Arte e acciaio
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Fantasy - romanzo breve (111 pagine) - «Impara l'Arte e trafiggili da parte a parte»… Bentornati a Thanatolia! Il problema è uscirne vivi.
A una giovane maga di talento e un'audace spadaccina il Continente dei Cimiteri non sembrerebbe offrire opportunità. Criminali e psicopatici stregoni, antiquari disonesti e bruti tutti muscoli ed acciaio spadroneggiano a Handelbab delle Botteghe ogni giorno più corrotta e degradata. Decomposta, è meglio dire… Ma Efrin e Francesca non accettano questo stato di cose: e a costo di affrontare tagliagole e non-morti, orrori millenari e di altre dimensioni, bestie, uomini, intrighi di palazzo, paesaggi spaventosi, dare il peggio di sé stesse… Qualcosa cambierà. O in molti moriranno. Sguainate le vostre spade, leggete libri neri! Bentornati a Thanatolia!
Il problema è uscirne vivi.
Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all'Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo I senza tempo, vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell'orrore e di fantascienza (Tristano; Qui si va a vapore o si muore; All'Inferno, Savoia!) e partecipa a diverse antologie (Orco Nero; Cerchio Capovolto; Ucronie Impure; Deinos; Kataris; Idropunk; L'Ennesimo Libro di Fantascienza; 50 Sfumature di Sci-fi). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.
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Anteprima del libro
Arte e acciaio - Alessandro Forlani
9788825408485
Introduzione ad Arte e acciaio
Il ritorno di Allessandro Forlani a Thanatolia, il Continente cimitero che ha inventato con Lorenzo Davia, è di per sé un evento da applausi e botti pirotecnici.
L'isola-continente che vive della propria morte, il cui presente, incapace di produrre ricchezza o semplice sostentamento, prospera sul saccheggio di sepolcri, tumuli o necropoli di un passato plurimillenario è un'idea che ha affascinato diversi autori che, col permesso dei creatori, ne hanno dato ciascuno una propria rappresentazione.
Questo mondo di meraviglia e orrore, città opulente, architetture barocche che s'innalzano tra distese desolate e cimiteri infiniti dove la morte si sveglia a non-vita, e da dove un'oligarchia capitalista costruisce la sua ricchezza sul sangue versato da ladri, tombaroli e mercenari è divenuta un'icona della narrativa fantastica italiana. E quindi il ritorno ad essa di Alessandro Forlani era inevitabile e prevedibile. Ma non lo era che tornasse con un Bildungsroman, un romanzo di formazione, e la storia di due donne, eroine che si sentono assai poco eroiche, in un rapporto che le cambia entrambe. Evento insolito nel Fantasy tradizionale.
Perché, sebbene una compagnia d'armi tra eroine sia stata creata già da Ludovico Ariosto con Bradamante e Marfisa che da accanite rivali divengono amiche finendo quasi per lasciare in ombra Ruggero, è raro che il fantasy abbia esplorato un vero rapporto d'amicizia paritario tra donne. Persino ora, nell'esplosione di Fantasy al femminile cui abbiamo assistito in questi anni, l'interesse si è volto più spesso all'omosessualità, spesso con la presenza di una figura dominante e una dominata, sul modello popolare Xena-Olimpia. In Arte e acciaio è un vero rapporto di amicizia quello esplorato; Erin e Francesca sono diverse per origine, carattere e disciplina, tra loro si crea una stima venata da diffidenza, che lentamente diviene incondizionata solidarietà, man mano che ciascuna aiuta l'altra a crescere. L'antagonismo tradizionale tra maga e guerriera, si pensi a Jirel meets magic di Catherine L. Moore, è superato, a formare una catena, appunto di arte e acciaio.
Un'ultima nota importante: Erin e Francesca, ma soprattutto Erin, tornano a casa, un po' come Forlani torna a Thanatolia. Attraverso un viaggio tra i vaghi mari del Nulla, gli anni dell' Altrove, delle scuole d'armi e taumaturgia, sfumano alle loro spalle sino a che la sola realtà è Thanatolia, e possono fare i conti con il passato per andare oltre, Erin addirittura sino a rientrare in un viaggio onirico nel ventre morto della madre. Vero viaggio è il ritorno, scriveva Ursula Le Guin ne I reietti dell'altro pianeta, un romanzo che seppe vincere i premi Hugo e Nebula.
Alessandro Iascy, Giorgio Smojver
1.
