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L'ultima rosa
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Ebook285 pages3 hours

L'ultima rosa

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About this ebook

Una maestosa villa antica, ora sede di una scuola, domina la collina di Mombello; i raggi del sole la cercano con insistenza fin dal primo mattino e un bosco fitto quanto una foresta le fa da mantello. Le sue rigogliose fronde hanno anche altro compito, ben più arduo: limitare la vista stonata sui resti dell'ex manicomio sito nelle vicinanze.
Le anime perse di Mad e Paul s'incontrano proprio qui, in una notte come tante altre; l'indecifrabile destino che li ha pretesi insieme li costringe a ricongiungersi sullo stesso sfondo di tenebra anche in seguito, senza sosta, alla ricerca di una verità celata nei medesimi spazi per lo più abbandonati.
Inizia così il viaggio nella notte, tra favola e incubo. L’esplorazione di una secolare dimora sospesa nel tempo, ricca di inedita storia, orribili segreti e inviolate meraviglie; anche la continua scoperta di Paul e della sua cupa mutevole essenza, prima insensibile ed isterica, poi avvolta di crescente umanità, sempre più attratta da Mad e dalla sua indomabile vitalità di sedicenne in bocciolo, un magnetico vortice rosso in continua metamorfosi.
La verità così ardentemente ambita si svela ai loro occhi fin troppo in fretta, in tutta la sua crudeltà: il destino ha in serbo vita per un corpo solo ed entrambi vogliono decidere quale. Una feroce battaglia senza esclusione di colpi prende il via, chi la spunterà? La grezza determinazione di Mad o l'astuzia di Paul?
Il tempo è scaduto, resta solo un momento, il momento che ridisegna un'intera esistenza.
LanguageItaliano
PublisherElga Frigo
Release dateJun 26, 2020
ISBN9788835855538
L'ultima rosa

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    L'ultima rosa - Elga Frigo

    amore.

    Parte Prima

    Nulla

    Che posto schifoso.

    Proprio il posto giusto per me.

    Chissà quante ne sono capitate qui dentro; gente morta ammazzata, esperimenti sui pazzi, tossici che si nascondono per farsi una dose, delinquenti in cerca di riparo o altri reati.

    Adesso ne spunterà fuori uno a momenti.

    Magari un maniaco abbandonato da queste parti, uno di quelli pericolosi, con le ossessioni omicide.

    Sbucherà all’improvviso da una di queste stanze disastrate mettendosi a urlare, mi prenderà per il collo e mi trascinerà dentro, abuserà di me come più gli piace e poi mi ucciderà. Mi strozzerà a mani nude o mi riempirà di botte fracassandomi le ossa; in alternativa mi farà a pezzi, poi riempirà un sacco e se ne andrà via.

    Oppure un drogato, che mi bucherà con la sua siringa e poi getterà il mio cadavere tra le macerie.

    Potrebbe capitarmi anche un vagabondo; quello però mi lascerebbe in pace, anzi no, prima mi darebbe una bella botta in testa e poi mi porterebbe via tutto. Forse però rimarrei viva.

    Anche un vandalo non è da escludere; ma quelli sono conigli come me, si nasconderebbe e se la darebbe a gambe non appena sono lontana.

    Forse qui ci sono anche fantasmi o altre presenze paranormali, demoniache, che tra poco reclameranno la mia presenza all’oltretomba.

    Fammi sbirciare un po’ qui dentro.

    Vecchie stanze da manicomio, ci sono ancora i letti con i lacci per tener fermi i malati di mente. Ne conto otto, disposti su due file addossate alle pareti con un largo corridoio al centro; chissà come strillavano quando li costringevano a quella maniera o provavano ad aprirli per portare avanti le loro assurde ricerche. Riecheggiano nella mia testa le urla agghiaccianti, i lamenti, i tentativi di resistenza e fuga, la paura, anzi, il puro terrore che invade anche me in quest’istanti. Mi figuro tanta violenza, cattiveria a ripetizione, di tutti i generi, abbandono, disperazione, come nei campi di concentramento nazisti; forse qui non era tanto diverso, perché in fondo gli uomini non cambiano mai.

