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Suono e parola
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Suono e parola

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Con Arturo Toscanini e Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler è considerato uno dei massimi direttori d’orchestra della prima metà del XX secolo. Tuttavia, alla sua morte, la testimonianza della sua arte, ovvero la sua discografia, era estremamente esigua. Solo in seguito, nei decenni successivi, tale testimonianza, grazie ai documenti “live”, è diventata imponente, oggetto di una costante attenzione dei musicofili e della critica. Compositore, prima ancora che direttore, Furtwängler, tra gli altri, ha però dovuto scontare l’indifferenza del pubblico per la sua stessa musica e per buona parte della produzione originale del Novecento, produzione contro la quale (soprattutto atonalismo e dodecafonia) si è opposto con la prassi direttoriale e con i rari ma puntuali interventi saggistici. Devoto sino all’idolatria religiosa a Beethoven, Wagner, Bruckner e Brahms, dei quali è diventato il sacerdote fondamentalista, Furtwängler ha dedicato loro tra le pagine più alte e ispirate scritte da un interprete della sua statura e della sua epoca. 
Questa nuova edizione, redatta con un criterio che ricolloca gli studi furtwängleriani in un contesto critico-ideologico, contiene la discografia completa del maestro.     
LanguageItaliano
Release dateMay 18, 2020
ISBN9788835830306
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    Suono e parola - Wilhelm Furtwängler

    Wilhelm Furtwängler

    Suono e parola

    UUID: 22d8bda9-08ac-4dc3-9a3f-b23c3f96b436

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Un caso ancora aperto

    Compositori

    Bach

    La melodia tedesca di Haydn

    Considerazioni sulla musica di Beethoven

    Il valore universale di Beethoven

    Beethoven e noi

    Le Ouvertures del Fidelio

    Il franco cacciatore

    Il caso Wagner

    Osservazioni sulla musica dell’Anello del Nibelungo di Wagner

    Il Wagner misconosciuto

    Hans Sachs conosceva la strada

    Anton Bruckner

    Johannes Brahms

    Brahms e la crisi del nostro tempo

    L’interprete

    Dirigere a memoria

    Osservazioni sull’esecuzione della musica antica

    L’interpretazione, problema capitale della musica

    Sui programmi di concerto

    I classici nella crisi della musica

    L’Orchestra Filarmonica di Vienna

    Vitalità della musica

    Politica & Cultura

    Arte e carattere nazionale germanico

    Il caso Hindemith

    Osservazioni di un compositore in occasione della prima esecuzione della sua seconda sinfonia

    Pensieri sul Romanticismo

    Goethe

    Tutto quel che è grande è semplice

    Suono & Parola

    Heinrich Schenker

    All’amico Karl Straube nel settantesimo compleanno

    In memoria di Max von Schillings

    Domande a Furtwängler Tournée in Europa dei Filarmonici di Berlino

    Discografia di Wilhelm Furtwängler

    I dischi autorizzati da Furtwängler

    Un caso ancora aperto

    Con ogni probabilità il parametro più affidabile parlando di Wilhelm Furtwängler è quello al quale il direttore stesso meno si è riferito: la sua discografia. È nota infatti l’avversione del maestro tedesco per ogni forma di conservazione e trasmissione del suono, che si parli di dischi o di radio, e in merito a questo i saggi contenuti in Suono e parola non lasciano dubbi. Per Furtwängler la musica era un rito estemporaneo, la sublimazione di una liturgia laica possibile solo in ambito comunitario; non era pensabile come conseguenza di una perfezione edificata e pianificata attraverso un rigoroso esercizio di prove, e in seguito goduta nella solitudine dell’ascolto differito. Gli parve sempre una sorta di sacrilegio fissare un evento musicale e cristallizzarlo poi nei solchi di un disco in modo da consegnarlo a una reversibile eternità nelle teche di un museo. Sono — oggi che la riproduzione di immagini e suoni rappresenta una realtà condivisa e scontata — pensieri di un uomo d’altri tempi, lontano da noi non già un’ottantina d’anni ma secoli? Può essere, per quanto i direttori d’orchestra della generazione di Furtwängler nutrissero, anche se per le ragioni più disparate, la sua stessa diffidenza verso l’opera d’arte riprodotta in modo meccanico. Non tutti, però. Di fronte all’avversione discografica di un Toscanini e di un Knappertsbusch, per esempio, negli anni tra il Venti e il Trenta abbiamo anche l’adesione al nuovo mezzo di diffusione della musica di un Bruno Walter e di un Leopold Stokowski, che furono tra i primi a credere nel disco e a costruire qualcosa di simile a una discografia organica, per quanto non paragonabile alla pianificazione industriale che, nella seconda metà del Novecento, adotteranno per se stessi un Karajan e un Bernstein.

