Dal marciapiede al cuore
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e poi dimentica. Registrarle su un nastro garantisce, perlomeno,
di poterle riascoltare quando non ci saranno più. Questo libro è, o cerca di essere, la testimonianza di una felicità vissuta e che vive ancora.
Di un mondo che ho visto e vedo ancora e non voglio dimenticare.
E scrivendolo l’ho voluta condividere.
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Anteprima del libro
Dal marciapiede al cuore - Pasquale Licursi
sangue
Prefazione
a cura di Walter Tesoriere
Quante volte abbiamo pensato con nostalgia ad un volto, una situazione un personaggio retaggio del nostro vissuto.
Quasi sempre con sorpresa e pudore. Puntellano la nostra vita e ne diventano fedeli compagni. Sono sempre con noi anche se non sempre ce ne rendiamo conto.
Dal marciapiede al cuore
racconta il risveglio di questi ricordi, la possibilità di sdoganare la nostalgia e farne un valore positivo. Non una negazione del presente o ancor peggio del futuro, ma un formidabile strumento per capire chi siamo in che contesto ci muoviamo e soprattutto dove stiamo andando. Le grandi domande della vita filtrate attraverso il ricordo nostalgico, mai amaro e sempre intriso di voglia di vita.
Quadri che raccontano sensazioni , sentimenti. Tutto è legato, come nella vita, dalla musica.
Scandire, amplificare, richiamare è ciò che fanno le note nel pentagramma ed anche questo libro non sfugge alla regola. Tutto è cadenzato da melodie che abbracciano parole le accompagnano, ma hanno anche il coraggio di lasciarle sole. Parole che diventano denuncia, provocazione, stimolo, carezza o più semplicemente poesia.
Parole che qualche volta si faticano a trovare e quando succede ci accorgiamo che sono rivolte alle persone più importanti della nostra vita. Ma con le parole i miti, i personaggi inarrivabili si fanno raggiungere e raccontare.
Un portiere di una squadra di provincia ha la stessa dignità di un mito unanimemente riconosciuto ed un maestro di scuola ha la stessa nobiltà di una contessa.
Potere delle parole! Non da ultimo esse diventano gioco ed esercizio di libertà. Il gusto di giocare con le parole da nuova possibilità e sposta gli orizzonti. Ciò che può sembrare incomprensibile e lontano diventa comprensibile e vicino se si ha la voglia di maneggiare
le parole quasi fossero intrise di fisicità.
Walter Tesoriere
Nato a Milano il 16 maggio 1961, produttore discografico, arrangiatore, compositore, polistrumentista, ha collaborato per molti anni come musicista e arrangiatore per il mercato italiano con Franco Battiato, Eugenio Finardi, Adriano Celentano, Roberto Vecchioni, Mango ecc., per il mercato latino ha prodotto e collaborato con Enrique Iglesias, , Patricia Materola, Sergio Dalma, Paolina Rubio, David Bustamante ecc. Ha realizzato molte colonne sonore tra le quali per importanza spicca quella con Little Stevens per il film Nove Mesi con Hugh Grant e Robin Williams..
Prima di sempre
Con queste note appena sussurrate scrivo e vedo scendere piano la sera. Come se ci fosse qualcuno a dirmi di restare ancora un pò. E leggo sempre un Vendrame azzurro, con sciarpa alla gola. Ricordo ancora di quando si usciva tra la nebbia e chiese aperte e deserte lasciavano vedere statue di santi illuminate dai cerini. Donne a pulire e sagrestani a fumare. La storia si scrive cosi, con la vita degli umili e dei dimenticati. Questa nostra storia che parla ai poveri che si incontrano tra marciapiedi umidi e sigarette bagnate. Vorrei sempre sorridere agli altri ma angoscia calda mi accarezza il viso e mi dice che è quasi fatta. Coi nonni che guardano i nipoti e tornano bambini. I nonni. C è sempre questa musica che mi accompagna ed è dolce sentirti al telefono. Voglio dunque raccontare di uomini senza tempo e con mutui mai pagati. Storie di chi ha vissuto i temporali e le calde giornate di luglio.
E magari raccontarle con musica da film, come si fa prima di dormire. Qui manca proprio tutto e qualcosa bisogna pur fare. Bisogna inventarsi la vita, avere fantasia. Senza accendere il televisore. A fari spenti. Quasi come sommozzatori messicani, senza aria nei polmoni. O come quella canzone di Battisti quando è facile morire. Ma noi non vogliamo morire e vivere di questa vita che è comunque bella e ha sapore forte. Vivo qui tra queste piaghe viola e sentire che tu vivi con centinaia di migliaia di euro mi fa piangere veleno e penso ai tanti che corrono senza mai arrivare. Maglioni mai lavati. Camicie storte, barba lunga e braccia sottili. Per quel che basta l’ho visto e lo voglio raccontare. Persone della vita che scendono le scale. E mangiano fagioli prima della sera.
Donne che vivono coi gatti e mangiano negli stessi piatti. Stracci e calcare. In una sola stanza. E se ne infischiano del mondo. Come se guardassero un treno passare alla stazione. Son belle davvero le stazioni piccole e d’inverno. Come se davvero aspettassero qualcosa che non arriva mai. Sembrano canzoni di Fossati, tra mare e rotaie. O poesie di Montale tra scogli e spuma di mare. Il popolo è questo groviglio di odori che ti entra nel cappotto. E’ questa strana sensazione di vitalità tra lacrime di gioia. Ascolta c’è Psiche alla radio. Psiche di Paolo Conte. Mi sembra un po’ Piero Ciampi in doppio petto e senza vino. Senti quel piano come batte i tasti. Due secondi e senti il mondo dentro che scivola piano. Senti la vita staccarsi e planare dal terreno. Come quel gol di Maradona, dannato e bellissimo. Ma l’hai visto? Pa ra pa pa ta.
