Dove gatto metto i soldi?
By Benedetto Neroni and Enrico Gei
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Dove gatto metto i soldi? - Benedetto Neroni
633/1941.
INTRODUZIONE
La conoscenza è sopravvivenza (l’educazione finanziaria è indispensabile)
C’ERA UNA VOLTA..
In una penisola baciata dal sole al centro del mediterraneo, meglio conosciuta come Italia, nei decenni che vanno dal miracolo economico al crollo del muro di Berlino, l’economia era solida, la produzione industriale forte e la disoccupazione bassa¹.
L’unica variabile economica negativa era l’inflazione (alla fine degli anni 70 raggiunse il 21% su base annua, per poi scendere ed assestarsi su una media del 9% annuo nel corso del decennio successivo): parleremo dell’inflazione e dei suoi effetti più avanti, ma chiariamo subito che essa nell’immaginario collettivo riveste un ruolo eccessivamente negativo rispetto a quello che é in realtà.
Ad ogni modo, trovare un’occupazione non era un’impresa difficile come al giorno d’oggi² e soprattutto, qualsiasi impiego (anche il più umile) era remunerato adeguatamente: il lavoratore, con il salario percepito³, nella peggiore delle ipotesi era in grado di sfamare una famiglia e di accantonare un po’ di denaro sul conto corrente. A proposito, un conto corrente negli anni ottanta rendeva (in media) il 6% lordo su base annua, un conto di deposito poteva arrivare addirittura ad un rendimento del 10% lordo annuo ! Non male vero ?
In quei decenni chiunque avrebbe potuto nell’ordine (e a seconda del livello delle proprie capacità fisiche e mentali):
1) Lavorare
2) Risparmiare
3) Investire
4) Avviare un’azienda
Lasciando da parte (per il momento) i punti 3) e 4) – prima di parlare degli investimenti e della capacità di creare ricchezza attraverso un’azienda, bisogna affrontare l’argomento risparmio: non si può correre se non si è imparato a camminare – c’è da evidenziare un altro, importantissimo, aspetto: si poteva perfino evitare di risparmiare (per quanto ciò costituisca un’attitudine mentale errata) sia per le necessità presenti, sia per quelle future.
Perché ? Perché tanto, in caso di necessità, lo Stato avrebbe provveduto alle une (es. in caso di ricovero ospedaliero, malattia, infortuni ecc. al relativo costo avrebbe provveduto il Servizio Sanitario Nazionale, all’epoca uno dei migliori al mondo) e soprattutto (per quello che qui ci interessa) alle altre, erogando delle pensioni generose, in alcuni casi già al raggiungimento dei 49 anni di vita (per la pensione di vecchiaia) e a 45 anni con il versamento di 20 anni di contributi (per la pensione di anzianità). ⁴
Chi decideva di risparmiare, ossia la maggior parte della popolazione – gli italiani erano ed in parte, sono tuttora un popolo di risparmiatori (malgrado la crisi del 2011 abbia ridotto drasticamente la loro propensione al risparmio, come vedremo bene nel 2° capitolo) – non aveva bisogno di possedere particolari competenze finanziare per investire e far fruttare il proprio tesoretto..
Anzi, diciamola tutta: il risparmiatore medio poteva permettersi il lusso di essere ignorante come una capra, di non conoscere neanche l’abc dell’educazione finanziaria (ad es. la differenza fra interesse lordo ed interesse netto o quella fra azioni ed obbligazioni), tanto i suoi risparmi avrebbero generato comunque degli interessi già soltanto tenendoli sul conto corrente (come abbiamo appena detto).
Chi aveva un minimo di mentalità finanziaria investiva i risparmi in titoli di Stato (Bot, CCT ecc.) ed in Buoni postali fruttiferi: i rendimenti dei primi fino al 1990 potevano arrivare al 20% lordo su base annua, quelli dei secondi variavano (a seconda della durata e del periodo di emissione) fra il 12% ed il 20% su base annua !
Lo sappiamo, a leggerlo adesso non ci si crede, invece è tutto vero: se non ci credi, puoi verificare personalmente collegandoti ai siti internet riportati a fine capitolo.
Infine, i benestanti e quelli finanziariamente spericolati
(si fa per dire) investivano parte dei guadagni in beni immobili, che mettevano a reddito o locandoli ad altre persone (locazione ad uso abitativo) o destinandoli ad aziende (locazione ad uso commerciale). Oppure decidevano di avviare loro stessi un azienda, utilizzando l’immobile a tale scopo. Questo era tutto. Fine della storia.
