza degli uomini, virtù accompagnate però da tanta crudeltà. Era stato addestrato, fin da bambino, alla dura vita militare, si allenava con cura, per cui aveva una straordinaria forza fisica che conserverà oltre i 50 anni. Educato dal precettore, lo Spartano Sosilo, alla rigida disciplina Punica e Greca, Annibale non beveva mai più di mezzo litro di vino a pasto, era capace di dormire a comando, anche per terra e solo con un mantello militare, sopportava, senza manifestare sofferenza, sia il caldo che il freddo.
Era amato dai soldati.
Di temperamento simile al padre, quindi del tutto opposto al cognato, fece subito capire agli Spagnoli, e ai Romani, che la musica era cambiata rispetto a prima: niente più diplomazia per conquistare nuovi territori ma uso delle armi. In più, rispolverò il progetto sognato dal genitore, quello di una guerra di rivincita contro Roma, odiata nemica di sempre.
Annibale s’impegnò, tra il 221 e il 220 avanti Cristo, a sottomettere tutte le popolazioni iberiche situate a sud del fiume Ebro, dimostrando, già in questi primi scontri, di possedere straordinarie capacità militari.
Solo la città di Sagunto, alleata dell’Urbe, si era salvata dai piani bellicosi del generale Cartaginese in virtù del Trattato. Ma da come si muoveva, i Saguntini sospettarono un imminente attacco per cui chiesero protezione a Roma.
I Senatori indugiarono, si persero in mille chiacchiere inutili, alla fine decisero di inviare ambasciatori sul posto a verificare la situazione ma prima della partenza, nel marzo del 219, giunse la notizia che Annibale aveva assediato la città: era come una dichiarazione di guerra alla quale Roma non rispose con prontezza. Infatti, i Patres iniziarono ad analizzare la situazione. Discussero, esaminarono, vagliarono se intervenire in Spagna, se portare guerra in Africa o se mandare una delegazione a Sagunto per imporre ad Annibale la cessazione delle ostilità.
Scipione era un sedicenne in gamba, Annibale un ventottenne in guerra.
Mentre a Roma si cavillava, non solo l’assedio proseguiva, i Cartaginesi tentarono pure un assalto in massa che non si rivelò una passeggiata: Sagunto aveva solide fortificazioni e difensori valorosi, tanto che perfino Annibale venne gravemente ferito ad una gamba da una tragula, un giavellotto usato dai Galli, munito di cinghia mediante la quale poteva essere recuperato. Dopo il ferimento del generale, i soldati impauriti abbandonarono il combattimento e il tentativo di prendere la città fallì.
Per un po’ di giorni, i Cartaginesi non tentarono assalti alle mura, in attesa della guarigione del comandante; i coloni Greci non azzardarono sortite; in Senato, a Roma, finalmente, terminarono le discussioni: prevalse la posizione più prudente, quella di inviare ambasciatori in Spagna a parlamentare con il prestigioso rappresentante della famiglia Barca.
Frattanto Annibale si era ristabilito e gli Africani ripresero le attività per preparare un nuovo, imponente assalto che fu condotto quando ebbero a disposizione nuove e potenti macchine da guerra. Erano tanti i Punici, alcuni storici dicono 140.000 armati, che si scatenarono contro i bastioni di Sagunto: attaccarono da più parti fino a che, sotto i poderosi colpi degli arieti, una parte delle mura crollò creando una breccia talmente ampia che gli eserciti si schierarono per la battaglia come fossero in campo aperto. I Saguntini sulle macerie, sorretti dalla forza della disperazione, i Cartaginesi all’esterno, certi che sarebbe bastato un ulteriore piccolo sforzo per conquistare la città.
Il combattimento fu molto cruento. Valorosi, i Saguntini reggevano l’urto degli assalti e rispondevano con la loro letale arma incendiaria da getto, la falarica, un’asta di legno con una punta di ferro a sezione quadrata, lunga 90 centimetri, fatta in modo da poter essere avvolta con stoppa intrisa di pece, che veniva infiammata. Riuscivano a resistere grazie ai frequenti lanci di questi giavellotti di fuoco che trapassavano le armature degli assalitori e ne trafiggevano il corpo o se colpivano lo scudo, spargevano addosso ai malcapitati schizzi incandescenti e fiamme micidiali. Insomma, quelle armi terrorizzavano gli Africani e li respingevano.