    Partire dunque dalla discografia superstite di Furtwängler per spiegarne le opere e i giorni potrebbe sembrare un azzardo. Tuttavia non lo è se consideriamo il culto postumo consacrato alla sua figura a partire soprattutto dagli anni Sessanta. In merito a questo vorremmo essere chiari: nel novembre del 1954, quando Furtwängler muore, il suo nome è infinitamente meno noto di quello, per esempio, di uno Stokowski in America o di un Beecham in Inghilterra, o addirittura di un von Karajan, che proprio in quegli anni, soprattutto attraverso il disco, sta diventando un punto di riferimento mondiale. Furtwängler è conosciuto soprattutto nel mondo tedesco e, parzialmente, in quello anglosassone: non è un’icona mondiale come Toscanini, la cui ultima parte della carriera è stata enfatizzata e globalizzata dalla NBC e dalla RCA attraverso radio, televisione e dischi; non è un vertice umanistico come Bruno Walter, a cui la CBS americana consente la realizzazione di uno dei più alti cataloghi discografici di sempre: è semplicemente un direttore tedesco colluso drammaticamente col nazismo, che ha lavorato essenzialmente nel mondo austro-tedesco, che ha un repertorio ridottissimo, ben pochi dischi all’attivo e nessuna immagine pubblica di forte impatto pubblicitario. Tuttavia, a pochi anni dalla sua morte, scoppia quello che potremmo definire il caso Furtwängler.

    Partiamo dunque dai dischi, come abbiamo detto, per comprendere la ragione di questo fatto. In appendice alla discografia generale che pubblichiamo alla fine di questo volume, abbiamo aggiunto un secondo elenco di registrazioni di Furtwängler, cioè le uniche realizzate in studio e autorizzate dal maestro stesso. Si tratta, perlopiù, di incisioni effettuate da Furtwängler obtorto collo, senza nessuna convinzione, e ciò che è peggio senza riflettere minimamente il suo repertorio d’elezione, gli autori che più divulga, che più insidia, di cui più scrive. Una discografia frammentaria, dunque, oseremmo dire sciatta, riscattata solo in parte negli ultimi tre o quattro anni della sua vita da alcune incisioni di opere complete (La Valchiria, Fidelio, Tristano e Isotta) rese possibili dall’introduzione del nastro magnetico in luogo di quelle cere di lacca a 78 giri che costringevano i direttori a interrompere l’esecuzione ogni quattro minuti circa. Da tale lascito discografico mancano addirittura tre Sinfonie di Beethoven (la Seconda, l’Ottava e la Nona), due di Brahms, praticamente tutto Bruckner, quasi tutte le opere complete di Wagner: e si sta parlando del nucleo fondamentale al quale Furtwängler ha dedicato buona parte della sua vita. Siamo, come detto, a metà degli anni Cinquanta del Novecento. Toscanini muore nel 1957, Bruno Walter nel 1962. Il primo ha al suo attivo un patrimonio impressionante di documenti sonori, per quanto sarà necessario precisare che anche il maestro italiano era decisamente alieno alla sala di incisione, al punto da compiere settant’anni con un catalogo discografico ancor più esiguo di quello di Furtwängler. Tuttavia visse sin quasi a novant’anni e negli ultimi diciassette della sua carriera si dedicò esclusivamente all’Orchestra Sinfonica della NBC, la catena americana che praticamente registrò tutti i suoi concerti settimanali, traendone poi un corpus di dischi che, attraverso la RCA, invasero il mondo, conferendo alla figura del direttore italiano, già leggendaria da decenni, i connotati del mito. Walter, al contrario, frequentò la sala di incisione sin dagli anni Venti, e continuò a farlo sino alla morte, realizzando, soprattutto negli ultimi sei anni di vita, una serie di sessioni stereofoniche (Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms, Bruckner, Mahler) che ancor oggi sono punti di riferimento imprescindibili della letteratura musicale classica. Fu dunque in questa situazione di mercato, e con l’astro di Karajan in ascesa irreversibile, che le Case discografiche che, direttamente o indirettamente, avevano avuto a che vedere con Furtwängler, decisero di rilanciarne la figura andando in tal modo incontro al culto postumo che stava nascendo attorno a questo discusso e ambiguo protagonista della scena musicale germanica. Furono soprattutto la EMI, proprietaria del marchio HMV (His Master Voice, ovvero La voce del Padrone), per la quale Furtwängler aveva essenzialmente registrato, e la Deutsche Grammophon (erede del marchio Grammophon, per cui Furtwängler aveva firmato i suoi primi 78 giri) a rilanciare la palla su un mercato, a livello storico, dominato dai dischi di Toscanini e di Walter.

