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Un Cristo ebreo: Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca
Un Cristo ebreo: Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca
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Un Cristo ebreo: Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca

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Dostoevskij come rappresentante insuperabile della condizione ebraica contemporanea? Una rilettura originale del grande romanziere russo ottocentesco consente ad Alberto Lecco (1921-2004) di scrutare le profondità dell'animo ebraico contemporaneo, traendone una sola, grande lezione: avere il coraggio di essere se stessi.
LanguageItaliano
Release dateDec 17, 2017
ISBN9788827536339
Un Cristo ebreo: Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca

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    Un Cristo ebreo - Vincenzo Pinto

    novecentesca

    Introduzione. Identità ebraica e letteratura nell’Italia novecentesca: il caso di Alberto Lecco

    Alberto Lecco è stato un romanziere piuttosto prolifico e tuttavia poco noto agli studi d’italianistica nella seconda metà del Novecento. Può essere considerato – fatte le debite proporzioni – uno degli autori che ha maggiormente espresso in Italia il problema dell’individualità ebraica dopo la disumanizzante esperienza di Auschwitz e l’epopea nazionale israeliana. Nato a Milano nel 1921 da madre ebrea e da padre cattolico, dopo la parentesi bellica il giovane Alberto si laurea in medicina ed esercita la professione di medico nella città natia, che abbandonerà nel 1952 per dedicarsi completamente all’attività letteraria. Nel 1950 prepara una tesi di laurea in filosofia intitolata Le categorie del realismo estetico da Diderot in poi, sotto la guida di Antonio Banfi, che non discute. Nel 1955 pubblica il suo primo grande romanzo-fiume: Anteguerra, ritratto della tramontante Italia fascista riletto attraverso le lenti di due adolescenti, uno di madre ebrea e l’altro di fede comunista. Nel 1956 si trasferisce a Roma, nel cuore di Trastevere. Dai primi anni Sessanta si reca più volte a New York per cercare ispirazione letteraria. Dopo un ventennio di sostanziale silenzio, Lecco ritorna sulle scene alla fine degli anni Settanta pubblicando i suoi romanzi più noti: L’incontro di Wiener Neustadt (1977), Un Don Chisciotte in America (Milano 1979) e L’ebreo (1981). La produzione letteraria prosegue negli anni Ottanta e Novanta con I racconti di New York (1982), La città grida (1985), Don Chisciotte ebreo (1985), Ester dei Miracoli (1986), La vera storia di Baby Moon (1988), Il cantore muto (1989), La casa dei due fanali (1991), L’uomo del libro (1991), La morte di Dostoevskij (1994) e I buffoni (1998). Lecco ha collaborato con periodici e quotidiani come «Shalom» e «L’Unità» durante gli anni Ottanta. Lo scrittore milanese muore a Roma nel maggio 2004. Rimasta incompiuta è la prosecuzione di Anteguerra, intitolata Guerra¹.

    Lecco è stato un romanziere ebreo italiano poco noto al circuito dei lettori dei «maggiori» (Levi, Bassani e Ginzburg), né è annoverabile tra i «minori» (Vigevani, De Benedetti, Lattes, Voghera e Rosselli)². Questo si deve in parte alla sua prosa non particolarmente stilizzata, alla struttura romanzesca vetusta e alla marginalità del tema della persecuzione ebraica. Lecco ha cercato di costruire percorsi di normalizzazione identitaria alla luce della rimozione politica e culturale del passato fascista e di un’ebraicità tutta da scoprire, da inventare e – soprattutto – da affermare pubblicamente³. La resa dei conti con l’identità ebraica malcelata, rinnegata o elusa riguarda quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi: da Anteguerra sino a Prima del concerto, dove l’amore tra i due protagonisti sboccia sotto il cielo della difficile re-integrazione post-bellica; dal Don Chisciotte in America alla Casa dei due fanali, dove lo sbarco in un nuovo continente significa anche la ricerca di una donna-madre-terra più vicina, ma anche più lontana dalla «mediocre» impasse italiana; dall’Ebreo a Ester dei miracoli, dove la sofferenza ebraica viene testimoniata dal sacrificio di una donna o dal suicidio di un uomo incapace di chiamarsi tale. Se Dostoevskij può essere considerato il grande modello della poetica lecchiana, lo è nella misura in cui il problema religioso dello scrittore russo si trasforma nella ricerca di un nuovo legame ebraico di sofferenza e redenzione da parte degli «umiliati» e degli «offesi» del XX secolo: gli ebrei. Questa ricerca socio-psicologica avviene tramite una fonte privilegiata: il romanzo⁴. Gli eroi lecchiani sono personaggi tragici, privi di un solido legame con la tradizione religiosa, che sentono l’ebraicità come un fardello pesante da concepire storicamente, da vivere quotidianamente, da collocare nella propria memoria individuale, ma anche da «agire» e da rielaborare pubblicamente: vogliono avere il diritto a «raccontare» se stessi.

