La (tanto derisa) laboriosità bergamasca
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Anteprima del libro
La (tanto derisa) laboriosità bergamasca - Giglio Reduzzi
633/1941.
Ora et Labora
Qualche anno fa la televisione di Stato trasmise in diretta la caduta dell’ultimo diaframma di terra tra la parte italiana e quella estera di non ricordo quale traforo transalpino.
Non appena i lavoratori di qui videro quelli di là si corsero incontro e si abbracciarono.
L’annunciatrice esultò ritenendo che l’episodio fosse indice della fratellanza tra i popoli.
La poverina, probabilmente romana, ignorava che i minatori si stavano abbracciando per una ragione molto più semplice: che benché lavorassero su sponde opposte venivano tutti dalla stessa valle, se non addirittura dallo stesso paese.
Infatti erano tutti bergamaschi e quasi tutti brandivano, non la bandiera dei due Paesi, ma il loro vessillo preferito: il fiasco di vino.
I bergamaschi (ed, in parte, i bresciani) sono infatti famosi, non solo per la loro laboriosità, ma anche per la loro propensione a svolgere i lavori più duri e pericolosi, come quelli che li vedono impegnati nella costruzione di trafori, dighe e ponti. Lavori che, secondo l’espressione corrente, "gli italiani non vogliono più fare".
Per trovare esempi di laboriosità non debbo andare lontano, perché tra i miei stessi conoscenti c’era gente che riteneva normale, dopo aver trascorso otto ore in fabbrica, farne altre quattro nell’officina sotto casa.
E, se erano muratori, passavano il fine settimana a costruirsi la casa, o a ristrutturare quella dei genitori.
Di mettersi in lista per puntare ad una casa Fanfani
non veniva in mente a nessuno.
Fuori dal lombardo-veneto questa laboriosità viene vista come indice di scarsa intelligenza, tant’ è che, se uno ha le sue origini in val Brembana, spesso si vergogna di confessarlo, oppure il fatto, se noto, gli viene addebitato come una colpa.
A questa operosità si accompagna molto frequentemente un modo di esprimersi brusco e sintetico.
Sembrerebbe che il parlare molto sia incompatibile con il lavorare molto. Il che è probabilmente vero.
Sta di fatto che i bergamaschi parlano poco.
Mi sono chiesto se esistano altre ragioni (oltre quella della presunta incompatibilità con la laboriosità) per questa aridità verbale, ma non ho trovato risposte soddisfacenti.
Il fatto che il dialetto locale sia così rudimentale mi sembra più una conseguenza che una ragione.
Anche la sua distanza dalla lingua nazionale, pur notevole, non mi convince come motivazione perché vale solo per chi, abituato a parlare in dialetto, si trovi a dover parlare in italiano e quindi tema di compiere errori.
Mi sembra pertanto che la ragione principale risieda nell’indole della popolazione.
Se chiedete informazioni stradali ad un abitante del posto, a meno che la località che cercate sia dietro l’angolo, è probabile che il vostro interlocutore vi ci accompagni. Non per gentilezza, ma per evitare di imbarcarsi in una lunga chiacchierata.
Quanto poi al fatto che sempre meno bergamaschi parlano dialetto, ritengo che esso sia imputabile al timore della gente di passare per burina
, come direbbero a Roma. Anche perché, inutile nasconderlo, al dialetto bergamasco mancano la nobiltà e la storia tipici di altri dialetti, come, ad esempio, del veneto.
Un dialetto, quello veneto, che la gente non si vergogna di parlare e che, proprio per questa ragione, non morirà mai.
Un discorso analogo può essere fatto per il piemontese, variante torinese, che era la lingua alternativa dei Savoia. L’altra era il francese, che Vittorio Emanuele II usava per le sue relazioni internazionali. Con la Rosina parlava