    Non è facile stabilire le ragioni del successo discografico di Furtwängler. Con un paradosso abbastanza azzardato, potremmo dire che la fortuna postuma di Furtwängler è merito del successo mondiale di Toscanini. Fu infatti come reazione collettiva a tale successo, costante, a livello dischi, per almeno un trentennio, che nacque, dagli anni Sessanta in avanti, quella che potremmo definire la reazione Furtwängler.

    In sé e per sé è una cosa relativamente semplice. Il nome di Toscanini, a livello mediatico, con un’Europa del secondo dopoguerra letteralmente in ginocchio, e quindi dominata dalla produzione statunitense, monopolizzò il mercato e l’intera catena distributiva internazionale. Le edizioni RCA (che all’epoca apparivano perfette, ad alta fedeltà, rinvenibili anche nelle località più periferiche) avevano fagocitato tutti i cataloghi concorrenti. Il prestigio del nome di Toscanini, uno scheletro esatto di discoteconomia (tutto Beethoven, tutto Brahms, tanto Verdi, gli immancabili favourites), le edizioni smaglianti, la promozione e le pubblicità più tambureggianti, l’acritica apologia delle riviste di settore e dei mezzi di comunicazione di massa, inneggianti al massimo direttore di tutti i tempi, alle edizioni definitive, all’alta fedeltà casalinga, avevano saturato il gusto e il livello emotivo del pubblico occidentale al punto in cui, alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio dell’era stereofonica, avvenne sostanzialmente un rigetto del mercato: da una parte, infatti, conquistarono stabilmente il pubblico le nuove registrazioni, Karajan, Bernstein e Solti in testa (per restare ai direttori); dall’altra si imposero, come riscoperta, le ristampe di famose incisioni dell’era del 78 giri, soprattutto in casa EMI e CBS, con la riproposta in LP di famose interpretazioni restaurate (Beecham, Mengelberg, Stokowski, Ormandy ecc.): e fu in questo contesto che proprio l’etichetta britannica EMI, basandosi sul residuo catalogo di Furtwängler in suo possesso, ne rilanciò in modo massiccio il nome, opponendolo astutamente a quello di Toscanini. I due personaggi del resto non potevano essere più diversi, più antitetici, tanto come artisti che come uomini. Diretto, abbagliante, intransigente, smaccatamente fortunato, Toscanini; oscuro, ambiguo, perseguitato dal destino, sublime nelle sue nebbie interpretative, Furtwängler. C’era materia per creare una contrapposizione storica, tanto fittizia a livello revisionistico quanto reale se valutata sulla base delle filosofie interpretative dei due. Fu così che, rovistando negli archivi delle emittenti radiofoniche, EMI e Deutsche Grammophon, diedero un assetto possibile a una discografia postuma di Furtwängler. Venne dunque pubblicata da EMI la Nona Sinfonia di Beethoven, assente dalla discografia del maestro, utilizzando il live della riapertura del Festival di Bayreuth del 1951. Si raccolsero, qua e là, e con orchestre diverse, le Quattro Sinfonie brahmsiane, gli estratti orchestrali di Wagner, la Nona di Schubert, le Sinfonie 4, 5, 7, 8, 9 di Bruckner. Infine, nel 1972, dopo spossanti trattative con la RAI, anche l’intero Anello del Nibelungo, registrato a Roma nel 1953 in forma di concerto. Sino a metà degli anni Settanta, non ci fu tuttavia un’invasione discografica incontrollata. A partire da quella data, però, con la diffusione delle etichette pirata, o private, o comunque indipendenti dalle multinazionali del disco, ebbe inizio quella che potremmo definire una vera e propria inflazione furtwängleriana, che toccò il suo apice nei decenni Ottanta e Novanta con l’introduzione sul mercato del Compact Disc. Ne fa fede la discografia che pubblichiamo in appendice, dove è possibile notare, accanto a quella che è l’unica versione autorizzata dal maestro di una certa opera, addirittura decine di altre registrazioni (per esempio la Prima Sinfonia di Brahms), che nulla aggiungono o tolgono a quanto già non sapessimo su Furtwängler interprete di Beethoven, o di Brahms, o di Bruckner. Naturalmente questo sfruttamento intensivo si focalizzò soprattutto su quelle opere di cui il direttore tedesco non aveva lasciato traccia nei suoi dischi: per esempio, Mozart, un autore che Furtwängler, come del resto tanti suoi contemporanei, non frequentò né comprese mai per quello che era stato. In tal modo, in una misura esponenzialmente priva di qualunque equilibrio critico, furono rese pubbliche imbarazzanti versioni delle Nozze di Figaro, di Don Giovanni, del Flauto magico, perlopiù riprese a Salisburgo a inizio anni Cinquanta, in versioni già vecchie al loro apparire, affondate com’erano nelle brume mahleriane di inizio Novecento, versioni atemporali contro le quali un Bruno Walter, un Richard Strauss, un Clemens Krauss avevano lottato per affermare una prassi mozartiana più settecentesca e decisamente, a livello operistico, più napoletana. Si impose come modello di autenticità bayreuthiana il Furtwängler della Tetralogia — in ben due edizioni: quella di Roma del 1953 (EMI), seguita da quella di Milano del 1950 (Cetra) — quando sul mercato erano già stabili da anni le versioni di Solti e di Karajan, che restituivano l’Anello alle due contrapposte, ma non meno legittime, dimensioni che gli sono proprie: quella epico-mitologica e quella psicologico-introspettiva. Si arrivò persino a commercializzare impudicamente una fioca edizione live della Passione secondo Matteo di Bach, priva di un congruo gruppo di numeri e anacronistica in tutto. Si utilizzarono come addenda brani antologici tratti dalle più disparate occasioni, come l’Obertura para una opera comica di José Maria Castro, che Furtwängler fece eseguire dall’orchestra del Teatro Colòn di Buenos Aires solo in omaggio al pubblico argentino. Si trovò uno spazio discografico per autori che Furtwängler aveva frequentato pochissimo, e per i quali non ebbe mai neppure molta simpatia: Debussy, Ravel, Blacher, Händel, Honneger, Pepping, Stravinky. Insomma, purché fossero nastri firmati da Furtwängler si trovò il modo di rovesciare sul mercato di tutto, compresi documenti privi di qualunque valore tratti dagli archivi delle radio e da collezioni private, spesso alterati nelle tonalità, oppressi da rumori di fondo fastidiosi, punteggiati da intromissioni di varia natura, dalle scariche radiofoniche agli insistenti colpi di tosse del pubblico.

