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La battaglia di Montgisard
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La battaglia di Montgisard

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Francia, 1177. Il re Luigi VII vuole aiutare il regno di Gerusalemme a contrastare la minaccia musulmana proveniente dall’Egitto e ordina ai suoi nobili di inviare soldati e cavalieri in aiuto di Baldovino IV. Lamentando l’eccessivo costo dell’impresa, uno di essi manda un esiguo gruppo di armati insieme al figlio terzogenito Michel, convinto di acquietare eventuali rimostranze del sovrano con il “sacrificio familiare”. Il ragazzo, dall’indole pacifica, è costretto a salpare per la Terrasanta e si trova immerso nella durissima realtà della guerra. Durante la battaglia di Ascalona, dopo aver perso di vista il suo signore Baliano per il quale opera come scudiero, viene ferito, abbandona la spada e si rifugia dentro l’ospedale della città. Terminato lo scontro, racconta di aver rotto l’arma durante la battaglia. Una menzogna che gli costerà molto caro e che lo porterà, durante lo scontro alla fortezza di Montgisard, a confrontarsi con la sua peggior nemica: la paura di morire.
LanguageItaliano
Release dateMay 21, 2020
ISBN9788835832638
La battaglia di Montgisard

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    La battaglia di Montgisard - Guido Colombo

    1177

    ​I

    «Fermare la colonna! Formare un perimetro difensivo! Esploratori in ricognizione!»

    Michel gorgoglia come se stesse affogando, a causa della sabbia sollevata dalla carovana e respirata a bocca aperta mentre dormiva. Una lama di luce gli lacera gli occhi appena li apre. Privo di controllo, il ronzino che cavalca va a sbattere contro un soldato intento a bere. L’uomo perde la presa sulla bisaccia, che cade per terra disperdendo il prezioso liquido, mentre il ronzino scarta di lato.

    Il mondo si capovolge e Michel si ritrova a terra, a guardare il ventre bianco del cavallo. Sarebbe una fine beffarda, rompersi il collo cadendo dalla sella dopo essere riuscito a sopravvivere ad Ascalona.

    Il ronzino gli annusa la testa, nella speranza di trovare qualcosa da mangiare nascosto fra i capelli.

    Michel si rialza di scatto. Assieme a lui viaggiano i cavalli del suo signore. Non saranno scappati? Tira un sospiro di sollievo quando li vede vicini a lui, assicurati per le briglie alla sella del ronzino. Un bramantino dal manto roano e dal buon carattere, sul cui dorso sono assicurati un’armatura e una tenda, e uno shire dal manto marrone e dalle zampe muscolose da usare in battaglia. In fondo, chi oserebbe soltanto sfiorarli, rischiando di attirare l’ira di uno degli uomini più malvagi che Michel abbia mai conosciuto?

    Un dolore si propaga lungo la colonna vertebrale. Dopo tutto quel tempo passato in groppa al ronzino, si stupisce di come la schiena riesca ancora a sorreggerlo.

    Da quanto tempo cavalcano nel deserto? Sembra un’eternità, anche se sono passati solo pochi giorni da quando hanno lasciato Ascalona.

    Alcuni esploratori abbandonano la colonna cavalcando in direzione nord-ovest. Una nuvola di polvere si solleva dietro di loro.

    Michel si chiede quali notizie porteranno al loro ritorno. Le ultime informazioni giunte sono tutte uguali e per nulla rassicuranti.

    Osserva l’ambiente circostante, con gli occhi ancora arrossati per il sonno, per capire dove la colonna si sia arrestata. Qualche ciuffo d’erba immobile, dei cespugli spinosi che circondano i bordi di alcune rocce sparse nella radura. Qualche albero isolato in lontananza. Il letto asciutto di un fiume costeggia la strada come una profonda ferita. Niente di diverso rispetto ai paesaggi visti nelle soste precedenti.