Durante una delle fasi più cruciali del combattimento, annunciarono ad Annibale che erano sbarcati ambasciatori provenienti da Roma. Non ci pensò un attimo, Barak gli inviò incontro alcuni suoi delegati per avvertirli del pericolo che avrebbero corso se si fossero avvicinati alla città e che il generale, vista la criticità del momento, non aveva tempo per riceverli. In poche parole, li dirottarono a Cartagine.
E la battaglia infuriava sempre più violenta. Ad un certo punto, però, tutti i cittadini della colonia greca si precipitarono urlanti a sostegno dei propri soldati e, insieme, contrattaccarono con impeto travolgente, sbaragliarono lo schieramento dei Cartaginesi e li costrinsero a rifugiarsi al riparo delle fortificazioni.
Nuovo tentativo fallito di prendere la città.
Nonostante lo smacco, a Sagunto Annibale non mollava, nello stesso tempo i delegati Romani raggiunsero Cartagine e chiesero al Senato di interrompere l’assedio della colonia Greca, loro alleata, e la consegna del comandante delle truppe assediatrici che aveva violato il Trattato del 226 avanti Cristo.
Solo Annone, acerrimo avversario politico della famiglia Barak, dichiarò, di fronte ai Senatori muti, di essere d’accordo con gli ambasciatori. Disse che non dovevano affrontare una nuova guerra contro Roma, che mai sarebbero stati in pace con i Capitolini finché fosse rimasto in vita uno dei Barcidi, che Annibale era un guerrafondaio, che li avrebbe portati alla rovina, che il loro generale assediava Sagunto ma sarebbe stata Cartagine a ricevere i colpi dell’ariete Romano.
Propose, quindi, di intimare ad Annibale di ritirare le truppe dalla colonia Greca, di consegnarlo ai Capitolini e di risarcire i danni ai Saguntini.
Nessuno degli altri Senatori, tutti filo annibaliani, lo sostenne, affermarono che erano stati i coloni Greci ad iniziare la guerra, che Roma preferiva l’alleanza di Sagunto a quella di Cartagine e liquidarono gli ambasciatori con parole di sdegno.
Nella prima metà di novembre, i delegati rientrarono a Roma a riferire in Senato che i Cartaginesi avevano avuto un atteggiamento di netta chiusura alle loro richieste. Arrivarono anche delegati Saguntini a sollecitare di smetterla con le parole e di passare ai fatti: famosa la loro frase Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur.
(Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata). Avevano proprio ragione: il giorno dopo arrivò la notizia della caduta della loro città.
Infatti, sotto le mura della colonia Greca erano proseguiti scontri violenti, alternati a febbrili trattative ma le dure condizioni imposte da Annibale per interrompere l’assedio erano inaccettabili tanto che i Saguntini le avevano sempre rifiutate. Alla fine però, dopo l’ennesimo assalto, in seguito al crollo di una torre delle mura, i Punici erano riusciti a vincere la resistenza degli assediati e, dopo otto mesi di tentativi, a sfondare. Entrati in città, l’avevano devastata. Oltre che distribuire ai soldati l’enorme bottino, Annibale aveva ordinato di uccidere tutti gli uomini adulti filoromani: una strage crudele.
Terminato il saccheggio, lasciato un presidio militare a controllare la città, l’esercito Cartaginese si spostò a sud per svernare.
Era la fine del 219 avanti Cristo: di fatto, iniziava la seconda guerra Punica.
CAPITOLO SECONDO
Anno 218 avanti Cristo
Inizia una nuova guerra
Il Senato di Roma decise di preparare la guerra. Affidò per sorteggio le Province ai nuovi Consoli; la Spagna toccò a Publio Cornelio Scipione, padre del futuro Africano, a Tiberio Sempronio Longo la Sicilia. I Patres ordinarono pure il reclutamento di nuove truppe.
Inizio 218 avanti Cristo: Annibale trascorreva la stagione fredda a Nuova Cartagine (Cartagena); i Consoli armavano le legioni e la flotta; il Senato inviò altri ambasciatori a Cartagine per scongiurare la guerra ma non ci fu niente da fare.
Finalmente, il Barcide era riuscito a trascinare il suo paese in un nuovo conflitto contro l’odiata Roma e, per ottenere l’agognata rivincita, aveva in mente un piano temerario: attaccare la Penisola non per mare - le navi Romane dopo la prima guerra punica avevano il controllo del Mediterraneo e per lui non c’erano porti a disposizione per sbarcare in Italia - ma attraverso le Alpi, magari passando lungo la strada costiera. Per farlo doveva assicurarsi l’amicizia dei popoli che avrebbe incontrato durante la marcia. Cosa non troppo difficile, infatti, dopo la vicenda di Sagunto, la credibilità di Roma come alleata protettiva era fortemente compromessa, sia in Spagna che tra i Galli.