    In realtà, la discografia di Furtwängler parla chiaro, e può serenamente essere ridotta all’opera di pochi compositori, essenzialmente Beethoven, Brahms, Wagner, Bruckner, Strauss, i cui nomi, del resto, sono quelli che dominano i saggi di Suono e parola. Oltretutto, dalla stessa discografia balzano agli occhi soprattutto le vaste lacune del repertorio discografico del direttore: la completa assenza dell’opera lirica italiana e francese, Mendelssohn e Schumann, Liszt e Dvorak, Berlioz e Bizet, Mahler e Debussy, Mussorgsky e Rimsky-Korsakov, Grieg, Sibelius, Respighi, Ravel, per non parlare di Johann Strauss e della musica leggera viennese. Ma le assenze più macroscopiche si annidano tra le opere dei suoi autori d’elezione: la Missa Solemnis di Beethoven, per esempio, o la Fantasia Corale, o il terzo Concerto per Pianoforte, o la stessa Sinfonia n. 2, recuperata in seguito da un master dubbio e di ascolto arcaico. Dal repertorio brahmsiano sono assenti invece le due grandi ouverture, la Tragica e l’Accademica, la Rapsodia per Contralto e il Canto del Destino, le Sinfonie 2, 3, 4, che, come detto, la EMI dovette recuperare dagli archivi radiofonici. In Bruckner è latitante soprattutto il Te Deum: in Strauss balza all’occhio l’assenza di numerosi poemi sinfonici: Vita d’eroe, Così parlò Zaratustra, Don Chisciotte. Intendiamoci: si tratta di un fatto normale per un direttore d’orchestra nato nel 1886, e quindi quasi del tutto alieno dalla prassi discografica. In Toscanini, infatti, non fa meno effetto vedere che dal suo impressionante lascito discografico manchino, tanto per restare al melodramma, opere alle quali aveva dedicato anni della sua vita come Il Trovatore e Lucia di Lammermoor. Salvo i casi citati all’inizio, quasi nessun grande interprete di quell’epoca volle o poté quindi trasferire in disco il meglio del suo repertorio, creando un catalogo esaustivo delle proprie interpretazioni. Non a caso, se consideriamo l’attività pubblica di Furtwängler, ovvero ciò che risulta dalla sua concertografia, il panorama cambia radicalmente, si allarga e riserva non poche sorprese. Vediamole.