    Se l’identità ebraica è il topos pressoché onnipresente in tutte le opere di Lecco, non rappresenta il nucleo centrale della sua poetica. L’assenza di un filo conduttore ben preciso, cioè di una struttura capace di unificare ed esemplificare i topoi ricorrenti della sua produzione letteraria, può essere riconducibile al bisogno quasi fisico avvertito dai suoi protagonisti di dirsi finalmente ebrei e alla struttura polifonica dei suoi romanzi. Testimoniare pubblicamente la propria ebraicità, ovvero la sofferenza derivante da un percorso storico alienante, è un’esigenza espressa di continuo nelle pagine dei suoi romanzi. Lo scrittore ha voluto rivolgere una critica nemmeno troppo velata alla poetica ebraica diasporica, accusandola di scarsa inclinazione verso il particolare e, dunque, verso l’universale concreto, troppo concentrata su di sé e incapace di uscire dal recinto culturale imposto dalla cultura maggioritaria cristiana «gentile». Il realismo tragico lecchiano parte, dunque, da una prospettiva estetica dostoevskiana-rabelaisiana per sottolineare come l’identità ebraica contemporanea (occidentale) manchi di un senso d’appartenenza pubblico e pubblicizzato, abbia preferito aggrapparsi ad altri scogli (come l’intimità autobiografica) di fronte alle burrasche psicologiche e sociali contemporanee. Burrasche non solo ideologiche, politiche o economiche, ma anche e soprattutto individuali, coscienziali, legate cioè all’alienazione e all’auto-percezione di sé nel mondo (all’ansia di essere-per-la-vita, prepotente dopo la Shoah e la nascita dello stato d’Israele). Questo peccato d’omissione, però, non comporta una morale dell’impegno nel proprio tempo-condizione (nel senso sartriano del termine), ma semplicemente una morale dell’espressione di sé in una situazione storica ben precisa (come dimostrano le prese di posizione degli alter ego letterari di Lecco). Lo scrittore esprime una sorta di nietzscheano «sì» alla vita ebraica dopo le tragedie novecentesche, una sorta di superamento del nichilismo in vista di una «speranza» messianica.

    Quest’affermazione vitalistica non si riverbera – come potrebbe sembrare – nella ricerca di sensazioni forti (spesso di natura sessuale) o nel superamento della ragione in vista di un anti-intellettualismo di maniera (quello che, grosso modo, potrebbe sembrare l’attivismo del sabra rispetto all’inettitudine dell’«ebreo» diasporico). Lecco non esprime una «volontà di potenza» di natura edonistica o distruttiva. L’esigenza dei suoi protagonisti ebrei è soprattutto quella di non sentirsi più «errori», di poter dunque errare senza avvertire più quell’ineffabile senso di colpa verso la propria esistenza mondana. L’ebreo lecchiano – come ha scritto nella raccolta di saggi Don Chisciotte ovvero l’identità riconquistata (1985) – vuole essere radicalmente diasporico per «errare», con la sua «tragica allegria» e «sfrenata tristezza», all’interno di un mondo finalmente redento. Vuole cessare – riferendosi a Kapò di Pontecorvo – di essere antisemita per conto terzi (come ha scritto Sartre), per «ritornare in mezzo agli altri cosi com’è e non come la debolezza e la viltà degli altri vogliono che sia». Quest’uomo un po’ dostoevskiano (umiliato e offeso), un po’ nietzscheano (risentito e «immorale») aspira a non essere più prigioniero dello sguardo proprio e altrui, a vivere un’esistenza autentica e completa in mezzo agli altri, senza più scontare una presunta colpa originaria: quella di non essere un uomo. Un’esigenza, questa, che i personaggi lecchiani riusciranno a soddisfare al meglio nei larghi spazi culturali americani, lontani dalla «vecchia» Europa e da un immobilismo spirituale assolutamente intollerabile: qui potranno finalmente abbandonarsi alle proprie passioni amorose e affrontare l’«inferno» e il «paradiso». La libera espressione della propria passione non significa, però, il conseguimento di una sorta di quadratura esistenziale, il superamento della propria «prigione» identitaria, ma la nemesi di un sentimento tragico della vita, ben espresso dalla passione di Lecco per la patetica figura di Don Chisciotte. Il senso della morte viene trasfigurato in una sorta di «suicidio» esistenziale, in cui i protagonisti lecchiani, una volta denudati se stessi, pongono scientemente fine alla propria finzione scenica riacquistando, di proprio pugno e non per conto terzi, la propria dignità umana.