Riorganizzato l’esercito, Annibale, prima della partenza, aveva spedito in Africa, a scopo difensivo, parte delle truppe spagnole, affidato la Spagna conquistata al fratello minore Asdrubale dotandolo di adeguate risorse militari e navali, poi, a maggio del 218 a.C. iniziò la lunga marcia verso l’Italia.
Superato l’Ebro con 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e una quarantina di elefanti, in un paio di mesi sottomise alcune popolazioni locali ancora alleate di Roma e lasciò contingenti militari a presidiarle.
Attraversò i Pirenei con un esercito di 50.000 fanti e 9.000 cavalieri, congedò i soldati che vedeva troppo stanchi o spaventati dalle difficoltà dell’impresa. Proseguì facendo ricchi doni ai capi dei Galli per avere la possibilità di attraversare indisturbato il loro paese.
Ad agosto, arrivato alle foci del Rodano con 38.000 fanti e 8.000 cavalieri perché c’erano state anche delle defezioni tra gli alleati, si rese conto di non poter entrare in Italia seguendo la strada costiera, bloccata dall’esercito di Scipione padre, sbarcato con le legioni a Marsiglia. Litorale precluso: risalì il fiume, lo superò nei pressi della confluenza con l’Isere e, verso metà settembre, le truppe presero a salire sull’aspra catena alpina in direzione del Col de Traversette, vicino il Monviso: mai nessuno l’aveva attraversata con un esercito, eccettuato il semidio Ercole Graio, cioè Greco (per questo quel tratto è chiamato Alpi Graie).
Non abituati al freddo della montagna, uomini, animali da soma ed elefanti fecero molta fatica, soffrirono, però riuscirono a raggiungere la pianura Padana dopo una ventina di giorni di marcia alternata a duri combattimenti con le tribù montanare incontrate durante l’impervio percorso e prima che la neve impedisse il loro passaggio.
Nello stesso tempo, in Italia del nord i Galli Boi e gli Insubri, sollecitati da Annibale, attaccavano le colonie romane: scontri armati gravi a Piacenza e Modena, motivo per cui, il Console Cornelio Scipione fu costretto ad imbarcare l’esercito a Marsiglia, approdare a Pisa, condurlo in quella zona, sistemare la faccenda e tentare di bloccare Annibale una volta sceso dalle Alpi. Aveva anche inviato una parte delle legioni guidate dal fratello maggiore Gneo Scipione il Calvo in Spagna per attaccare Asdrubale.
In pianura, nel territorio dei Galli Taurini, i Cartaginesi si accamparono un po’ di giorni a riposare, stremati dalla fatica, dal freddo e dalla fame. Erano rimasti 20.000 fanti, 6.000 cavalieri, 10.000 tra cavalli e muli e 37 elefanti.
A Roma, la notizia che le truppe Cartaginesi avevano messo piede in Italia, passando attraverso le Alpi, era arrivata come una pugnalata: città frastornata, incredula, impaurita.
Battaglia del Ticino
L’abbondanza dopo la penuria, un bagno ristoratore per la pulizia del corpo dopo tanta sporcizia, il riposo dopo la fatica avevano provocato una certa rilassatezza nei soldati di Annibale, comunque, nel momento in cui si sentirono pronti, impugnarono le armi contro gli ostili Taurini, espugnarono la loro unica città, forse la futura Augusta Taurinorum (Torino), e si diressero ad est.
Attraversato il Po su un ponte di barche per portare le legioni ad affrontare il nemico, il Console Cornelio Scipione si avvicinò al Ticino e pose l’accampamento poco distante dalla riva del fiume: i Cartaginesi erano accampati a qualche chilometro, sull’altra sponda.
Metà Novembre, eserciti a contatto: ormai, ci sarebbe stata di sicuro battaglia, forse il giorno successivo, per cui nel pomeriggio, il Console chiamò in adunata i soldati e li incitò ad affrontare i nemici senza timore. Disse loro, come se fossero i continuatori e gli eredi della guerra dei padri, che avrebbero combattuto contro chi avevano già tante volte sconfitto per terra e per mare, che si sarebbero battuti contro chi stava pagando da un ventennio una pesante indennità di guerra a Roma, che avrebbero lottato contro soldati ai quali avevano già preso come bottino la Sicilia e la Sardegna.