Come probabilmente avrai intuito, stiamo affermando una verità tanto semplice ed incontrovertibile quanto devastante: nel periodo dorato che va, grosso modo, dalla fine degli anni ‘60 al crollo del muro di Berlino (ottobre 1989) l’unica abilità richiesta per vivere dignitosamente era saper/voler lavorare; se poi si era anche capaci di guadagnare soldi extra si diventava benestanti ed infine, coloro che sapevano risparmiare diventavano più o meno ricchi per il solo fatto di aver tenuto i soldi sul conto corrente o averli investiti nei buoni postali.
Bene, crediamo che chiunque, anche la persona più sprovveduta (in materia finanziaria ed economica) e del tutto inconsapevole della realtà, si renda conto che adesso la situazione è cambiata completamente.
Ma, al tempo stesso, riteniamo che pochissimi conoscano davvero le profonde implicazioni e il devastante impatto che ha prodotto, produce e produrrà sulle nostre tasche il nuovo scenario economico. E allora, per comprendere bene l’evoluzione del tessuto economico e sociale del quale stiamo parlando, riavvolgiamo il nastro indietro di quasi 40 anni e torniamo agli anni ‘80.
QUANDO, COME E PERCHE’ CAMBIO’ TUTTO
Poco fa abbiamo detto che l’unica importante variabile macroeconomica negativa negli anni 70/80 è stato l’alto tasso di inflazione. Il tema inflazione ricorrerà più volte nel libro, ma fin da adesso vogliamo chiarire una cosa: contrariamente a quanto sostiene una certa letteratura economica di estrazione ultraliberista, un tasso di inflazione medio/alto (per intenderci: NON quello dell’Argentina e del Venezuela)⁵ è un bene per l’economia reale. Naturalmente a patto che lo Stato possa emettere moneta, ossia detenga la c.d. sovranità monetaria
⁶. In questo caso – e sottolineiamo, esclusivamente in questo caso – l’inflazione precede la crescita: crescita che, in buona parte, è prodotta proprio dalle politiche economiche che vanno nel senso di un aumento del Prodotto interno lordo. È quello è accaduto fino a pochi anni fa in Giappone, Stato protagonista di una politica economica super espansiva come non se ne vedevano da decenni: sono piovuti sull’economia reale nipponica qualcosa come 60 mila miliardi di yen, equivalenti a circa 445 miliardi di euro.
Al contrario, un’inflazione molto bassa indica che l’economia si sta indebolendo o, come attualmente in Europa, che l’economia è stagnante. Una bassa inflazione può condurre a tassi d’interesse più bassi, ad una capacità di risparmio indebolita e destabilizzare il sistema finanziario.
Se la caduta dei prezzi continua, allora il debito, fissato in termini nominali, diventa più difficile da essere rimborsato e un indice di prezzi al consumo in continua discesa compromette la produzione industriale, visto che le aziende vedono i loro prodotti perdere di valore.
Un’inflazione moderatamente alta, in ultima istanza, è un danno soltanto per le banche: ad esempio, supponiamo che una banca ci conceda un mutuo a 30 anni per comprare una casa con un tasso FISSO del 5% l’anno, per una rata di €1.000 al mese. Con l’aumento dell’inflazione, il valore
di questi €1.000 al mese diminuisce, il che va a favore del proprietario della casa, soprattutto se il tasso di inflazione supera il tasso di interesse sul prestito. Esemplificando il concetto, una buona inflazione (come vedremo c’è anche un’inflazione cattiva) accompagnata dalla sovranità monetaria, favorisce i risparmiatori e gli investitori, diminuendo il potere delle Banche⁷. Tanto ciò è vero che le politiche di austerità e rigore di recente memoria sono state sostenute e fortemente volute dalle Banche con lo scopo di tenere l’inflazione bassa, distruggendo così la domanda interna ed il PIL: come, peraltro, ha dichiarato l’ex presidente del Consiglio Mario Monti in una ormai nota (ma non ancora abbastanza diffusa) intervista alla CNN nel 2013, della quale potete ascoltare un breve estratto (un minuto circa) collegandovi al seguente link:
https://www.youtube.com/watch?v=LyAcSGuC5zc
A tali politiche monetarie restrittive, tuttavia, non si è arrivati dall’oggi al domani: è stato un lungo ma (ahinoi) inesorabile processo, iniziato nel lontano 1981 dall’allora presidente di Bankitalia, Carlo Azelio Ciampi e da Beniamino Andreatta (ministro del tesoro). Con quella riforma, correlata e coeva all’adesione del nostro paese allo SME (sistema monetario europeo: l’antesignano della moneta unica), l’Italia perse il primo e forse il più importante pezzo della propria sovranità, quella monetaria, poiché lo Stato, da quel momento, non ha mai più controllato l’istituto di emissione della moneta.
