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La corsa indiana
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La corsa indiana

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La corsa indiana, libro d’esordio di Tereza Boučková, romanzo breve o racconto lungo come più ci aggrada chiamarlo, fu pubblicato per la prima volta nel 1988 in un’edizione samizdat e vinse nel 1990 il prestigioso premio letterario Jiří Orten. Narrata in prima persona è una prosa vivace, originale e riccamente autobiografica che segue la vita della protagonista dalla nascita fino all’età adulta. Quando l’autrice è la figlia di Pavel Kohout, noto intellettuale dissidente, scrittore e drammaturgo, attivo nel circolo delle persone più in vista dell’underground di quegli anni, una storia autobiografica non è esattamente quel che si dice innocua, specialmente se la narrazione si attiene ai fatti accaduti non risparmiando le personalità più note (nel racconto compare, col soprannome di Monologo, anche l’ex presidente Vaclav Havel che la Boučková ha avuto modo di conoscere da vicino), pur celandole sotto ironici soprannomi. Una scrittura catartica che ripercorre l’infanzia vissuta con la madre Alfa e i due fratelli Luna e Raggio di Sole, dopo che il padre, qui chiamato l’Indiano, li abbandonò per trasferirsi all’estero con Musa, la sua nuova donna, dimostrando verso di loro un disinteresse quasi assoluto. E poi la giovinezza, gli amori e le difficoltà della madre Alfa, il matrimonio, la ricerca disperata di un figlio. Infine l’adozione di due bambini, le gioie e difficoltà della nuova vita, e finalmente, inaspettato, un ventre che germoglia. “Il tuo libro è pieno di rabbia e bugie. Mi auguro che non lo pubblicherai così. Ecco l’Indiano, che dopo dodici anni è tornato a casa”. Ma Tereza Boučková il suo libro lo pubblicò. Esattamente come l’aveva scritto.
LanguageItaliano
Release dateJun 28, 2020
ISBN9788833860268
La corsa indiana

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    La corsa indiana - Tereza Bouckova

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    La corsa indiana

    La corsa indiana

    La donna dei dintorni di Tiro

    Zone di felicità, zone di silenzio

    Un passo avanti, uno indietro, giravolta

    La quaglia

    I

    II

    III

    IV

    V

    Quando ami un uomo

    © 2007 Tereza Boučková

    © 2017 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Titolo originale:

    Indiánský běh, Křepelice, Když milujete muže

    (Odeon - Euromedia Group, Praha 2016).

    Translation of this book was realized

    with the support of the Ministry of Culture

    of the Czech Republic

    Ringraziamo il Ministero della Cultura

    della Repubblica Ceca per il sostegno

    alla traduzione e alla pubblicazione

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di ottobre 2018

    da A4 servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr

    Prima edizione: novembre 2018

    isbn

    978-88-3386-026-8

    Prima edizione: ottobre 2018

    isbn

    978-88-3386-003-9

    NováVlna

    ( 4 )

    A Indiano, Alfa e Valzer…

    La corsa indiana

    Indiánský běh

    La corsa indiana

    Se quella corsa su e giù per il reparto ostetricia sortì un qualche effetto, fu quello di lasciarla senza fiato. Su di me non ebbe alcuna conseguenza. Non volevo saperne di uscire da quella pancia accogliente, e me ne infischiavo se Alfa voleva arrivare in tempo per la prima. Quel giorno proruppi in pianto per la prima volta, e avevo i miei buoni motivi.

    Non ero certamente fonte di gioia. La conoscete la barzelletta?

    L’Indiano ha tre figli. Il primo, maschio, si chiama Raggio di Sole. La seconda, femmina, Bianca Luna.

    E la terza?

    Preservativo Rotto.

    A Raggio di Sole venne l’idea di metterci a sputare addosso ai passanti. Io allora non arrivavo nemmeno alla balaustra del balcone ma lui e Luna si arrampicavano sul cordone di cemento e poi, raccolta un bel po’ di saliva, lanciavano sputi da veri maestri. Puntavano dritti alla testa. Una signora, colpita in pieno, andò su tutte le furie. Urlò minacce verso il balcone, dal quale ci dileguammo in tutta fretta, e strillò qualcosa a proposito di monellacci senza un briciolo di educazione. La signora Tumpachová, sempre pronta dietro la finestra del piano terra, corse nell’atrio e insieme raggiunsero la nostra porta, suonando e battendo. Noi stavamo immobili nell’ingresso, il cuore in gola, muti come pesci.