Proseguì con:
«Quindi, in questo combattimento voi avete la stessa vocazione che di solito hanno i vincitori, loro hanno quella dei vinti. Tra l’altro sono pochi rispetto a noi e neanche nel pieno delle forze: sono ombre, fantasmi di uomini, morti di fame e di freddo, sporchi, fiaccati dalle rocce e dai dirupi delle montagne.
Temo che dopo la battaglia la gente pensi che a sconfiggere Annibale siano state le Alpi e non voi….
Gli occhi delle nostre mogli e dei nostri figli ci guardano, comportiamoci qui come se lottassimo sotto le mura di Roma. E dobbiamo vincere, dopo di noi non ci sono altri eserciti che possano impedire ai Cartaginesi di colpire l’Urbe, né altri Alpi da attraversare che ci consentano di organizzare una difesa.»
Per esortare i suoi uomini, invece, Annibale usò più i fatti che le parole. Inquadrato l’esercito, ordinò di gettare in mezzo ai soldati i prigionieri montanari in catene e le loro armi galliche, poi gli fece chiedere da un interprete se c’era qualcuno disponibile a cambiare la propria sorte di futuro schiavo: avrebbero dovuto combattere uno contro l’altro a coppie, il vincitore avrebbe ottenuto la libertà, le armi e un cavallo per partecipare alla prossima battaglia contro i Romani.
Si candidarono tutti, cosicché iniziarono una serie di duelli che infiammarono gli animi sia dei prigionieri che dei Cartaginesi.
Cadaveri distesi a terra gli sconfitti; arruolati nell’esercito i vincitori.
Alla fine, il Barcide radunò i soldati e gli parlò:
«Quello che avete visto non era soltanto uno spettacolo ma lo specchio della vostra condizione. Voi non siete in catene ma a destra e a sinistra vi chiudono due mari, il Tirreno e l’Adriatico, e non avete navi per una via di fuga. Intorno ci sono due fiumi, il Po, difficile da attraversare e il Ticino e alle spalle le Alpi, già superate con molta fatica quando eravate freschi e nel pieno delle forze, dunque, qui non abbiamo altre possibilità se non vincere o morire. In caso di successo, però, non crediate di avere per premio soltanto la Sicilia e la Sardegna, sottratte ai nostri padri, avrete l’intera ricchezza di Roma, accumulata in tanti trionfi.»
Affermò molte altre cose, che venivano da una serie di vittorie in Spagna, che erano diventati soldati esperti e imbattibili mentre l’esercito dei nemici era un’accozzaglia di reclute, sconosciute al loro comandante, che i Romani, gente crudele e arrogante, dopo la conquista di Sagunto avevano chiesto la sua e la loro consegna per punirli con atroci supplizi. E concluse:
«Se ciò che vi ho detto è scolpito nei vostri cuori, avete già vinto… E non temete di morire in battaglia, il disprezzo della morte è l’arma migliore che gli Dei Immortali hanno fornito all’uomo per vincere.»
La mattina appresso, gli uomini di Publio costruirono un ponte sul Ticino e, mentre lo fortificavano per proteggere il passaggio delle truppe, Annibale inviò Maarbale con una squadra di 500 cavalieri Numidi a devastare i campi degli alleati del popolo Romano: aveva il compito di risparmiare quanto più possibile i Galli e di incitarli ad impugnare le armi contro il loro comune nemico.
Messo in sicurezza l’attraversamento del fiume, il Console ordinò di far passare l’esercito e di accamparsi a circa 7 chilometri da Victumulae (tra Ivrea e Biella), dove si erano piazzati i Cartaginesi. Annibale, pensando che fosse ormai imminente la battaglia, richiamò in tutta fretta Maarbale e, nella convinzione che, prima di un combattimento, le parole e gli ammonimenti non fossero mai abbastanza, chiamò di nuovo i soldati in adunata e pronunciò un altro discorso. Giurò di dare ricche ricompense ai soldati in caso di vittoria: terreni in Italia, in Africa o in Spagna a seconda dei singoli desideri; denaro a chi avesse preferito contanti alla terra; facoltà per gli alleati di ottenere la cittadinanza Cartaginese; libertà agli schiavi che partecipavano allo scontro. Al termine, si levò un coro eccitato di consensi e tutti chiesero a gran voce di iniziare la battaglia.
Barak, il fulmine, era un gran trascinatore.
Al contrario, nel campo Romano non regnava altrettanto entusiasmo, a parte la preoccupazione di scontrarsi contro i temibili uomini di Annibale, i soldati erano atterriti da un paio di avvenimenti di pessimo augurio: un lupo entrato nella tendopoli, dopo aver sbranato chi aveva avuto il coraggio di affrontarlo, era riuscito a fuggire incolume; uno sciame d’api si era posato sull’albero che sovrastava la tenda del Console.