    Riconosco anche degli strumenti da sala operatoria, affilati e pronti all’uso nonostante tutta la decadenza che mi circonda, medicinali scaduti, materassi fatti a pezzi e gettati a terra con la spazzatura; è pieno di mucchi di roba abbandonata qui intorno, dev’essere passata un sacco di gente prima di me.

    Nell’angolo una sedia a rotelle, vecchia e malconcia, poi resti di armadi e scaffali sfasciati. Anche degli oggetti personali: una spazzola, un pigiama, uno specchio rotto, schegge di vite impazzite e dimenticate.

    E le scritte sulle pareti? Le illumino col cellullare.

    Fatte con bombolette spray, rosso e nero; le parole sono colate in gocce sulle chiare piastrelle lucide, ancora più da film horror.

    Vediamo un po’ cosa dicono.

    ‘La fine comincia qui’, forse vero.

    ‘Satana è con te.’

    ‘Se sei qui è perché sei da manicomio’.

    Ecco, questa l’hanno scritta apposta per me.

    Anche un abbozzo di murales vagamente ispirato all’urlo di Munch. Ma perché mai un’artista dovrebbe trascorrere del tempo in un posto del genere? Forse per lo stesso motivo per cui ci sono finita dentro anch’io.

    Meglio andar via, ma quando volto le spalle a quest’inferno mi sale l’inquietudine, forse Satana mi salterà addosso proprio ora.

    Sono di nuovo in corridoio.

    Ancora viva.

    Alla mia destra scorrono le stanze dei ricoveri dalle spesse porte di ferro, alla mia sinistra ampie vetrate per lo più fracassate, rigogliosamente attaccate dall’edera e dal muschio, come i pavimenti e le pareti, come tutto: anche la natura si è impegnata per nascondere al resto del mondo questo disastro.

    Forse ai tempi d’oro era anche un bel posto.

    Gli alti soffitti a volta, le ariose stanze, i lunghi corridoi piastrellati e dipinti di bianco. C’è dignità e rispetto in questi ampi spazi; forse mi sono sbagliata, forse non ho capito niente di cosa succedeva qui dentro.

    Ma comunque di tutto ciò che era ora non è rimasto più nulla, proprio com’è capitato a me.

    Non fermarti, vai avanti.

    Rumore di vetri rotti e calcinacci sotto i piedi; avanzo così nella notte, rompendo il silenzio assoluto solo col rumore dei miei passi incerti. A parte noi non sembra esserci davvero altro.

    Il mio respiro è affannato ma non posso dire di avere il cuore in gola, a me non capiterà mai.

    Il torace però punge, un‘assoluta novità rispetto alle mie lente giornate monotone. Ho fatto bene a venir qui solo per questo.

    All’improvviso avverto una raffica di vento che mi s’infrange contro, poi cambia direzione, circondandomi velenosa e insistente all’altezza del busto, risalendo infine verso il collo, come il cammino strisciante di un serpente. Dopodiché si dirige altrove, travolgendo alcune porte e finestre nella fuga.

    Puro terrore è ciò che provo ora, mi volto di scatto.

    Cos’è?!

    Chi sei?!

    Cosa vuoi?!

    Ma niente, sarà stato tutto frutto della mia fantasia malata.

    Cerco di riprendermi dallo spavento, poi proseguo nella quiete.

    Raggiungo la fine del lungo corridoio e scavalcando una finestra sono nuovamente all’aperto, immersa nell’inconsistente nebbia di una ruvida notte di marzo.

    Per adesso ce l’ho fatta senza farmi ammazzare o scoprire.

    Ecco in fondo la villa-scuola e le sue palme, la mia vera destinazione.

    Attraverso le volte del porticato aperto fino a raggiungerne l’entrata. La porta è chiusa a chiave ma io l’ho rubata stamattina dalla presidenza, nessun problema.

    Sono all’ingresso, salgo le rampe del nobile scalone antico, accompagnata ancora dal solito fiato corto, dal rumore indeciso dei miei passi e dalla luce del cellulare. No, c’è anche qualcos’altro: ancora quella strana brezza nervosa che mi avvolge. Ma da dove arriva? Qualcuno avrà dimenticato una finestra aperta, qui ce ne sono così tante.