    « Lo sappiamo che siete lì, farabutti, aprite subito », bum, bum. E a quel punto si risvegliò in me un senso di giustizia e davanti alle facce sbigottite dei miei fratelli gridai con veemenza: « Sì, sì, sono qui tutti e due… ».

    Mi trascinarono in sala zittendomi con le minacce. Indiano intanto, sotto un albero frondoso, intonava canzoni d’amore alla sua nuova fiamma.

    Un giorno venne a trovarci un signore. Il nostro desiderio di un padre prese concretamente forma. Quella sera la cosa sembrava promettente. Ci coricammo a letto come angioletti. Il mattino dopo decise di fare il bagno. Forse per lui era una cosa normale, ma la nostra vasca non era attrezzata. L’acqua calda usciva solo di mercoledì e sabato, e non era nemmeno certo. Alfa allora accese lo scaldabagno a lungo rimasto in disuso. Ne uscì un’acqua bollente e incredibilmente rugginosa e il signore ci si immerse con un’aria distinta. Noi correvamo sfrenati da una parte all’altra del bagno, scivolavamo sul linoleum, sbirciavamo entusiasti la vasca dimostrando in tutti i modi al signore il nostro affetto. Lui sprofondò fino alla punta del naso, pietrificato, e ogni nostra speranza si spense.

    Alfa ci portò al cinema a vedere un sensazionale film per bambini. Dallo schermo ci guardava il nostro recente ospite. Cominciammo a urlare a squarciagola che era quel signore che aveva dormito da noi e che aveva fatto il bagno nella nostra vasca, ma a quel punto Alfa ci stava già trascinando fuori. Proprio mentre lui volava su una palla di cannone.

    Nel parchetto sotto le nostre finestre Raggio si trasformò in un famigerato bandito. Sguainò la sua pistola di plastica davanti a una povera vecchietta e gridò: « Venticinque centesimi o la vita! ». La signora corse alla polizia e ne scaturì una misura di sorveglianza preventiva sull’educazione del primogenito da parte del comitato popolare.

    Già in prima elementare Luna organizzava festicciole con gli amici di nostro fratello in cui volavano baci veri. Io stavo tra i piedi senza prender parte a nessuna attività, perché ero molto piccola e scema, ma quando Alfa tornava dal lavoro e cominciava l’interrogatorio ribattevo con tanto ardore che ero l’unica a prenderle.

    Ogni sabato correvamo alla stazione. Alfa, noi tre bambini e i borsoni, per respirare un po’ d’aria fresca, dopo due estenuanti cambi di treno, nella casa che era nostra ad agosto, di Indiano a luglio, e conformemente agli accordi nei weekend.

    I nostri primi passi in campagna non portavano né al giardino né al fiume, erano diretti verso la dispensa, dove rimanevamo sempre ammaliati. Gli scaffali in alto erano talmente stipati di leccornie che ci sembrava di sognare. Biscottini ripieni, wafer alla vaniglia ricoperti di cioccolata, noccioline sotto vuoto, gomme da masticare di tutti i colori, marmellate e confetture nei barattolini più belli del mondo e scatole di latta piene di caramelle che già dall’etichetta sembravano così profumate e gustose da far venire l’acquolina in bocca.

    Erano gli scaffali di Indiano. E noi non potevamo toccarli.

    I nostri offrivano farina, sale, aceto.

    Luna, fin dalla nascita propensa al rischio – era per metà avvolta nel cordone ombelicale – sgraffignò una gomma da masticare, mentre io e Raggio sondavamo timidamente dove poter arraffare qualcosa senza che Indiano se ne accorgesse.

    Per la festa delle donne componemmo dentro un cuoricino la nostra prima poesia per Alfa:

    Che tu allegra possa campare

    E con noi sempre restare.

    Visto che Alfa non sembrava in grado di trovarcelo, decidemmo di pensarci noi. Fu Luna a fare la sua conoscenza. Eravamo andati in montagna nella casa vacanza dell’azienda dello zio e subito la prima mattina Luna andò a sbattere sull’unico abete che era cresciuto sulla collina e si ruppe uno sci. Mentre io e Raggio, sotto la supervisione di Alfa, ci affannavamo diligentemente sugli sci giù per la discesa dietro casa, Luna imparava a giocare a scopa e a briscola nel tepore del salone. Lo capì al primo sguardo: quel bel giocatore d’azzardo dai capelli neri sarebbe diventato il nostro nuovo papà.