Da allora, infatti, l‘europeismo austero (e fin troppo idealizzato) è avanzato nel nostro paese a ritmi sempre più serrati. Sono seguite le ulteriori tappe che hanno visto l’adesione dell’Italia all’atto Unico Europeo (1986), al Trattato di Maastricht (1992), al Patto di stabilità (1997). E poi il fondamentale e deleterio ingresso del nostro paese nell’Euro (1999-2002), a cui è seguita l’adesione al Mes - Meccanismo Europeo di Stabilità (2011) e al Fiscal Compact (2012).
Tutto, però, trae origine dalla rimozione dell’obbligo vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i Titoli di Stato emessi sul mercato primario (cioè quelli collocati mensilmente dal Tesoro), che aveva consentito fino ad allora al nostro Paese di tenere sotto controllo il debito pubblico.
Perso questo strumento di sovranità monetaria, anticipando quanto sarebbe avvenuto successivamente con l’ingresso nell’Unione Monetaria, l’Italia per finanziare la propria spesa dovette iniziare ad attingere ai mercati finanziari privati, con tassi d’interesse di tutt’altra entità rispetto a quelli garantiti in precedenza.
Gli effetti furono immediati: sempre ragionando in euro, i 142 miliardi di debito del 1981 (58% del Pil) dopo tre anni erano raddoppiati; dopo quattro, triplicati (429 miliardi), superando quota 1000 nel 1994, pari al 121% del Pil.
Ma cosa spinse Andreatta a questa scellerata decisione? Come raccontò lui stesso dieci anni dopo in una lettera pubblicata sul Sole 24 Ore, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia. Ad essere in pericolo era infatti la partecipazione del nostro Paese all’interno dello Sme, ossia l’accordo precursore del sistema Euro, basato sulla parità di cambio prefissata tra i Paesi europei aderenti, seppur con una possibilità di fluttuazione minima: "L’imperativo – spiegò l’ex ministro – era cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole".
Pare dunque evidente che sia Andreatta che Ciampi abbiano agito non nel rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, bensì eseguendo ordini sovranazionali di innegabile ed indicibile matrice privata (ossia bancaria).
Il nemico da abbattere, nell’ottica di Andreatta, era quindi l’inflazione e gli stessi strumenti economici adatti a contenerla: dalla flessibilità di cambio, che con gli accordi europei sarebbe stata definitivamente abolita, ai meccanismi di adeguamento salariale, come la scala mobile, il cui rafforzamento è definito dallo stesso Andreatta come "demenziale". Peccato che il titolare di via XX Settembre ignorasse i benefici, evidenti e riconosciuti dal mondo economico, che un tasso di inflazione elevato riflette sul debito pubblico, in quanto capace di ridurne il valore in termini reali!
Ad aggravare la situazione ci pensarono i nostri politici nel 1992 quando decisero di aderire al Trattato di Maastricht, che imponeva alla nostra economia il rispetto di parametri capestro, tra i quali proprio la contrazione del debito pubblico.
Questo diverrà lo spauracchio in grado di giustificare le politiche dissennate di privatizzazioni e svendita a capitali privati e stranieri di asset pubblici strategici, avvenuta proprio in quei decenni: tutto ciò rappresenta – occorre sottolinearlo – un tradimento della Costituzione, come da quasi un decennio sostengono gli avvocati costituzionalisti Marco Mori e Giuseppe Palma⁸
Il colpo di grazia sarà l’introduzione dell’Euro: senza una banca centrale che funga da prestatrice illimitata di ultima istanza – la BCE per suo statuto, non lo è - l’Italia si sottomise ai diktat di Bruxelles, che impongono autisticamente una folle politica di austerity fatta di tagli alle voci di spesa pubblica più sensibili (sanità, istruzione e pensioni), aumento della tassazione e inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale.
Secondo molti economisti l’euro fu costruito sulla base di due principi: la stabilità dei prezzi che assieme all’equilibrio di bilancio avrebbe dovuto favorire la crescita economica e l’ idea che l’adozione di una moneta unica avrebbe contribuito alla convergenza della crescita nei diversi Paesi che l’ avessero adottata e del reddito pro capite.