    Michel si accarezza il naso. Le dita percorrono il profilo fratturato, sfiorando la cicatrice che attraversa trasversalmente il setto nasale. Incomincia a camminare. Davanti a lui la fila di carri che trasportano tende e vettovaglie, ferma lungo la strada, sembra un gigantesco lombrico addormentato. Non sa dove si trovi. Il ricordo più recente conservato nella sua memoria è quello della colonna che piega verso est, dopo essere arrivata a sud di Ramla.

    I soldati attorno a lui si sfilano gli elmi e appoggiano i pavesi a terra.

    Michel osserva gli scudi allungati e a forma di mandorla, fatti di legno e rinforzati lungo il bordo da una protezione metallica. Sono talmente pesanti da doverli usare assicurando una cinghia di cuoio attorno alla schiena. Ripensa all’isola di Maguelone, quando per ingannare l’attesa dell’imbarco, Sir Cedric gli impartì la prima, dolorosa, lezione di scherma.

    Un soldato sguaina la spada e la appoggia su una pietra ceramica dopo averci sputato sopra. Quindi inizia a sfregarci sopra il filo della lama a più riprese.

    La mente di Michel torna ad Ascalona. Quella cosa indistinta che lo colpisce fulminea. Il cavallo che s’impenna. La sua carne che va a fuoco. La morte dipinta sul volto di quel soldato.

    La mano si muove lungo il fodero, stringe l’elsa della spada. La lama incomincia a scorrere lenta, fuoriuscendo di due dita dalla guaina di legno.

    Era come se una mandria di cavalli corresse dentro la sua testa. Rinfodera l’arma con un gesto secco e il suono della guardia cruciforme che cozza contro le cappe di metallo gli colpisce le orecchie come il rombo di un tuono.

    Prova vergogna, ma anche sollievo, per essere ancora vivo. Forse qualcuno lo aveva visto, ma per il momento nessuno si è fatto avanti per accusarlo. Tuttavia la mancanza di una totale certezza continua a farlo sobbalzare ogni volta che qualcuno pronuncia il suo nome.

    Si accarezza la mascella. Filippo ha fatto un ottimo lavoro. Le sue dita sono asciutte e al tatto la ferita gli procura solo una strana sensazione d’insensibilità, come se gli mancasse una parte della faccia.

    La sua gola è secca, ma dovunque posi lo sguardo non vede nessun pozzo che gli permetta di riempire l’otre. Neanche un’oasi. Potrebbe provare a scavare nel greto del fiume, ma avrebbe bisogno di una pala e non è detto che riesca a trovarla. In compenso avrebbe più sete a causa della fatica.

    Dei soldati corrono lungo la colonna. Si sbracciano e indicano una cinta muraria che si erge su di una bassa collina a un quarto di lega di distanza. Gli uomini abbandonano i loro posti, impugnando secchi e otri.

    Acqua!

    Michel afferra le redini degli animali e si avvia nella stessa direzione, superando i resti di una costruzione in pietra, circondata da rovi, formata da un largo corridoio con tre camere per ogni lato e un cancello che scorre perpendicolare all’ingresso. Ha già visto quel tipo di rovine in altri due insediamenti presso cui si è fermata la colonna. Gli abitanti di quei luoghi gli avevano spiegato che sono i resti dell’antica porta d’ingresso al villaggio, costruita in un’epoca precedente all’arrivo dei Romani. Mentre le supera, si chiede quanti soldati abbiano arrossato quelle pietre con il loro sangue.

    Gli armati si ammassano lungo l’ingresso di una caverna che conduce a delle gallerie di drenaggio, dalla quale alcuni contadini fuoriescono con secchi traboccanti d’acqua.

    Segue con lo sguardo i contadini allontanarsi frettolosi in direzione degli svariati filari di palme da dattero che contornano il fianco del colle. Per un istante s’illude di essere tornato in quella che, suo malgrado, da qualche tempo è costretto a chiamare casa. Ma fuori dal villaggio di Yavne non ci sono palmeti e neanche colline.

    In definitiva, Yavne non è casa sua.

    Davanti all’ingresso della caverna, l’assembramento continua a crescere. Un giovane, incurante di ciò, esamina gli zoccoli di un ardennese dal mantello bianco, picchiettato da peli marroni, e criniera bionda platino.