    Innanzitutto Furtwängler è stato accusato di riservare poca attenzione a quelli che erano i compositori suoi contemporanei. Egli si è difeso più volte da questa accusa, e lo ha fatto anche in Suono e Parola, ripetutamente. Del resto chi può essere considerato contemporaneo di Furtwängler? Sono tali un Brahms e un Bruckner, che muoiono rispettivamente nel 1897 e nel 1896, quando Furtwängler ha una decina d’anni? Teniamo conto, in proposito, che quando Mascagni muore Riccardo Muti ha quattro anni. Possiamo dunque considerare Muti contemporaneo di Mascagni? Improbabile. Chi sono dunque i contemporanei alla cui musica Furtwängler si negherebbe? Lo è Mahler, di cui egli interpreta più volte la Terza Sinfonia a Vienna, nel 1920, e la Quarta a Berlino un decennio dopo, quando la memoria del compositore boemo, secondo la vulgata tradizionale, dovrebbe già essere condannata alla dannazione? Lo è Stravinsky, di cui sempre in quegli anni Furtwängler dirige spesso la Sagra della primavera? Lo è Respighi, i cui Pini di Roma sono presenti nel repertorio del direttore tedesco ancor prima che Toscanini li renda famosi attraverso le trasmissioni radio della NBC? Lo è Strauss, addirittura onnipresente nei programmi del maestro? Lo sono Pfitzner, Scriabin, Trapp, Graener, Straesser, Schönberg, Reger? Sì, lo sono. Bisogna quindi stare attenti a considerare Furtwängler un passatista a oltranza. Va però aggiunto che il direttore tedesco, così come risulta dalla concertografia, è spesso monotematico nei suoi programmi, e praticamente dagli anni Dieci in avanti crea una sorta di nucleo di repertorio nel quale attrae, alternativamente, i nomi che tutto sommato meno ci aspetteremmo da lui. Ma questo nucleo è immutabile come un astro, una sorta di canone teologico mensurato dai nomi di Haydn, Beethoven, Schubert, Bruckner, Brahms, Wagner, Strauss: immancabilmente, in ogni occasione e in ogni luogo: ed è quella, e quella soltanto, la rosa degli Iniziati, una rosa sacra che ruotando su se stessa consente tuttavia, di concerto in concerto, lo spazio per un nome meno noto, meno frequentato, o di una composizione meno indagata, meno perseguita, forse meno amata. Con il passare degli anni, però, quella rosa si restringe e le maglie diventano più spesse: Beethoven e Brahms ottengono via via più spazio, più consistenza, e finiscono per dominare incontrastati, onnipresenti, quasi ossessivi lo spazio mentale di Furtwängler. Spariscono o si attenuano i nomi di quei compositori che avevano abitato la giovinezza del maestro almeno fino ai cinquant’anni. Rimangono gli amori e le opere insopprimibili: di Beethoven le grandi Sinfonie, soprattutto Terza, Quinta, Settima, Nona. Scompare però — forse come montagna insormontabile — la Missa Solemnis, che pure Furtwängler aveva presentato a Vienna nel dicembre del 1921 e il Requiem di Mozart, dato sempre a Vienna nel 1923. Con l’avvento del nazismo, il repertorio si restringe ancora di più e quasi si identifica con Beethoven e Wagner, dei quali, almeno in patria, Furtwängler diventa il profeta. Per un decennio è quindi un’apoteosi quasi ossessiva di produzioni wagneriane e di programmi sinfonici beethoveniani, che terminano bruscamente a Winterthur il 23 febbraio del 1945 con l’Ottava di Bruckner, quasi un epicedio sulla Götterdämmerung hitleriana. Poi, dopo la sospensione decretata dagli Alleati vittoriosi e il processo di denazificazione, gli ultimi otto anni, che hanno inizio dall’Italia, dall’Orchestra di Santa Cecilia a Roma il 6 aprile 1947 con un programma speculare: Beethoven, Schubert, Brahms, nomi che si ripeteranno con ancora maggiore frequenza, anzi, che ormai sono, con Bruckner e Strauss, gli unici rimasti di quella che vorremmo definire una vita incompiuta all’interno di una sconfitta accettata. Quelli in cui Furtwängler si rifugia, quelli in cui non ha smesso di credere, che propone ovunque e che ormai considera come tutto ciò che gli rimane, tutto ciò che ha da opporre a un mondo che non comprende più, e dal quale se ne va, per una banale broncopolmonite, nel 1954, a soli sessantotto anni.