Non vi è dubbio che questi siano i principi liberisti
, per dare loro la caratterizzazione ideologica che li contraddistingue, posti a fondamento del Trattato di Maastricht, ma sono economicamente validi? Innanzitutto occorre sottolineare che non c’ è una correlazione positiva tra equilibrio di bilancio e crescita. I principi di Maastricht si fondano su un presupposto che non trova riscontro nell’analisi economica, ovvero che ridotti livelli di deficit sul Pil aiutino la crescita.
Basti pensare a come è stato individuato il criterio del limite del 3% sul Pil, deciso in meno di un’ ora e senza nessuna base teorica, come racconta il suo inventore, il francese Guy Abeille. Quel parametro del 3% è stato del resto ampiamente contestato. In secondo luogo va osservato che con la lira il reddito procapite dal 1968-1998 era cresciuto del 104%. Dal 1999 (anno in cui viene fissato il cambio irreversibile con l’ euro di 1936,27 lire), al 2016 è invece calato dello 0,75%. Ormai la maggioranza degli economisti ammette che nessuno di questi due principi si è realizzato ⁹
Tuttavia lo svuotamento della sovranità nazionale ha prodotto effetti non soltanto sul fronte monetario
, ma anche su quelli del debito, degli assets strategici e della spesa pubblica. Per quanto riguarda il c.d. debito pubblico, partiamo da un presupposto incontrovertibile: lo Stato raccoglie denaro dai privati, corrispondendo loro un interesse. Il tutto, normalmente, per mezzo della moneta nazionale.
In uno Stato sovrano e indipendente, con moneta sovrana, non esistono normalmente tetti all’indebitamento e l’indebitamento normalmente non incide negativamente sull’andamento dell’economia nazionale. Il problema nasce quando il debito è espresso in una moneta straniera (l’euro) ed è (parimenti) detenuto in tutto o in parte da soggetti stranieri. In tal caso, lo Stato non può più influenzare il tasso di interesse sui titoli emessi (esempio, ordinando alla Banca Centrale di acquistare i titoli per tenere basso il tasso).
I titoli del debito pubblico fluttuano nel mercato libero, e i tassi sono decisi dal mercato medesimo. E il mercato è costituito anche (e soprattutto) da grossi potentati finanziari (privati) i quali, in questo modo, tengono in ostaggio lo Stato, limitandone o peggio orientandone fortemente le politiche in una direzione che non sempre (anzi, ormai quasi mai), sono in favore del popolo e della nazione. Ed è ciò che accade oggi all’Italia.
Passando adesso al tema degli assets strategici, normalmente uno Stato possiede attività economiche nei settori strategici dell’economia nazionale: telecomunicazioni, energia, trasporti e sviluppo tecnologico, nonché opera un stringente controllo sugli stessi o su altri (es. il settore bancario). La realizzazione della sovranità e della democrazia passa, dunque, anche attraverso una presenza strategica
dello Stato in queste realtà. Il venir meno della presenza dello Stato in determinati settori, tramite un processo di deregolamentazione e privatizzazione (inseguendo la logica neoliberista dello Stato- Azienda che deve incassare più di quanto spende, non deve indebitarsi e non deve ingerirsi nell’economia), non può che incidere negativamente (come in effetti ha inciso) sulla sovranità, soprattutto se il piano delle privatizzazioni determina l’acquisizione di questi asset a prezzi stracciati da parte di gruppi e potentati interni e/o (soprattutto) stranieri.
Non meno importante è la politica sulla spesa pubblica. Uno Stato sovrano investirà nel settore pubblico (soprattutto istruzione e sanità) per offrire maggiori servizi ai cittadini e combattere le diseguaglianze. Ma in una logica desovranizzata, dove il debito fluttua liberamente sul mercato, il welfare risulta essere fonte di instabilità, poiché la relativa spesa che non può essere compressa dentro i limiti delle entrate fiscali (per ovvie ragioni), determina un incremento dei tassi di interesse e un deprezzamento dei titoli del debito pubblico, e dunque ingenera scarsa sfiducia
(così viene chiamata) degli investitori, che vedono il loro investimento diminuire di valore.
Ecco, dunque la trappola della desovranizzazione
: per evitare l’incremento della spesa (e vedersi dunque meno investitori disposti a comprare titoli del debito pubblico), e raggiungere così il pareggio di bilancio¹⁰lo Stato inizia a tagliare il welfare, riducendo le tutele sociali (soprattutto nei settori dove la spesa corrente è maggiore: sanità e istruzione). I risultati si riverberano negativamente sulla società, ampliando la platea dei poveri e di tutti coloro che risultano privi di tutele sociali.