    A Praga Alfa lo invitò a farci visita. Rimase otto anni.

    La sera correvamo in pigiama e in camicia da notte per tutta la sala, rifiutandoci di andare a letto. Volevamo dare ad Azzardo un bacio ma non sapevamo come. Finché a Luna venne un’idea. Corse da lui, fece finta di sussurrargli una cosa all’orecchio… e gli scoccò un bel bacio della buonanotte. Io la copiai per filo e per segno, Raggio invece si limitò virilmente a un cenno da lontano.

    Azzardo portò nella nostra famiglia le cotolette di maiale, il libretto contabile, ordine e parole straniere.

    Al primo paese ci fermammo e rimanemmo assolutamente senza fiato. Le vetrine, il parchetto curato tra casette che sembravano finte, il piccolo trattore luccicante che ci sfrecciò accanto quasi senza fare rumore.

    In quei giorni a Norimberga c’era Indiano, che a quel tempo era già un uomo di mondo, e ci invitò a fare colazione nel suo albergo. C’erano dei meravigliosi cornetti al burro che prendemmo subito d’assalto, ci spalmammo sopra le marmellate che avevamo sempre visto nella sua dispensa, tracannammo l’Ovomaltina, e quando tutti i cornetti dell’albergo furono finiti Indiano ci mandò fuori. Diede a ciascuno un po’ di marchi da spendere e si affrettò a raggiungere la sua nuova Musa, quella più grande di tutte, che probabilmente dormiva ancora.

    Il resto della giornata lo passammo a salire e scendere sulle scale mobili dei grandi magazzini e il resto del mese a litigare nella Volkswagen surriscaldata e stracolma, sopra strati di sacchi a pelo e vestiti, tra stoviglie e conserve.

    In Italia, dentro un campeggio affollato, mi venne una tonsillite acuta.

    Un dottore non potevamo permettercelo, così Azzardo decise di detergermi la gola coi cotton fioc. Io avevo già esperienza di tonsilliti e non ne volevo sapere. Quando mi rinchiuse dentro la macchina ero terrorizzata e schizzavo da una parte all’altra, perché Azzardo era capace di infuriarsi come un pazzo.

    « Farabutta… adesso ti strangolo, farabutta… »

    Alfa riuscì a strapparmi dalla sua presa e a tirarmi fuori dalla macchina. Intorno a noi si affollava un gruppo di italiani atterriti e alla mia tonsillite si aggiunsero vomito e diarrea.

    Il campeggio era troppo caro per noi. Ci rifugiammo su una spiaggia deserta fuori dalla città e lì, subito la prima notte, ci derubarono.

    Tornammo di corsa a casa. C’erano rimaste un paio di cianfrusaglie che barattammo in cambio della benzina.

    In nostro aiuto accorse una formula magica, una parola, un nome. Dubček! Viva Dubček!

    La prima notte a casa! Non c’eravamo ancora addormentati del tutto quando fummo svegliati da un grido proveniente dalla strada. Ci spaventammo molto, allora Alfa venne nella nostra stanza per tranquillizzarci e ci addormentammo di nuovo. Subito dopo lei salì in macchina con Azzardo. Volevano vedere cosa succedeva.

    Arrivati su corso Lenin eccolo. Un serpente nero che strisciava davanti a loro e si avvicinava minaccioso. Alfa realizzò che stavano avanzando contromano, se non fossero tornati di corsa indietro li avrebbero schiacciati al suolo.

    Fu il pianto di Alfa a svegliarci. E solo in quel momento lo sentimmo anche noi. Il rimbombo dei carrarmati.

    Non c’era modo di farmi capire che non si trattava di una guerra. Sulla piazza in cui fino a poco tempo prima sostava un solo carrarmato, simbolo di pace e liberazione, di carrarmati ora ce n’erano tantissimi, con sopra dei soldati sparuti. Puzzavano di nafta e sporcizia. Tutt’intorno si ammassava la folla, declamavano in ceco e in russo e i soldati li guardavano senza capire.

    Alla radio si invocava aiuto. C’era una sparatoria. Alfa strinse la radio al petto e cominciò a piangere. Luna era andata proprio lì e non era ancora tornata.