Comunque, nonostante i presagi sfavorevoli, Cornelio Scipione uscì con la cavalleria e i fanti armati alla leggera per andare ad osservare da vicino, e di persona, il genere e la consistenza delle truppe nemiche: il diciassettenne figlio guidava la sua guardia del corpo, formata da giovani cavalieri. Anche Annibale aveva lasciato il campo con la cavalleria in esplorazione dei dintorni.
I due battaglioni si avvicinarono senza saperlo, nessuno vide l’altro fino a quando i fitti polveroni sollevati dai cavalli segnalarono la rispettiva presenza. Si fermarono entrambi e si prepararono a combattere. Il Console piazzò la fanteria leggera in prima linea, insieme alla cavalleria dei Galli, dietro i Romani e le truppe scelte degli alleati. Annibale mise al centro dello schieramento i cavalieri Cartaginesi e Ispanici, sulle ali i Numidi che cavalcavano senza briglie.
Non appena si alzarono alte le grida di guerra, i fanti capitolini armati alla leggera scapparono dietro le seconde linee e si scatenò una battaglia tra soli cavalieri. Fu lunga, cruenta e dall’esito incerto.
Scompiglio. Mucchi selvaggi di uomini e bestie.
Molti soldati cadevano da cavallo e combattevano a piedi, altri smontavano per aiutare i compagni in difficoltà. Diventò, in gran parte, uno scontro tra fanteria, poi dalle ali i Numidi aggirarono gli schieramenti e piombarono alle spalle dei Romani. Terrore tra le loro fila, accresciuto, subito dopo, dal ferimento del comandante Cornelio.
Al comando dei giovani scelti per proteggere la vita del Console, Publio, appena vide il padre ferito e un gran numero di nemici che lo circondavano, non perse un attimo: ordinò ai soldati della squadra di accorrere, insieme a lui, in soccorso ma quando si rese conto che i suoi avevano paura e non si sarebbero mossi, si gettò da solo nella mischia. Si fece largo tra gli uomini, uccise un paio di Cartaginesi, a quel punto anche gli altri intervennero, respinsero gli Africani e portarono in salvo il Console.
Con questo gesto eroico, il futuro Africano fece il suo ingresso nella storia.
Ma la situazione era, ormai compromessa, nell’assalto che seguì, i fanti Romani armati alla leggera furono di nuovo i primi a fuggire in disordine. Scapparono fino all’accampamento, i cavalieri, invece, circondarono il Console e il figlio per proteggerli e in file compatte ripiegarono lentamente e senza affanno.
Una batosta di poco conto ma con effetti psicologici negativi sui Romani, positivi sui Punici.
La sera dello stesso giorno, benché ferito, Scipione propose di conferire al figlio la corona civica, di solito assegnata a chi salvava la vita ad un cittadino Romano in battaglia, ma il giovane la rifiutò dicendo che quel gesto si ricompensava da sé
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Fu il primo scontro con Annibale, non una grande battaglia, comunque una sconfitta che aveva dimostrato a Scipione la netta supremazia della cavalleria Cartaginese sulla sua in campo aperto, dunque, la Pianura Padana non era certo il terreno ideale per combattere. Doveva spostare le truppe: anche se molto sofferente per la ferita, la notte successiva ordinò di preparare in silenzio i bagagli, portò a marcia veloce e senza far rumore l’esercito verso il Po, lo attraversò sul ponte di barche ancora non demolito e ripiegò dalle parti di Piacenza, alla ricerca di un campo di battaglia con stretti spazi di manovra per la cavalleria nemica.
Annibale s’accorse dello spostamento troppo tardi per inseguire i Romani, tuttavia, i suoi catturarono circa 600 soldati che si erano attardati sulla riva sinistra del fiume a sciogliere le barche, ma non riuscirono a passare per mancanza di zattere, portate via dalla corrente. Le truppe di Barak impiegarono due faticosi giorni ad oltrepassare il Po, piazzarono l’accampamento a 9 chilometri da Piacenza e la mattina successiva si schierarono in pianura per il combattimento.
I Capitolini non risposero.
A disgrazia si aggiunge di solito disgrazia: durante la notte, nel campo di Scipione, i Galli delle milizie ausiliarie tradirono. Duemila fanti e duecento cavalieri uccisero le sentinelle di guardia nelle quattro porte, uscirono e passarono dalla parte dei Cartaginesi.