    Una volta in cima allo scalone riconosco la sequenza di aule disposte lungo il corridoio.

    Apro la vecchia porta di legno della mia classe, scricchiola tutto ma tanto nessuno può sentire.

    Entro e si richiude da sola alle mie spalle, sbattendo, quasi colpendomi; sobbalzo ancora ma so di essere ormai al sicuro.

    Per sicurezza però chiudo a chiave.

    Ce l’ho quasi fatta, devo solo raggiungere la porta finestra.

    Ci sono.

    Scosto le tende e ne apro entrambe le ante vetrate.

    Mi accoglie altra aria fresca sulla faccia; quassù la nebbia del sottobosco non arriva, in questa porzione di cielo notturno ammiro anche una falce di luna brillante.

    Arrivata, ecco il terrazzo della facciata est della villa.

    Da qui domino tutto, anche la mia malattia.

    L’avevo capito fin dal primo giorno in questa scuola, è stato in quel momento che ho deciso che sarei tornata, ma solo quando sarebbe stato possibile godermi questo spazio di nobiltà in solitudine.

    Mi siedo a cavallo della balaustra in cemento, il mio destriero; la gamba sinistra è all’interno del terrazzo, la destra ciondola nel vuoto come la mia anima persa, la schiena è appoggiata alla parete.

    Sto così per un po’, senza pensieri, finché un altro capriccio di vento mi fa volar via il cappello.

    Non smette e non tace, avvolgendomi senza sosta, comunque tutto ossigeno in più.

    E per un attimo penso:

    ‘Vorrei fosse un ragazzo a tenermi così.’

    Sto davvero bene.

    Intorno c’è sentore di primavera, dovessi morire ora questo è l’ultimo profumo che vorrei ricordare.

    Il parco della villa con i suoi giardini e le sue serre si dispiega ai miei piedi, al di sotto di questo principesco terrazzo.

    La notte lo avvolge di un blu profondo, affievolendo i suoi difetti, riportandolo con l’inganno agli antichi fasti.

    È molto tardi ma non ho sonno, non mi capita quasi mai di averne. Tutta colpa di quelle schifezze che mi obbligano a buttar giù a tutte le ore.

    Ne approfitto subito, non mi capita spesso di ricevere regali.

    Mi accendo una sigaretta e penso agli ultimi giorni, andare oltre è troppo difficile.

    La stronza che gestisce la casa famiglia è insopportabile, proprio come le sue prediche. I muri ci sono, ma la famiglia dov’è? E la scuola? Agraria, non sapevano proprio più dove sbattermi.

    Ma forse hanno ragione loro, d’altronde è la terza volta che scappo, forse ritentare la fuga da questo posto sperduto sarà davvero impossibile.

    Ma chi se ne frega.

    Perché io sono il nulla.

    A nessuno frega nulla di me.

    Quindi finché sarò parte di questa vita continuerò a essere il nulla.

    Mi confonderò nel mondo come sono passata inosservata in questa notte, finché la morte mi porterà via.

    Io aspetto solo questo.

    Di essere ancora il nulla, solo in un posto diverso.

    Niente

    Io sono niente.

    Vago disperato e inquieto tra questi spazi dimenticati e maledetti, domandomene il perché, cercando invano di rimettere insieme il mio passato.

    Ma io non ero niente.

    E niente sono ancora.

    Il mio destino è rimanere per sempre qui, in solitudine.

    Di questo luogo conosco tutto eppure non ho ricordi.

    Una gabbia.

    Una prigione.

    Ecco cos’è.

    E la mia follia invisibile l’eternità cui sono condannato, la mia penitenza. Ma perché?! Perché ho meritato tutto questo?!

    Se solo potessi capirlo!

    Io non….ma cos’è questo rumore?!

    Chi si permette di varcare l’ingresso del mio inferno?!

    Chi è così coraggioso o così pazzo?!

    Percorro adirato ogni anfratto più veloce che posso, la mia furia getta ovunque scompiglio ma alla fine il mistero è svelato.

    Una ragazza.

    In fondo al corridoio del piano terra di uno dei vecchi edifici del manicomio la riconosco.