Riassumendo, l’uso di una moneta straniera impedisce a uno Stato di determinare le politiche monetarie ed economiche di interesse nazionale; questo limite incide (negativamente) sulla possibilità per lo Stato di controllare l’andamento del proprio debito pubblico, di attuare politiche sui tassi di interesse e di operare con efficienza sul tessuto economico per favorire il raggiungimento della piena occupazione e uno sviluppo sostenibile.
GLI EFFETTI SULLA RICCHEZZA PRIVATA (LE NEFASTE CONSEGUENZE SUBITE DA RISPARMIATORI, INVESTITORI E PMI)
Fin qui abbiamo riassunto, per quanto possibile (data la complessità dell’argomento) gli eventi politici e le variabili macroeconomiche che hanno cambiato progressivamente – ma inesorabilmente - lo scenario (quasi) da favola decenni 1960/1980 in quello da incubo attuale.
Trattandosi di una sintesi, siamo stati costretti all’approssimazione, ad esemplificare alcuni concetti e ad ometterne altri: questo, del resto, non è un saggio di politica economica, né di macroeconomia. Noi non siamo politologi e non esprimiamo giudizi politici. E tutta la tiritera macroeconomica che hai letto fin qui, caro lettore, la abbiamo scritta soltanto per farti comprendere il seguente, fondamentale, concetto: i tempi sono cambiati e se vuoi sopravvivere (finanziariamente) è bene che ti adegui !
Questa è la finalità del libro: trasmetterti le conoscenze e le competenze necessarie per sopravvivere, prosperare ed arricchirti (obiettivi scritti in rigoroso ordine causale, logico e temporale) nell’Italia del III millennio.
Arrivato a questo punto della lettura, probabilmente avrai già compreso che disinteressarti della gestione del tuo denaro, rifiutandoti di apprendere l’educazione finanziaria, è autolesionismo puro.
Tuttavia, nel caso così non fosse – cioè qualora tu sia ancora convinto di poter delegare la gestione delle finanze allo Stato, alla Banca, alle Poste o ad un consulente di fiducia – siamo sicuri che leggendo le prossime righe cambierai (finalmente) idea.
***
Quando Benedetto scrive sul blog ¹¹ o parla (in ufficio, in palestra, con amici e conoscenti ecc.) della necessità di imparare a gestire e ad investire il proprio denaro, anche e soprattutto in ottica futura – ossia in ottica pensione - il 90% delle volte riceve dei feedbacks sintetizzabili nella frase: Ah ma io ho un buono stipendio e quindi avrò una buona pensione. E mi guardo bene dal fare investimenti in Borsa
Se anche tu, come crediamo, rientri nel suddetto campione statistico, ti diamo una pessima notizia: anche se nessuno lo dice, il sistema pensionistico italiano è già bello che fallito !
Le cause sono numerose quanto palesi: anzitutto l’aumento dell’età (e dell’aspettativa) media di vita – questo concetto non è difficile da comprendere: se le persone muoiono più tardi, lo Stato impiega maggiori risorse finanziarie per pagare le loro pensioni, a discapito di quelle che pagherà a coloro che smetteranno di lavorare fra 10, 20, 30 anni – e l’emigrazione di massa dei giovani italiani (ossia della forza lavorativa) con contestuale sostituzione della medesima da parte di un sistema paraschiavistico
di immigrati sottopagati (e spesso pagati in nero): ciò produce e produrrà sempre di più un’inevitabile riduzione dell’afflusso dei contributi nelle casse dell’INPS.
A questi dati, già decisivi, si aggiunga il tasso di disoccupazione giovanile - che da molti anni è superiore al 30% (nel 2014 ha toccato il picco del 43% per poi scendere al 31% del giugno 2019)¹² – e l’equazione (purtroppo) è risolta.
Più in generale, come affermato e dimostrato – con abbondanza di dati e di statistiche – da Luca Ricolfi¹³, la società italiana da decenni ormai è caratterizzata dal non lavoro dei più
. Ciò significa che la percentuale della popolazione che lavora è inferiore alla percentuale della popolazione che non lavora: fra le nazioni della UE, l’Italia e la Grecia hanno un tasso di inoccupati totali superiore al 50%.