Efrin aprì gli occhi a quell'odore di terra e cenere che in un decennio di lontananza non aveva mai scordato. Restò sveglia stesa in branda nel buio umido della cabina, ad attendere svanisse con i sogni dell'aurora. La abbandonarono delizie e orrori, infiochirono visioni, affondarono i miraggi nella pece della notte: ma quel puzzo di cose sepolte le restò nelle narici.
Sulla pelle.
Le entrò dentro.
Si alzò seduta. Restò in silenzio. Era tesa, intirizzita. Ascoltò gli scricchiolii e i tonfi sordi sulle pareti, il soffitto, il pavimento; i rollii nel corridoio; l'eco grande delle vele, del cordame, del timone e il barrito dei motori che eruttavano vapori. La voce callida ininterrotta dei macchinari di prora e poppa. Il vocio, le corse, i passi dell'equipaggio; il tintinnare di martinelle e gli improperi degli ufficiali.
– Realtà a dritta! – urlò il nostromo – Thanatolia!
– Sono a casa!
Sulle gote le brillarono i ricordi e le promesse, la nostalgia di un'età fuggita e i propositi incendiari. La donna adulta asciugò le lacrime della ragazza di diciott'anni ch'era partita due lustri prima da Handelbab delle Botteghe, e che oggi ritornava al Continente dei Sepolcri con la vita e l'universo nei pensieri e le pupille.
Sguardi vasti, idee profonde. Le parole ed il potere.
Un marinaio bussò alla porta, si fece avanti con occhi timidi. Si rigirava il cappello di paglia gialla tra le mani grosse e sporche con il tatuaggio di un SATOR rosso:
– Ci siamo quasi: si vede terra – passò all'alloggio vicino al suo dove dormiva la spadaccina; – si preparino, signore.
Efrin buttò i pentacoli e i grimori nel borsone: con il teschio, con il calice, l'athame e la bacchetta e l'astuccio degli inchiostri e gli incunaboli consacrati. Ficcò dentro i pioli in rame, la corda, il fil di ferro e i sacchetti in tela con gli incensi planetari. Le tre vesti erano avvolte in un cartoccio di velina, tra i pochi abiti gualciti e lisi che le restavano nel guardaroba.
Nove astragali in bisaccia e monetine degli altri mondi e paesi, se qualcuno di quei conii valeva ancora qualcosa.
I bagagli erano pronti.
Coprì giubba, camicia e pantaloni di tela con una tunica in tinta autunno dal cappuccio troppo largo, rattoppata e rammendata con pezze e filo multicolori. Il cristallo di un oblò, inargentato dal Nulla esterno, la specchiò nei panni tristi di una maga alla giornata che si avviava a una carriera di incantesimi non riusciti, ristrettezze economiche, asce e un truculento pensionamento tra le fauci del demone sbagliato… casomai che ce ne fossero di giusti. Come chiunque nel Continente si occupasse di occultismo.
– La Via Nera va in discesa – la ammonivano i proverbi; la avvertiva allo stesso modo quell'immagine riflessa. E una strega non ignora tali espliciti presagi.
Efrin rise, invece: aveva un piano.
Prese il sacco sulle spalle. Sulla soglia esitò. A sincerarsi di non avere dimenticato niente di quel niente che in effetti possedeva. In realtà guardava spegnersi per sempre, in quella fioca lanterna a olio che pencolava da un trave obliquo, quella terribile e greve età che ci mentiscono così leggera. È da ragazza che ti domandano che farai della tua vita, inghiottì; una cretina di diciott'anni deve rispondere da madre e donna; e una donna più matura è affidata a una sciaquetta; alle scelte di una scema. Lei, da quella stanza di giorni persi, finiti, irrimediabili, se ne usciva con un bagaglio di attrezzature per incantesimi.
Nient'altro.
– Dimentica qualcosa? – insistette il marinaio.
Non gli rispose. Salì in coperta.
Resistette alla vertigine dell'Oceano Sottosopra.
Chi lo aveva attraversato, e provava a raccontarlo, balbettava che lì, il mare – non si trovava dove avrebbe dovuto essere… –; e in realtà neppure il cielo, ché non c'era distinzione. Acque salse piatte e verdi sciabordavano ai pennoni del vascello, e la chiglia sprofondava nel cielo cerulo luminoso le cui nubi, rade e bianche, si sfilacciavano lungo i fianchi dello scafo. O in realtà ci si accorgeva di navigare rasente l'acqua a perpendicolo delle onde e inclinati al vasto azzurro.