    Una ragazza, qui, nel cuore della notte?

    Avanza circospetta, guardandosi continuamente intorno, bocca semi aperta.

    Indossa un largo maglione che le cade dalle spalle e dai fianchi, mentre le maniche troppo lunghe le nascondono completamente le mani; è nero, forse un tentativo di confondersi con la tenebra, così come sono scuri i jeans aderenti strappati sulle ginocchia, infilati dentro un paio di anfibi semislacciati, infine una vecchia borsa lisa a tracolla.

    La notte è buia ma la freschezza del suo pallido volto vivo mi raggiunge e mi ferisce.

    Qui non ti voglio!!!!!

    La collera ha il sopravvento e le corro incontro; voglio che sussulti di paura e se ne torni subito da dov’è venuta!

    Esci subito fuori da qui!!!!!

    La urto con violenza, si spaventa.

    Vattene!!!!!

    Ma niente, si ricompone e prosegue.

    Ho detto vattene!!!!!

    Glielo urlo nelle orecchie, girandole intorno come un matto, senza risultato; questa è sorda o è troppo stupida per capire.

    Sbatto alcune porte.

    Colpisco delle finestre.

    È atterrita ma non si arrende.

    Ma chi diavolo sei?!!!!!

    Che cosa vuoi?!!!!!

    Frustrazione è ciò che provo ora.

    Nonostante tutto è ancora in vantaggio lei.

    Mi supera e tenta di uscire da una finestra. Rischia di tagliarsi in mezzo a tutte quelle schegge, ma è davvero così strafottente di tutto?

    E dov’è diretta ora?

    L’ingresso della scuola di agraria.

    La seguo.

    Sale le scale e raggiunge l’aula che dà sul terrazzo principale.

    Provo a spaventarla di nuovo.

    Il colpo inferto alla porta riecheggia negli ampi spazi vuoti ma ancora una volta non demorde.

    Si chiude dentro a chiave, ma cos’ha in mente di fare?!

    La seguo ancora.

    Vuole suicidarsi? Questo lo impedirò, dalla a me la tua vita se non sai cosa fartene!

    Ma no, mi sono sbagliato.

    Si sistema sulla balaustra.

    Mi siedo vicino a lei e la osservo.

    Sedici anni, non di più.

    Il suo volto di luna mi abbaglia ancora.

    Ha delicati occhi ambra e labbra di rosa, capelli rossi.

    Non resisto, decido di toccarla.

    E poi qui dentro è tutto mio, anche lei.

    Deve capirlo subito, come l’hanno capito tutte le ragazze di questa scuola; che bacio quando e dove mi pare, innocui passatempi con cui tener a bada la mia follia invisibile.

    Non vedo l’ora che arrivi la bella stagione per alzar loro la gonna, per infilarmi dentro i loro reggiseni.

    Con lei però non posso, ci vorrebbe un tifone per scollarle di dosso quei vestiti pesanti.

    E quell’alto maglione invernale le nasconde anche il collo.

    Posso solo sfiorarle il viso e i capelli.

    Ma non mi basta.

    Voglio vederla completamente, le faccio volar via il cappello di lana.

    Si china e lo raccoglie, poi torna al suo posto.

    Ora voglio baciarla, dove e come sarò io a deciderlo.

    Perché ansima? I suoi polmoni si sollevano a fatica.

    Sono incuriosito, miro al torace.

    Ma improvvisamente mi sento come svuotato, sensazioni umane chissà dove e quando imparate.

    Sono costretto a indietreggiare ma non mi arrendo.

    Mi sposto dietro di lei e la abbraccio, forse ha solo freddo.

    Ora sembra star meglio.

    Si accende una sigaretta.

    E piange.

    I suoi occhi si nascondono dietro una stretta fessura da cui traspare solo una malinconica scintilla rame, con la mano libera intanto si accarezza i lunghi capelli lisci.

    Lo faccio anch’io.

    Le sue dita sottili sono screpolate, violacee, le unghie smangiucchiate.

    Al pollice sinistro noto un anello in metallo satinato; quando si scosta i capelli conto anche diversi buchi all’orecchio e altrettanti piccoli cerchi argentati che li attraversano.