Che tale numero sia l’esito di una scelta (disoccupazione volontaria) o di una necessità (mancanza di posti di lavoro) cambia poco, il risultato è comunque lo stesso: meno di metà della popolazione lavora, meno della metà della popolazione versa i contributi. Ed infine – last but not least – buona parte della popolazione che lavora percepisce degli stipendi, se non da fame, nettamente inferiori agli stipendi medi corrisposti fino a 15, 10 o perfino 5 anni or sono, oltre che (naturalmente) a quelli percepiti da tedeschi, francesi ecc.¹⁴
Insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, crediamo che non occorra un master in matematica computazionale per comprendere quanto segue: persistendo l’attuale congiuntura economica e sociale – e non si intravedono neanche lontanamente i presupposti per un’inversione del trend in essere, anzi.. - un’ampia fascia di lavoratori, i quali al momento (anno 2020) hanno un’età compresa fra i 20 ed i 55, non percepiranno alcuna pensione, mentre coloro i quali hanno più di 55 anni saranno costretti a lavorare almeno fino a 75 anni, dopodiché verrà loro corrisposto un misero assegno sociale (800 € ? 1000 € ?).
Soltanto per completezza di informazione aggiungiamo che, durante l’ultima revisione del libro, è stato realizzato e diffuso uno studio dal quale è emerso che l’attuale debolezza del sistema pensionistico è imputabile anche al fatto che la metà di coloro che percepiscono già la pensione non ha mai versato contributi o lo ha fatto in misura minima.
Lo studio è consultabile sul Corriere della Sera:
https://www.corriere.it/economia/pensioni/cards/pensioni-avare-meta-chi-incassa-non-ha-mai-versato-contributi/pensioni-numeri.shtml
***
Parliamo ora del TFR. Se lavori nel settore privato, il tuo TFr, con buona probabilità si è già volatilizzato, come dimostrano i risultati di questa inquietante ricerca:
https://www.fisaccgilaq.it/lavoro-e-societa/34-miliardi-spariti-il-tfr-espropriato-dallo-stato.html
E se ritieni che la panacea ai problemi sopra menzionati, sia quella di lasciare i soldi sotto il materasso o sul contocorrente, ti stai illudendo.
Infatti, anzitutto tenere sul contocorrente una somma pari o superiore a 100.000 euro ti espone al rischio di essere travolto dalle conseguenze del fallimento della banca (ne parleremo in modo approfondito nel secondo capitolo) o procedura di bail in:
https://www.wallstreetitalia.com/trend/bail-in/
In secondo luogo, da un anno l’Agenzia delle Entrate ha varato uno strumento chiamato risparmiometro: se i risparmi che tieni sul contocorrente sono superiori alle tue Entrate, può inviarti un dolorosissimo accertamento tributario, leggi qui:
https://quifinanza.it/fisco-tasse/fisco-risparmiometro-al-via-primi-controlli-sui-conti-correnti/282224/
Da ultimo, ma non per importanza (anzi), considera che lasciare i soldi immobilizzati (poco importa se sul conto corrente o sotto il materasso) equivale a dimezzarne il valore, come riportato da questo report del Il Sole 24 ore
:
https://www.ilsole24ore.com/art/soldi-sotto-materasso-pessimo-affare-in-20-anni-mille-euro-sono-diventati-588-ACq37tt
Ah..quasi dimenticavamo..
Il mito del mattone, come investimento/bene rifugio ultrasicuro a prova di guerra termonucleare
è duro, durissimo, a morire in Italia, terra di palazzinari¹⁵.
Sfateremo questo mito nel quarto capitolo, per il momento ti invitiamo soltanto a leggere il seguente articolo:
https://it.businessinsider.com/la-rovina-delle-economie-occidentali-lossessione-per-il-comprare-casa/
Inoltre, se stai pensando di comprare e/o vendere casa, ti suggeriamo di evitare le stime alla carlona
dei nonni (o dei genitori) e quelle artefatte (per non dire fraudolente) delle agenzie immobiliari. Collegandoti al seguente link dell’agenzia delle Entrate, infatti, avrai delle quotazioni senz’altro più obiettive e disinteressate:
https://wwwt.agenziaentrate.gov.it/servizi/Consultazione/ricerca.htm
LA MORALE DELLA FAVOLA E LA LEZIONE DEL GATTO
La morale della favola – e la principale ragione per la quale abbiamo scritto questo libro - è che ciascuno (si, anche tu !) ha il diritto/dovere di occuparsi dei propri soldi con intelligenza, competenza e cognizione di causa, perché nessun altro lo farà al posto suo/tuo !
Ficcare la testa sotto terra è inutile e dannoso !
Come scrive Sofia Macias – Piccolo porco capitalista
(Vallardi editore) – Se non lo fai tu, qualcun altro grufolerà nel tuo denaro
.