    Toscanini, visto oggi in una prospettiva storica e non celebrativa, è soprattutto l’uomo nuovo di un secolo meccanico e feroce come il Novecento del Carso, dei Gulag e di Auschwitz: è la macchina programmata per un fine, la civiltà tecnologica che irrompe nell’universo magmatico del grande Ottocento. Aldilà di una disciplina interna (lettura e interpretazione ortodossa della partitura) ed esterna (modi di fruizione dello spettacolo) la cosiddetta lezione di Toscanini è stata soprattutto la sistematizzazione tecnologica del patrimonio musicale europeo che va da Vivaldi a Shostakovich, il suo inserimento in una logica aziendale, esatta quanto astratta, che prevede innanzitutto funzionalità, splendore di mezzi, raggiungimento del risultato, massima soddisfazione del cliente. Insomma, l’efficienza produttiva del capitalismo in musica. Furtwängler, al contrario, figura tragica e solitaria, compositore che ha fallito il suo scopo, direttore dall’estetica indeterminata e cangiante, più che l’adorniano custode della musica, è ciò che sopravvive tenacemente a un’era scomparsa con la fine del XIX secolo. Epigono estremo della filosofia interpretativa di Wagner, Furtwängler considera il suo rapporto coi classici come un moto di libertà interiore assoluta. Non gli interessa, se non in misura minima, la lettera, poiché quello che cerca di mantenere vivo, fuori dai perimetri della logica consumistica del capitalismo di cui Toscanini è campione, è lo spirito di una cultura che egli sente inabissarsi e di cui si avverte sempre più come il garante estremo, quasi una figura eroica e disperata come quella di Rutilio Namaziano che è costretto ad abbandonare una Roma dilaniata dalla barbarie per rifugiarsi nella nativa Gallia. Tuttavia quest’uomo che sopravvive in un mondo che fatica a riconoscere e dal quale farsi riconoscere cade vittima, e vittima illustre, di un’altra barbarie contemporanea e ne diventa a sua volta il campione, il mallevadore: il nazismo.

    Su tale argomento si è scritto tanto, forse troppo. Tuttavia i fatti sono chiari e tutti riconducibili alla biografia di Furtwängler senza che possa inserirsi un dubbio capace di alterarli. Vediamo intanto le date. Quando nel gennaio del 1933 Hitler e il partito nazionalsocialista assumono il potere in Germania, Furtwängler ha esattamente 47 anni: un uomo alle soglie della maturità, quindi, che ha già maturato quasi un trentennio di esperienze artistiche come direttore d’orchestra e come compositore. Ha diretto a Salisburgo e a Bayreuth. Nel 1922 ha ereditato da Arthur Nikisch la Filarmonica di Berlino e quella della Gewandhaus di Lipsia. Ha dominato le piazze di Lubecca, Mannheim, Vienna, Londra. È stato ospite della Filarmonica di New York. Ha diretto la prima esecuzione mondiale delle Variazioni Op. 31 di Schönberg e della Musica Concertante Op. 48 di Hindemith. È amato e sostenuto da uno dei più illustri filosofi della musica, Theodor Wiesegrund Adorno. È, insomma, uno dei punti di riferimento imprescindibili del repertorio austro-tedesco. Ma è a questo punto che, dopo alcuni secoli di incubazione, nei quali atrofie mentali sulla razza, conati intermittenti di antisemitismo luterano, arroganza etnica e culturale, e soprattutto il violento desiderio di vendetta nato dal trattato di pace del 1919, esplode il fenomeno nazista. E non è un colpo di stato, una rivoluzione della casta militare: è il risultato di libere elezioni, il compimento dei più fausti presagi di un

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