Annibale li accolse con piacere e li mandò nei rispettivi paesi a sobillare i concittadini.
Convinto che quel comportamento preannunciasse una più estesa ribellione dei Galli, come fece buio, Cornelio Scipione ordinò di spostare il campo tra le colline e i boschi oltre il fiume Trebbia, posti disagevoli per la cavalleria Africana, e rinforzò i servizi di guardia. Scelse una zona ben fortificata dalla natura e difendibile con facilità perché riteneva opportuno aspettare il collega Console, Sempronio Longo, che stava portando a nord le legioni dalla Sicilia, inoltre soffriva molto per la ferita.
Battaglia del Trebbia
Romani sulla difensiva, Cartaginesi imbaldanziti dalla vittoria nello scontro sul Ticino ma preoccupati per le difficoltà di procurarsi viveri. Per risolvere il problema, Annibale inviò un battaglione nel villaggio di Clastidio (odierna Casteggio, nell’Oltrepò Pavese), dove i Capitolini avevano ammassato grandi quantità di frumento e, con una somma non certo ingente - 400 monete d’oro - i Punici corruppero il Prefetto della guarnigione, un certo Dasio da Brindisi. S’impossessarono così del deposito che sarà il granaio del Barcide durante la campagna militare nel nord Italia.
Non bella la situazione nel piacentino, in Sicilia, invece, le cose erano andate molto bene. Aiutati da Gerone, Basileus (Re) di Siracusa, fedele alleato, i Romani avevano respinto una flotta di navi Puniche venute depredare le coste: una ventina di quinqueremi con più di 2.000 uomini a bordo erano state catturate, le altre messe in fuga.
Quando giunse nell’isola il Console Sempronio Longo, forte del successo di Gerone, imbarcò parte delle truppe, sbarcò a Malta, possedimento Cartaginese, e la conquistò, quindi tornò indietro, si diresse a difendere Vibo, attaccata da navi nemiche. Però, durante l’avvicinamento alla costa calabra, gli consegnarono una lettera del Senato che lo avvertiva dell’arrivo in Italia di Annibale e gli ordinava di dirigersi a nord con le legioni. Troppi impegni: angosciato, inviò 25 navi in Calabria agli ordini del Pretore Emilio, lui, con il resto della flotta e dell'esercito si diresse a Rimini e raggiunse il collega accampato nei pressi del fiume Trebbia.
Primi di Dicembre del 218 avanti Cristo: tutte le forze Romane erano concentrate contro Annibale, i Consoli, insieme, lo fronteggiavano, dunque, era chiaro che o lo sconfiggevano con quelle truppe o per Roma sarebbero stati guai, assai seri.
Ebbene, uno dei due, ferito, fiaccato nel fisico e nel morale, preferiva prendere tempo, ritardare lo scontro, aspettare guarigione e primavera, l’altro, insuperbito dai successi in Sicilia, voleva combattere al più presto, nonostante non fosse la stagione adatta e facesse molto freddo.
Battaglia gliela offrì il comportamento dei Punici: si trovavano nel territorio abitato dai Galli, i quali, in mezzo ai due potenti popoli in guerra tra loro, parteggiavano ora per uno, ora per l’altro a seconda del momento, sperando di avere vantaggi dalla parte che avrebbe vinto ma questo atteggiamento aveva irritato Annibale tanto da indurlo a razziare i territori dei dintorni anche per rifornirsi e fare bottino da distribuire ai soldati.
Per giorni, 2.000 fanti, 1.000 cavalieri Numidi e alcuni Galli saccheggiarono campi, villaggi e case fino alla riva del Po, azioni alle quali volle rispondere Sempronio con il pretesto di difendere i popoli alleati. Nonostante il parere contrario di Cornelio Scipione, inviò i suoi cavalieri e 1.000 fanti armati alla leggera al di là del Trebbia, questi incontrarono i Cartaginesi sparpagliati in giro a razziare e fecero una strage. Ne uccisero parecchi, gli altri, inseguiti, scapparono terrorizzati nell’accampamento dal quale, però, uscirono un gran numero di soldati a piedi e a cavallo e si scatenò una violenta battaglia.
Fu cruenta, con molti morti da entrambe le parti e senza vinti né vincitori: nessuno fuggì, nessuno si ritirò in disordine. Sempronio, invece, considerò sua la vittoria perché i nemici avevano subito un maggior numero di perdite.
Tale presunto successo, ottenuto contro gli uomini che avevano sconfitto il collega nel fiume Ticino, lo inorgoglì e lo invogliò ancora di più alla battaglia.