E a proposito di animali..se ti stai chiedendo i motivi per i quali questo libro si intitola Dove gatto metto i soldi ?
e come mai, a differenza della Macias, il nostro animale simbolo sia proprio il gatto e non piuttosto il maiale (ma il discorso vale anche per il cane, il cavallo, il bue, l’asinello e compagnia bella) ecco la risposta:
Anzitutto perché noi siamo originali (se avessimo utilizzato il maiale avremmo copiato spudoratamente un’idea altrui);
In secondo luogo – non ce ne vogliano la Macias e i suoi fan – il gatto è molto più simpatico del porcellino;
Ma soprattutto..mentre il maiale è ingordo – e l’ingordigia (detta anche avidità) è uno dei peggiori atteggiamenti che si possono avere nei confronti del denaro (si tratti di investimenti o di trading): il non sapersi accontentare di un profitto, il voler tutto e subito…come vedrai, questi atteggiamenti sono spesso la radice di esiti finanziari rovinosi - il gatto è prudente, scaltro, furbo, sornione, equilibrato, consapevole..il gatto non si ingozza di cibo, il gatto nel corso della giornata fa solo piccoli spuntini…e ad alla fine è più che sazio, soddisfatto, felice !
Infine..avete mai osservato un gatto h24? La maggior parte del tempo dorme (in realtà a volte finge di dormire) …poi all’improvviso si sveglia, corre, tira zampate e graffi a mobili, tappeti, divani (anche a noi umani se gli gira...bastardo !).
Il gatto è molto territoriale, protegge la sua cuccia ed (in natura) marca il territorio esattamente come i grandi felini. Bene: i suddetti atteggiamenti – essere calmi, rilassati, quasi dormienti e proteggere il territorio, ossia il denaro, poi improvvisamente sferrare le zampate decisive per aumentarlo (non importa se si tratti di un investimento long term o di un trading multiday..l’importante è afferrare l’occasione !) – sono indispensabili per avere una gestione delle finanze positiva e felice.
Acquisire gli atteggiamenti del gatto investitore (o, a seconda delle circostanze, del gatto trader) significa trattare il denaro con consapevolezza, competenza e cognizione di causa: tutto questo non è un azione immediata ed istantanea, bensì un processo lento e graduale, che inizia dalla capacità di risparmiare, prosegue con quella di investire ed infine evolve nell’abilità di speculare (ossia nel trading).
Queste sono le tre grandi tappe (o macroaree) dell’educazione finanziaria e nei prossimi capitoli le esamineremo dettagliatamente, una per una.
FONTI E LINKS DI APPROFONDIMENTO
https://www.ilpost.it/2019/10/31/istat-disoccupazione-settembre/
https://tg24.sky.it/economia/2018/10/01/disoccupazione-italia-ultimi-dieci-anni.html
https://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/600_2012_325_14834.pdf
https://it.inflation.eu/tassi-di-inflazione/italia/inflazione-storica/cpi-inflazione-italia.aspx
http://www.iskrae.eu/analisi-della-disoccupazione-dagli-anni-70-ad-oggi/
http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/89-la-crisi-che-ruppe-il-novecento-1973-1979-il-racconto-e-i-modelli.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Scala_mobile_(economia)
http://grafici.altervista.org/inflazione-tassi-di-interesse-e-di-cambio-in-italia/
http://www.dt.tesoro.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/principali_tassi_di_interesse/storico_principali_tassi_di_interesse.html
https://www.mutui-prestiti-assicurazioni.it/mutui-anni-80/
https://www.contodeposito.eu/tassi-conto-deposito/
https://it.wikipedia.org/wiki/Sovranit%C3%A0_monetaria
http://www.studiolegalemarcomori.it/lillegittimita-costituzionale-cessione-sovranita-monetaria-alle-banche-private/
https://trainingfinanziario.com/il-signoraggio-bancario/
https://scenarieconomici.it/tag/avv-marco-mori-il-tramonto-della-democrazia-analisi-giuridica-della-genesi-di-una-dittatura-europea/
https://www.unilibro.it/libro/mori-marco/morte-repubblica-stati-uniti-europa/9788832078022
https://www.ibs.it/europa-quo-vadis-sfida-sovranista-libro-paolo-becchi-giuseppe-palma/e/9788885939103?inventoryId=125054927
https://www.amazon.it/Oltre-leuro-ragioni-sovranit%C3%A0-monetaria/dp/8865880740
https://www.mondadoristore.it/ricerca-sovranita-monetaria-Paolo-Savona/eai978887644268/
http://contropiano.org/news/news-economia/2019/01/13/leuro-non-e-un-errore-di-calcolo-0111382
ANTEFATTO
(l’origine dell’idea)
Siamo certi che, già leggendo l’introduzione, hai compreso la necessità dell’educazione finanziaria: una materia fondamentale. Essa, tuttavia, costituisce soltanto una parte del libro, il quale dedica ampio spazio anche alle strategie di investimento sul lungo periodo trading, al money management, al regime fiscale degli investimenti e ad altro ancora.