    Le cola il pesante trucco scuro dagli occhi, mentre con la lingua gioca col piercing al lato del labbro.

    Comunque prima o poi le bacerò quelle piccole labbra piene, solo che non mi va di farlo ora.

    Ma chi ti credi di essere?

    Non hai nulla di diverso rispetto a tutte le altre.

    Sei mia e lo sarai ogni volta che mi andrà, com’è sempre stato.

    Ora non andartene però.

    Sei la prima compagnia che buca la mia notte, il primo risveglio dalla mia solitudine.

    Io aspettavo solo questo.

    D’esser ancora vita, meglio sarebbe stato se in un posto diverso da questo.

    Maddalena

    Maddalena!

    Eh?

    Dove stai andando?

    A scuola.

    E non si sparecchia prima il tavolo della colazione?!

    Perché devo farlo io?

    Perché sei l’ultima arrivata.

    Altri ragazzi intorno se la ridono senza farsi beccare.

    Fanculo stronzi.

    Ma obbedisco.

    Oggi pomeriggio vengono gli assistenti sociali per verificare il tuo inserimento, torna subito dopo la scuola.

    Quanto tempo dovrò star qui?

    Almeno fino alla fine dell’anno scolastico.

    E poi?

    E poi non sta a me deciderlo. Tieni a mente di non combinare altri guai, di rigare dritto come fanno tutti. Non voglio problemi sotto la mia direzione.

    Sai quanto me ne frega.

    Non sei l’unica ad attraversare momenti difficili da queste parti, anzi, qui è così per tutti, se non anche peggio.

    Accidenti che delicatezza.

    Comunque tutti seguono le regole e rispettano me e gli altri educatori, contribuendo alle esigenze della casa. Anche tu dovrai fare lo stesso, altrimenti stavolta ti aspetta il riformatorio.

    Perché, questo cos’è?

    Hai preso le medicine stamattina?

    Tranquilla, la psicopatica l’ho messa a nanna.

    Non obbligarmi a controllare. La tua salute è innanzitutto una tua responsabilità, non dimenticarlo mai. Ora muoviti, altrimenti arriverai in ritardo.

    Termino i lavori forzati, poi esco senza salutare; da qualche parte mi hanno insegnato come si fa, ma sono abbastanza certa che Clelia, anche se responsabile di questa schifosa casa famiglia, non se lo meriti.

    Ma dove cavolo sono finita stavolta?

    Mombello.

    Come Monte Bello.

    C’è del vero.

    Una collina baciata dal sole, dimora di una rigogliosa pineta, situata nella periferia nord di Milano, famosa per aver dato i natali a Villa Pusterla Crivelli, addirittura quartier generale di Napoleone Bonaparte in persona, nonché per aver ospitato nei medesimi spazi uno dei più famosi ospedali psichiatrici d’Italia, poi affiancato da diversi istituti scolastici, quali la scuola di agraria dove anch’io avevo fatto il mio dimesso ingresso solo qualche giorno prima.

    Quando gli assistenti sociali mi avevano detto:

    ‘Ti trasferiamo a Mombello’,

    il primo impatto fu un vero e proprio shock,

    ‘Stavolta mi fanno internare per davvero’ ho pensato.

    Superato l’impasse iniziale dovetti però constatare che l’impatto più sgradevole l’avevo avuto con la mia nuova residenza temporanea e la sua padrona.

    Cerco di lasciarmi il peggio alle spalle.

    M’incammino a piedi verso la scuola-villa-manicomio, non è molto distante. La casa famiglia che mi ospita si trova appena al di fuori del suo alto muro di cinta, proprio ai piedi della collina, ci separano solo qualche minuto di passeggiata.

    Appena varco il portone d’uscita e mi volto riconosco il suo profilo altero, il suo terrazzo posto al secondo piano e le tante finestre in fila; come una faccia, con bocca e occhi, che sorridono, proprio a me.

    Mentre m’incammino non tolgo gli occhi di dosso dalla nobile signora.

    È presto per dirlo, ma forse mi sto innamorando.

    Perché è davvero bella.

    Maestosa e fiera, eppur così semplice.

    Domina il paesaggio dalla cima del colle, un bosco secolare ormai

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