Non puoi scendere più. E’ un treno infinito che ti porta a Bratislava e ritorno. Vedi gli alberi correre, le colline allungarsi, le nuvole sorridere. E la voce di Gragnaniello che stacca calce dai muri dei quartieri spagnoli. O Mia Martini che lo guarda e grida come lui. Qui ci sarà la storia che nessuno scrive mai. Quella che più ci appartiene. Come i soldati mai tornati dal freddo della Russia o dal caldo dell’Etiopia.
Una storia che fa tenerezza e solo i maestri di una volta raccontavano ai ragazzi. Ma quei maestri vivono solo nei ricordi di genitori in cravatte blu e macchine lavate. Non c’è nostalgia in tutto questo ma le cose come sono. Raccontare le bellezze della vita in ciò che non sembra e in quello che sarà. La felicità non si compra mai e a volte quanti dicono di esserlo non lo sono. E ci sono persone che lo sono senza neanche saperlo veramente.
Ed è a loro che questo scritto è dedicato.
Il ragno nero
Era un tempo che il calcio per noi ragazzi era tutto. Si andava al campo e si giocava col pallone di cuoio duro, quando avevi la fortuna di trovarlo dimenticato da quelli della prima squadra. Scarpette così e pietre e terra.
Quando non si andava a scuola si cominciava al mattino e si finiva la sera. Alcuni venivano col vestitino della festa, altri come capitava. Quelli col vestitino dopo un po’ sembravano muratori e polvere e sudore copriva quel bianco immacolato. C’era un capo che faceva le formazioni e si giocava. Alla fine, stremati, si decideva di calciare 5 rigori a testa e vinceva chi ne segnava di più. Il martedì e il giovedì erano gli allenamenti della prima squadra che giocava in prima categoria campano-molisana. Molti di loro venivano da Foggia, pochi i locali. Per noi erano giorni di festa.
Il centravanti sembrava un bufalo arrabbiato e calciava con la forza di un leone. Ci si metteva dietro la porta e si aspettavano i tiri fuori per raccogliere la palla e ripassarla ai calciatori. Un evento poter rilanciare quei maestri, una gioia infinita. Sempre in ritardo e a piedi arrivava il ragno nero, il portiere. Appena lo vedevamo scendere in campo noi ragazzini gli andavamo incontro a festeggiarlo e lui ci salutava con quelle mani grandi da predestinato. Guarda c’è il portiere
dicevamo e tutti a festeggiarlo. Vestiva sempre con una divisa tutta nera e aveva tutto per diventare un professionista.
La testa no. Era convinto che quel gioco non facesse al caso suo ed era ancora più convinto che non sapesse parare. In molte occasioni importanti si rifiutò di scendere in campo e nei provini che gli procuravano diceva che non se la sentiva di parare. Ma aveva la poesia dei portieri dentro.
Alla domenica tutti andavano al campo e tutti, al vederlo, lo salutavano e applaudivano. Giocava così, per divertimento. L’allora Presidente si dannava l’anima ma niente.
Era più forte di lui. Alternava partite eccezionali e papere colossali. Diceva sottovoce che chi ama far tardi la sera non può giocare alla domenica. Sarebbe meglio spostare al lunedì, si è più freschi e riposati. Ma qui nessuno ha dimenticato quel ragazzone che parava. Un mito di sicuro. Sembrava trovarsi lì per caso ed era bello vederlo passare sotto la tribuna mentre con lentezza raggiungeva la porta e salutava. Io ero lì, dietro la porta. Raccoglievo palloni e lo vedevo spostarsi, mentre rinviava, parare un rigore. I miti nascono così, quasi per caso. Mi piaceva già da allora quella sua lentezza strana, quel suo non prendersi sul serio e quella sua capacità di non capire che un Dio superiore gli aveva offerto possibilità illimitate. In fondo ha sfidato il suo destino che mentre altri riuscivano a leggere benissimo, lui si ostinava a non capire.
Visse e vive al di fuori del suo destino, come quei medici che lasciano le case e vanno via lontano per curare gli appestati. Quella maglia nera e quei pantaloni appesi sono una dannazione. I normali dicono che se avesse voluto avrebbe di certo giocato in serie A, con squadre importanti e fatto soldi.
A lui questa cosa di far soldi, forse, non è mai piaciuta davvero. A lui piaceva girare nella notte, far tardi con gli amici e magari bere qualcosa al bar e una sigaretta. L’allenatore si dannava e lui gli sorrideva, come si fa coi padri indiavolati per i figli maleducati. Io lo ricordo sempre uguale, con voce bassa quasi per paura di disturbare e all’angolo del corso che fumava.
Al mattino il dirigente incaricato andava a casa per svegliarlo e lui ancora a letto si alzava controvoglia.
Bisognava partire per la trasferta. Arrivato lì pensava alle tante ore di sonno perse e si stirava. Che folle, pensavano in tanti. Per me ora è quello che è proprio per le sue strane abitudini e ancora oggi, dopo trent’anni, chi