In effetti, le truppe avevano ripreso coraggio, gli animi degli uomini si erano rasserenati e, tranne Cornelio Scipione, nel campo Romano non c’era nessuno che volesse rinviare lo scontro decisivo.
«Cosa penserebbero i nostri padri, abituati a combattere sotto le mura di Cartagine, se vedessero i loro figli, due Consoli e due eserciti Consolari che tremano di paura, rinchiusi nell’accampamento mentre gli odiati nemici razziano e conquistano l’Italia dalle Alpi al Po?»
Questo diceva sedendo al letto del collega ferito e nel Pretorio ai Tribuni e ai Centurioni come se tenesse un discorso d’incitamento ai soldati. Lo sollecitavano a combattere subito sia i prossimi Comizi per l’elezione dei nuovi Consoli - non voleva lasciare la gloria della vittoria ai neo eletti - sia l’opportunità, con Scipione ancora malato, di poter attribuire il successo solo a se stesso. Così, quantunque Cornelio manifestasse, in ogni circostanza, il proprio dissenso, ordinò alle legioni di prepararsi ad affrontare i Cartaginesi.
Anche Annibale cercava una buona occasione per combattere al più presto, prima della guarigione del migliore dei due comandanti, contro truppe poco esperte e con gli alleati Galli ancora pieni di entusiasmo e di energie. Perciò, quando gli riferirono che i Romani erano pronti alla battaglia, cominciò a cercare un posto adatto per un agguato.
Lo trovò nei pressi di un piccolo corso d’acqua chiuso ai lati da pareti alte, coperte da alberi, cespugli, rovi e ricco di anfratti dove poteva nascondere la cavalleria. Era una fredda mattina di dicembre, ci condusse il fratello Magone e gli disse:
«Questo è il posto che dovrai occupare. Scegli 100 uomini della fanteria e 100 cavalieri da portare con te. Vorrei incontrarli prima di sera.»
Nel tardo pomeriggio, Magone presentò i 200 al fratello, Annibale li guardò e gli parlò:
«Siete il fior fiore dei soldati che ho a disposizione, ognuno scelga altri nove uomini simili a voi e andate con Magone ad occupare il posto che vi indicherà. Domani battetevi con il solito coraggio!»
Dopo un po’ i 2.000 uscirono dal campo.
All’alba, umida e gelida, del giorno appresso, il 18 dicembre, Annibale inviò i cavalieri Numidi a ridosso del fortino a provocare i Romani con lanci di sassi e frecce. Sempronio Longo, che non aspettava altro, mandò fuori prima la cavalleria, poi 6.000 fanti, infine l’intero esercito: tutto fatto con eccessiva prescia.
Neve mista a pioggia e vento, in più fiumi e paludi rendevano il clima della zona umido, addirittura polare, cosicché uomini e cavalli, usciti in fretta e furia, senza mangiare e con pochi indumenti, tra l’altro non adatti a proteggersi dal freddo pungente, furono subito in difficoltà. Quando poi, per inseguire i Numidi furono costretti ad attraversare il fiume e i soldati ne uscirono bagnati fino al petto, erano talmente intirizziti da impugnare le armi a malapena.
Marciarono così per chilometri. Mano a mano, sempre più infreddoliti, perdevano le forze per la stanchezza e, con il passare del tempo, per la fame. Nel frattempo i Cartaginesi, che avevano mangiato senza fretta davanti ai fuochi accesi fuori le tende e si erano spalmati addosso l’olio per impermeabilizzare la pelle, avevano lasciato il bivacco ma solo dopo essere stati avvertiti che i nemici erano giunti di là del Trebbia.
Arrivarono di slancio nel campo di battaglia, Annibale schierò in prima fila i frombolieri delle Baleari e gli uomini con le armi leggere, in seconda fila la fanteria pesante, il resto dell’esercito e i soldati migliori. Sulle ali aveva posizionato la cavalleria e gli elefanti. In tutto erano 20.000 della fanteria pesante, 10.000 cavalieri, 8.000 tra fanteria leggera e soldati delle Baleari.
Sempronio Longo aveva a disposizione 18.000 Romani, 23.000 alleati Latini, 4.000 cavalieri e un numero imprecisato di Cenomani, unici Galli rimasti fedeli a Roma, tutti intirizziti dal freddo.