    Si palesò nel pomeriggio, Luna la pazza, e ci trascinò subito al mercato, me e Raggio, per aiutare gli anziani a portare la spesa. Di notte nella nostra strada le armate alleate spararono ancora. Ero terrorizzata e a nulla servivano le rassicurazioni del signor Horák, che abitava nella casa accanto e sosteneva che nel giro di una settimana, forse due, tutto si sarebbe chiarito. Indiano era ancora all’estero e tramite alcuni amici ci chiese di raggiungerlo.

    Alfa non riusciva a decidersi. Aveva già vissuto un’emigrazione, quando dopo la rivoluzione in Bulgaria era tornata con la sua famiglia in Boemia. Lì vivevano in una colonia ceca e aveva sempre considerato la Cecoslovacchia la sua patria, eppure Sofia, la sua città natale, le era mancata tantissimo. Non riusciva a decidersi, e dunque restammo.

    L’occupazione ci portò un unico, enorme, motivo di gioia, finalmente potemmo divorare la dispensa di Indiano.

    Ci normalizzammo. Raggio scoprì in sé nuove attitudini. Aveva imparato a ruttare a regola d’arte e passava intere giornate seduto davanti al vecchio magnetofono a registrare i suoi rutti e riascoltarli, ridendo come un matto. Sapeva ruttare la frase MARA MANGIA LE MORE ed era in assoluto il migliore del circondario.

    Luna si truccava gli occhi con la crema nera per le scarpe e sapeva baciare alla francese. Fu così gentile da disegnarmi tutto il procedimento su un foglietto, e io poi lo illustrai alle mie amiche, anche se continuavo a credere alla teoria che i bambini nascessero dall’ombelico. Di nascosto mi provai il primo reggiseno di Luna e ci ballavo dentro.

    Indiano e Musa tornarono, riempirono di nuovo la dispensa e le loro provviste invasero persino la cantina.

    La nostra vita la vivevamo a pieno durante le partite di hockej. Dopo l’incontro dei mondiali, quando Golonka sbatté il suo casco sul ghiaccio e i nostri stracciarono i russi, pazzi di gioia ci riversammo sulle strade di Praga. Non eravamo i soli a sbandierare la nostra felicità ai quattro venti. A Můstek c’era un intero corteo. Cominciammo a risalire la Vaclavské náměstí. Cantavamo: « Ivan, vai a casa che Nataša t’aspetta », la folla si faceva sempre più fitta e non si riusciva ad andare avanti.

    La piazza era piena, ma anche quelli in fondo volevano arrivare al centro di quel moto ondulatorio, dunque eravamo tutti ammassati e procedevamo a scatti attraverso la calca, sempre più pressante.

    All’improvviso sentii un dolore terribile. Mi avevano schiacciato addosso a una macchina. Non riuscivo più a respirare. Gridavo ad Alfa che stavo soffocando, piangevo e Alfa urlava: « Spostatevi! Per favore spostatevi! ». Ma nessuno sentiva. Strillavano: « Tarasov, vecchio mulo, Brežněv ti farà il culo » e non c’era modo di scappare. Ormai non riuscivo nemmeno più a piangere. Guardavo Alfa con gli occhi spalancati e sentivo il brusio del sangue nelle tempie e all’improvviso la folla si aprì e fummo trascinate verso una via laterale. Praga tuonò un’ultima volta. Sulla tomba di Jan Palach bruciavano centinaia di candele.

    I dischi volavano come piatti in un circo e nel parco scoppiavano in mille pezzi. Delle canzoni russe non rimase che un mucchio di cocci sotto il balcone. Per rendere la cosa ancora più divertente Raggio prese il fucile ad aria compressa e cominciò a colpirli. All’improvviso sgusciò dentro silenzioso e si nascose dietro le tende.

    Fuori c’era un bambino che urlava come un pazzo. Si copriva gli occhi con le mani e il sangue gli colava lungo il viso.

    Per strada risuonò la sirena dell’ambulanza, e a casa nostra il campanello.

    La ferita era vicinissima all’occhio. Di indagare sull’incidente si occupò la polizia, la minaccia era il riformatorio. Quella sera Alfa chiese ad Azzardo, che non era solito immischiarsi nella nostra educazione, di punire Raggio.

    Lui prese la cinta e dalla sua stanza arrivarono delle urla così terribili che tutti lo implorammo di smettere.

    Dov’eri, Indiano,

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