Altre volte l'orizzonte era un vetro fatto a pezzi, che rifletteva l'imbarcazione innumerevoli volte. Ma ognuna un po' diversa: nei dettagli delle vele; in una lettera mancante, o più, in quel nome Massinissa
sverniciato sulla prora; o l'espressione della polena scolpita in frassino – dipinta in oro – o il fazzoletto di un marinaio di vedetta sulla coffa.
– Guardi un po', signorina – il comandante un giorno si divertì: Efrin, scrutando quelle immagini col cannocchiale, sì sentì certa che la sé vera era imbarcata su un'altra nave; la loro era soltanto una vuota proiezione. Posò la lente, terrorizzata, prima che l'altra se ne accorgesse. Il più spesso attraversarono un indistinto incolore nulla i cui schizzi rasciugavano come vivido mercurio.
Le spiegarono che sì: era il Niente, per davvero.
– La via più breve tra un luogo e l'altro è non esserci mai stati, non andarci, non partire. Se non parti sei già qui: come essere tornato; se sei tornato ci sei già stato –: un marinaio attempato e calmo, pipa accesa e sguardo al vuoto, le mostrò la loro rotta su un portolano di fogli bianchi – figuriamoci salpare alle sponde della morte.
– Vivo questo e resto sana di mente… – Efrin balbettò.
Il marinaio scrollò le spalle. Si grattò, sputò tabacco.
L'equipaggio manovrò per ritornare alla realtà.
Unsero la nave con olio benedetto. Il nostromo salì dalla cambusa con un grappolo di ratti che squittivano furiosi: snudò il coltello, li sbudellò. Il loro sangue servì a tracciare un sigillo sull'assito del castello, e spiegarono i velacci con le rune ricamate. Il capitano svelò un volume da un involto di incerata: Efrin riconobbe un'edizione del Tritemio. Il pilota ed il secondo, alla ruota del timone, obbedirono il dettato e le tavole del libro. Ceri neri in grasso umano sfrigolarono sul ponte; l'aria bianca, vuota e fredda echeggiò del coro rauco di trenta anime malassortite. Rum e rutti, frutta secca e gallette mal digerite dissacrarono le rime e gli ottonari dell'incantesimo. I macchinisti si imbestialirono e insozzarono di torba le fauci fiammeggianti dei due motori dimensionali: l'orrenda macchina ingozzava terra, letame e quarti umani salati e fumava iridescente di cristalli minerali. Un lamento oltrepassato ne scaturiva da canne d'organo, che attorcigliavano in serpi bronzee il trinchetto e la mezzana.
Dai pennoni pencolarono a catene in ferro bruno i turiboli fumanti d'assafetida e amanita; croci d'ossa, argento e di corallo sbatacchiarono sul legno dei tre fusti e gli alberetti.
Magia rozza. Primitiva.
– Serve aiuto? – lei si offrì.
La ciurma rise. Canaglia, intenerita.
– Ma signorina! Ci mancherebbe! Non si disturbi! Mestiere nostro!
– Sono maga.
– Lo sappiamo.
– Ci so fare.
– Come no!
– Steganographia la so a memoria.
– Fischia, brava!
– L'ho studiata.
– Stia da parte, si fa male.
La allontanarono da quel rituale.
La nenia magica cagliava il Niente in una schiuma di vere acque, vero sale si incrostava sulla pancia del vascello. Efrin rabbrividì. Una folata le sferzò il viso, un vero sole scottò la pelle. Un'alba appiccicosa colò tra i suoi capelli, la luce la arruffò, le sporcò quei ricci rossi. La accecò il mattino vero che affiorava dalle onde e lambiva il grumo grigio di una dura terraferma. Il tanfo orrendo del mondo e del mare la investì e la soffocò: le presero i conati. Arrancò alla balaustra. Si piegò per vomitare.
L'incolore si rapprese. Sembrò tutto più pesante e più veloce; più fragile, più sapido e più breve. La Massinissa
volò sicura su una scia di cobalto a quella che, laggiù, sembrava una metropoli.
– Prima volta Sottosopra? – la spadaccina le si accostò. E le offrì un fazzoletto pulito con una smorfia di divertito disgusto.
– Manco da Handelbab da molto tempo.
– Esiliata.
– Studentessa.
– Bambina ricca – l'altra la apostrofò. Ma quel ghigno