Ad iniziare il combattimento furono i frombolieri e la fanteria leggera: scagliarono un nugolo di frecce che procurò parecchi inconvenienti allo schieramento Capitolino, messo in difficoltà anche dalla cavalleria dei Numidi contro la quale i cavalieri di Sempronio resistevano a stento. I fanti, invece, sebbene infreddoliti, stanchi e affamati, reggevano bene l’urto anche se sommersi dai dardi dei frombolieri, da una parte, e dall’altra pressati dagli elefanti. Ma, all’improvviso, dal nulla sbucò Magone con i 2.000 che li assalì alle spalle provocando una gran confusione e molta paura tra le fila dei Romani. Pur incalzate da ogni parte, le schiere rimasero compatte, fino a quando gli elefanti, spostati sull’ala sinistra, misero in fuga precipitosa i Galli Cenomani.
Fu l’evento che decise la battaglia.
Alla vista delle truppe ausiliarie sbaragliate, più di 10.000 uomini impauriti, non trovando varchi per la ritirata, tentarono di aprirsi con la forza un passaggio attraverso il centro della formazione nemica. Ne nacque uno scontro di inaudita violenza. Come agli animali ai quali la mancanza di vie di fuga centuplica le forze, i Romani, dopo aver ucciso molti nemici, sfondarono e ripiegarono a Piacenza.
E gli altri? Una buona parte fu uccisa dagli uomini di Annibale, alcuni morirono nell’attraversare il Trebbia, quelli scappati qua e là raggiunsero in ordine sparso i compagni a Piacenza, i rimanenti, pochi, tribolarono parecchio ma, alla fine, stremati, infreddoliti, insanguinati, rientrarono nell’accampamento.
In tutto, Sempronio Longo perse 20.000 uomini, anche i Cartaginesi uscirono malconci dallo scontro ma con perdite molto inferiori e con parecchi elefanti morti: vittoriosi e intorpiditi dal freddo, tornarono nelle tende, al caldo.
Erano talmente stanchi che neanche festeggiarono la vittoria e durante la notte non si accorsero che i Romani avevano abbandonato il campo per trasferirsi a Piacenza. Poi, i Consoli spostarono uno dei due eserciti a Cremona per distribuire su più colonie il peso del mantenimento invernale delle legioni.
Così sistemate, le armate Capitoline e Puniche attesero la fine dell’inverno.
CAPITOLO TERZO
Anno 217 avanti Cristo
Inverno/inizio primavera
La notizia della sconfitta planò sull’Urbe come un nero fantasma minaccioso. Due Consoli, di cui uno richiamato dalla Sicilia, e due eserciti Consolari erano stati sbaragliati dal crudele Hannibal. Quali altri comandanti e con quali legioni avrebbero difeso la città? Ormai vedevano le orde Cartaginesi sotto le mura e in questo clima di terrore, dopo mille difficoltà affrontate per non incocciare nei nemici che imperversavano di qua e di là del Po, giunse a Roma Sempronio Longo sia per minimizzare la sconfitta che per tenere i Comizi Centuriati.
Le assemblee elessero Consoli, per il 217 avanti Cristo, Gneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote (per la seconda volta) e Sempronio Longo se ne tornò a nord per svernare con l’esercito.
Pure nei quartieri invernali la situazione non era rose e fiori
per i Romani, complicata dai cavalieri Numidi che scorrazzavano nella regione e impedivano i rifornimenti: solo scarsi viveri raggiungevano, via Po, gli accampamenti. Perfino un centro di deposito provviste nei pressi di Piacenza era stato assalito di notte dagli annibaliani, per fortuna le sentinelle avevano lanciato l’allarme e, in assenza di Sempronio, era intervenuto con la cavalleria Cornelio Scipione, ancora non del tutto ristabilito. Comunque, il Console, ormai ex, aiutato dal promettente giovane figlio, aveva impedito la conquista del prezioso magazzino.
Nello scontro Annibale fu ferito e per un po’ di giorni i Cartaginesi se ne restarono tranquilli.
Non riuscirono, invece, i Capitolini ad impedire l’occupazione di un altro deposito in località Victumulae, dove, dopo averlo conquistato, gli uomini di Barak si lasciarono andare anche ad una sanguinosa strage di cittadini accorsi a difenderlo.
In seguito, il freddo divenne intollerabile, non consentì altre sortite e le armate se ne rimasero rintanate nei rispettivi accampamenti, ma ai primi, incerti, segni di primavera Annibale mosse verso l’Etruria (Toscana). Non fu un’idea geniale: superare l’Appennino Tosco-Emiliano si rivelò più difficile delle Alpi.
Arrivati in mezzo alle montagne, i Cartaginesi vennero investiti da una furiosa tempesta di nevischio e pioggia, con un vento gelido