    Lecco non è stato solo un romanziere italiano «minore» e «sui generis», ma ha anche partecipato pubblicamente all’elaborazione di una nuova concezione dell’identità ebraica diasporica novecentesca. Se i romanzi e i racconti hanno tentato di ridare vigore all’esperienza letteraria del realismo tragico (nella forma di auto-denudamento coscienziale quale base di ogni esistenza autentica e autonoma), i suoi articoli e saggi apparsi su riviste e quotidiani fra gli anni Sessanta e Novanta hanno sempre posto all’attenzione del lettore il tema dell’universalità dell’identità ebraica e l’esigenza di impedire qualsiasi deviazione o rimozione della tragedia novecentesca. La profonda partecipazione emotiva riscontrabile nelle caratterizzazioni dei personaggi letterari e nella difesa delle proprie tesi (spesso ortodosse nella «moralità» dell’Olocausto), rende lo scrittore milanese un «corpo» parzialmente estraneo al panorama letterario e pubblicistico del secondo dopoguerra. Questa estraneità ha contorni autobiografici e intellettuali: la sua esperienza della persecuzione antiebraica, il difficile dopoguerra, i «viaggi» americani e un marcato impegno pubblicistico negli anni Ottanta e Novanta permettono di delineare il profilo di uno scrittore che ha tentato di superare artisticamente, culturalmente e politicamente una visione «socratica» e consolatoria della condizione ebraica postbellica, rappresentata in Italia dall’icona di Primo Levi. La rinascita dell’ebreo in quanto uomo nasce dall’accettazione piena, completa e storica della propria identità come costrutto di «altri»: solo il grido di disperazione dell’ebreo contemporaneo, sopravvissuto all’Olocausto, può alzare il velo di fronte al «nazismo perenne» e all’autodistruttività umana.

    L’obiettivo di questa monografia storica è quello di analizzare in prima battuta la produzione romanzesca di Alberto Lecco dedicata all’identità ebraica (che non è stata il centro di tutte le sue opere letterarie ma – a partire dagli anni Settanta – ne ha rappresentato larga parte). Partiremo dal citato Anteguerra, l’opera autobiografica che indurrà lo scrittore milanese ad abbandonare la professione medica per intraprendere la carriera di romanziere a Roma. Ci soffermeremo poi su quello che, forse, è il suo capolavoro (ed è il romanzo più «noto» al pubblico): L’incontro di Wiener Neustadt, dove, in posizione critica verso l’immagine dell’ebreo «carnefice di se stesso» passata nell’immaginario culturale italiano degli anni Sessanta e Settanta (si pensi a Kapò di Gillo Pontecorvo e a Il portiere di notte di Liliana Cavani), Lecco ripresenta in termini filosofici e psicologici il problema del rapporto fra «vittima» e «carnefice» in chiave dostoevskiana quale scontro di «tipi». Affronteremo poi il cosiddetto «filone americano», rappresentato dai tre romanzi ambientati nel Nuovo Continente (dove Lecco trascorse lunghi periodi negli anni Sessanta alla ricerca della propria ebraicità): Un Don Chisciotte in America (1979), La casa dei due fanali (1991), L’uomo del libro (1991). Passeremo al romanzo d’argomento ebraico – a detta dell’autore – più vicino all’insegnamento dostoevskiano: L’ebreo (1981). Faremo una piccola digressione romana: Ester dei miracoli (1986), la storia romanzata degli ultimi giorni degli ebrei romani, dai contorni fortemente autobiografici. Analizzeremo l’ultimo romanzo lecchiano, ambientato in un’America ormai d’amarcord: I buffoni, che segna la rappacificazione dell’autore con la sua storia personale. Al termine di questa lunga carrellata letteraria ci sposteremo sulla produzione pubblicistica e saggistica di Lecco, sempre legata all’attualità e incentrata sul tema della rappresentazione dell’ebreo nell’arte e nella cultura contemporanea, dalla diaspora sino al nuovo stato di Israele.

    Capitolo I. Il dilemma tra impegno (comunista-popolare) e disimpegno (ebraico-borghese): Anteguerra (1955)

    Il primo romanzo di Alberto Lecco (Anteguerra), profondamente autobiografico, narra la storia di due famiglie milanesi che vivono nello stesso stabile: la famiglia borghese Dominedò, composta dal padre Carlo, dalla madre Lucilla e dal figlio Augusto; e quella dei portinai Rajoni, composta dal padre Toni, dalla madre Sibillina Mastrogiacomo e dal figlio Gianni⁵. Siamo alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Romanzo-fiume secondo i canoni classici del realismo ottocentesco, Anteguerra presenta alcuni topoi della narrativa classica ebraica italiana: l’immagine dell’ebreo borghese «inetto» o «indifferente», la sua incapacità di reagire costruttivamente al «rifiuto» fascista⁶. La differenza rispetto ad altri autori di tema ebraico consiste nel tentativo di smascherare l’inadeguatezza del personaggio di fronte al mondo. La scelta del periodo storico (l’interstizio fra il varo delle leggi razziali e lo scoppio della Seconda guerra mondiale) è emblematica: l’ebreo italiano deve decidere da che parte stare. Alla fine sceglie di non decidere e finisce

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