Tuttavia l’importanza e la necessità dei suddetti argomenti non costituiscono una motivazione esauriente per scrivere un libro: in fondo quanti altri libri sono stati già scritti al riguardo? Decine? Una cinquantina?
Per tacere poi dei libri di analisi tecnica e trading, dei trattati di money management, dei testi comparati di analisi grafica e analisi ciclica…insomma, quando si parla di economia, finanza ed investimenti, la letteratura è davvero ampia !
E allora c’era proprio bisogno di scrivere un nuovo, ulteriore libro, su queste materie? E perché?
potresti (e dovresti) chiederci.
Prima di accingerci all’opera, ci siamo posti la stessa domanda e abbiamo rinvenuto la risposta nella faticosa esperienza che noi, come tutti coloro che hanno a cuore le sorti delle loro finanze, abbiamo vissuto per imparare nozioni ed abilità tanto diverse – e al tempo stesso ugualmente indispensabili – per risparmiare ed investire con profitto il denaro: l’elaborazione e la gestione di un bilancio (o quantomeno di un budget familiare), i principali termini della finanza (es. capitale, reddito e patrimonio) e le loro implicazioni, la micro e la macroeconomia, l’analisi di scenario dei mercati, lo studio e l’analisi dei numerosi prodotti finanziari (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, Warrant, ETF, CFD ecc.), l’analisi tecnica, l’analisi grafica, il money mangement, la disciplina normativa bancaria e fiscale degli investimenti ecc.
Orbene, per studiare, apprendere ed (infine) applicare concretamente i suddetti concetti (e molti altri ancora) abbiamo dovuto, nell’ordine:
Comprare e leggere più di 20 libri
Procedere, necessariamente, ad una sintesi degli stessi
Creare un metodo di lavoro applicabile alla nostra situazione (ossia alle nostre caratteristiche personali e di investitori)
In parole povere e usando un francesismo...ci siamo dovuti fare un mazzo tanto!
(noi e tutti coloro i quali hanno intrapreso il nostro medesimo percorso, avendo ormai compreso che oggigiorno è pura follia delegare la gestione dei soldi ad un promotore finanziario, ad un agente assicurativo, allo Stato, all’Azienda, alla Banca, alle Poste ecc. )
Purtroppo, infatti, NON esiste un libro che tratti, con metodo didattico coerente ed omogeneo ed in modo esaustivo, tutti gli argomenti necessari per sviluppare l’abilità di amministrare e far prosperare le finanze personali.
ALT ! Un momento !
Rettifichiamo ! L’informazione corretta (invero) è la seguente: prima di Dove gatto metto i soldi?
NON ESISTEVA un libro che trattasse, con metodo didattico coerente ed omogeneo ed in modo esaustivo, tutti gli argomenti necessari per sviluppare l’abilità di amministrare e far prosperare le finanze personali.
I libri pubblicati finora, infatti, sono tutti monotematici, poiché trattano, in maniera più o meno approfondita, soltanto una tessera di quel grande mosaico che è la gestione del denaro (in realtà, più che un mosaico, è corretto definirla una piramide, fra poco vedremo perché): i libri che insegnano come gestire il budget familiare non si occupano di investimenti, quelli che si occupano di investimenti non parlano di trading, i libri che insegnano a proteggere il patrimonio mediante le assicurazioni ignorano il ruolo del money management nella protezione del capitale, i libri di analisi tecnica sono (generalmente) privi di una visione degli investimenti sul lungo termine e così via..
Per tacere, poi, del fatto che quasi tutti i testi in commercio ignorano le fondamentali correlazioni fra risparmio, patrimonio, reddito ed investimenti e – cosa ancor più grave – la differenza fra investimenti a gestione passiva ed investimenti a gestione attiva, nonchè l’impatto deleterio dei costi di questi ultimi sui rendimenti dei vari prodotti finanziari (come vedremo molto bene nel 3° capitolo).
Se non ci credi, ti sfidiamo - sfidiamo chiunque - a fare una ricerca per dimostrare il contrario: scoprirai così quanto è confusa, disomogenea e frammentata la complessa materia degli investimenti e della finanza.
Ma soprattutto, ti renderai conto dell’assoluta mancanza di una metodologia teorico/pratica che insegni a chiunque – dai lavoratori (e dalle lavoratrici ovviamente) dipendenti alle