    «Hai idea di dove ci siamo fermati?» chiede Michel.

    Il giovane posa lo zoccolo a terra e quando si volta mostra un viso dalla carnagione pallida scottata dal sole e sormontato da un folto ammasso di capelli biondi e sottili, così chiari da sembrare bianchi. Si stira la sopravveste da combattimento, mettendo in mostra un ricamo in mezzo al petto. Una nave d’argento su uno scudo francese azzurro e una fascia bianca orizzontale sulla parte superiore. Il simbolo della famiglia di Reginaldo de Grenier Signore di Sidone, una fascia di terreno che corre sulla costa del Mediterraneo, tra Tiro e Beirut.

    Ugo de Grenier fa sempre così, quando qualcuno gli rivolge la parola. Qualcuno che non sia il suo signore Jocelin III o qualche altro nobile. Con quel gesto rimarca di appartenere alla famiglia imparentata con l’attuale re di Gerusalemme e di essere al servizio di un aristocratico che governa uno dei quattro Stati cristiani in Terrasanta. «Nei pressi del villaggio di Tell el-Jezer. Poco più di una lega a sud-est di Ramla.»

    Michel si accarezza la cicatrice del naso. La sua espressione è quella di chi ha ricevuto una risposta senza averne capito il senso. «E quella fortezza lassù?»

    Ugo guarda il ragazzo come se provenisse da qualche mondo sconosciuto. «Quella lassù è la fortezza di Montgisard.» Scuote la testa, mentre afferra la brusca e inizia a strigliare la criniera dell’ardennese. «Ancora mi domando come un ragazzo tonto come te possa essere lo scudiero di uno dei cavalieri più valorosi di tutta la cristianità.»

    Michel apre la bocca per controbattere, ma desiste. Non ha mai spiegato a nessuno il vero motivo che l’ha portato in questa parte del mondo. Neanche a Ugo. Non per mancanza di fiducia. Semplicemente, non crede che il suo stato d’animo possa essere compreso appieno da una persona che fa della perfetta conoscenza dell’araldica una questione di principio.

    Saluta Ugo con un gesto della mano e si mette in coda per la distribuzione dell’acqua, pigiandosi tra soldati sudati, stanchi e assetati che si lamentano della lentezza con cui scorre la fila o di chi non rispetta il proprio turno. Numerose risse prendono vita ai lati della fila. Alcune guardie vengono disseminate fra la folla e in poco tempo l’ordine è ristabilito a suon di calci e bastonate.

    Varcato l’ingresso della caverna, Michel prova la piacevole sensazione di avere la testa all’ombra. Addentrandosi nella cavità, l’aria diventa più fresca e i suoni distanti. Segue il percorso di torce che ardono lungo la parete umida, fino ad arrivare alla sorgente. Ha davanti lo specchio d’acqua e un violento desiderio di buttarcisi dentro. Ma i suoi doveri di scudiero armato gli impongono di pensare prima ai bisogni del suo signore e poi a se stesso. Apre la bisaccia, estrae un secchio pieghevole di canapa impermeabilizzata con olio di lino, lo riempie e lo avvicina al muso dello shire. Poi è il turno del bramantino e infine del suo ronzino. Quando immerge il secchio per la quarta volta, qualcosa gli batte sulle terga.

    Si volta e ha di fronte un soldato, probabilmente posto a guardia della sorgente per accertarsi che nessuno vi indugi più del necessario.

    Il ragazzo indica il secchio colmo. «Devo portarla al palafreno del mio signore.»

    Il soldato sospira mettendosi tra lui e l’ingresso della caverna. «Se potessi avere un tornese per ogni volta che ho sentito questa scusa, sarei più ricco del re di Gerusalemme.»

    La gola ricoperta da una patina di sabbia e il pensiero dell’otre che giace vuoto sulla sella del suo ronzino fanno trovare al ragazzo il coraggio di ribattere. «Cosa dovrò dire, quando il mio signore chiederà il motivo di questo ritardo?»

    Guarda il soldato dritto negli occhi, sperando che il volto non tradisca le sue intenzioni. Nella sua giovane

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