Ma...donne
By Tonino Scala
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Ma...donne - Tonino Scala
foulard
Dolceremì
Uno dei grattacieli dell’isola A, nella parte in marmo, dove non ci sono finestre, è coperto da una gigantografia enorme: una cover girl che pubblicizza una bottiglia di Coca-Cola.
In lontananza palazzi, auto, uomini in giacca e cravatta che corrono a prendere il treno.
Cemento nuovo, cemento vecchio. Aria autunnale che sa di primavera, l’inverno è ancora lontano.
Odori, tanti odori, quelli che provengono dalle cucine dei vecchi palazzi che fiancheggiano il centro direzionale.
Puzza, tanta puzza, quella che viene dai gas di scarico e dai sotterranei adibiti a parcheggi e ad orinatoi pubblici non autorizzati.
Nonostante tutto, colori, tanti colori.
Quelli del cielo che sta per diventare scuro, quelli delle luci che iniziano ad accendersi, quelli degli uffici quasi deserti, quelli delle insegne dei negozi.
Una giovane signora con il maglioncino sulle spalle e le buste della spesa piene zeppe, torna a casa.
Chissà cosa sta pensando.
Un adolescente gioca a pallone da solo. Avrà finito i compiti, forse li farà stasera, forse non li avrà mai fatti.
Palleggia, solo, con un vecchio Supersantos e delle Adidas consumate.
Si è fatto tardi, il sole sta per rientrare, meglio tornare a casa.
Con il petto stoppa la palla, la lancia forte verso cielo, con gli occhi guarda questa piccola sfera rossa perdersi in una tranquilla sera d’ottobre.
Case, tante case, intorno antenne, tante antenne, parabole, tante parabole, panni stesi, tanti panni stesi, cielo azzurro all’imbrunire e nuvole veloci che sembrano correre.
Il pallone ritorna a terra, tutto torna, tutto, tranne la morte, anche quella dell’animo.
Dolceremì è a pecora, con i pantaloni abbassati, aspetta.
Attende che Giovanni faccia presto.
Attesa silente, angoscia e solitudine.
Un lungo corridoio buio e deserto. Silenzio, tanto silenzio. Sono andati tutti via.
Pantaloni abbassati e chiappe raffreddate dall’aria di un condizionatore che gela le viscere.
Camicia sbottonata e mani che sudano.
Zizze che ballano e culo fermo, sodo come una pietra. Capelli neri lunghi che finiscono davanti agli occhi e s’incastrano in quegli occhiali neri da segretaria.
Pantaloni abbassati, mutande bianche sporche, camicia penzoloni, camicia celeste stropicciata, cravatta regimental, bretelle tra i piedi che intralciano quel sesso sporco
.
Sudore, tanto sudore.
Mazza tosta pronta all’uso. Pronta a penetrare quel culo da venerare.
Non che preferisse così Dolceremì, ma non voleva guardare il suo assassino negli occhi.
È impassibile, aspetta, aspetta che finisca tutto e presto.
Da dietro, si da dietro, mentre guarda il mondo. Quel mondo che fin troppo l’aveva inculata, ma che amava guardare.
Sguardo assorto, occhi spenti, rabbia, tanta rabbia. Una rabbia che scava, che non fa vivere, che non dà il coraggio di vivere.
Guarda il mondo Dolceremì, quei palazzi grigi, che stonano con Napoli, sono oramai diventati parte integrante di quella città che sa di sale e sole, in una serata fresca e breve.
Guarda il mondo da un vetro, da un palazzo di vetro. Il mondo sì, ma gli occhi, lo sguardo sporco e vile di chi vuole il culo, il tuo culo in cambio di un diritto, quello no. Non voleva che s’incrociasse con il suo. Non voleva guardare negli occhi quell’uomo che schifava.
Schifava come tutti gli uomini.
Schifava a morte.
Lo schifava a più non posso. Da quando era entrata a lavorare in quell’azienda.
Da subito aveva notato che Giovanni, direttore del personale, già dal primo colloquio era più intento a guardare le sue tette che a capire ciò che dicesse.
Pensava fosse una sua impressione inizialmente, poi dopo il primo contratto, gli sguardi si fecero insistenti, i discorsi ambigui, fino a diventare espliciti.
Ogni qualvolta si girava Dolceremì, sentiva quello sguardo viscido addosso. Con quegli occhi le faceva la rettoscopia. Li sentiva dentro, ferivano il suo io, li sentiva fin dentro il buco del culo.
Che avesse un bel culo questo era oggettivo, ma quello sguardo così insistente… Quei pensieri li vedeva tutti.
A volte vomitava Dolceremì. Vomitava acqua. E non solo per quegli sguardi. Per quella violenza subita con uno sguardo, con una toccata, con un pensiero. Quegli sguardi, scavavano, facevano ricordare. Brutti ricordi, brutti incubi. Sguardi arrapati che facevano male. Tanto male.
Lo aveva capito fin da subito che Giovanni era uno stronzo:
... però con un curriculum vitae come il suo... laurea in Scienze della formazione... novantasette... nessun precedente lavorativo...certo che non...
Non che, non che un cazzo! Mi son fatta un culo così, facevo la cameriera per mantenermi. Non che? Pezzo di merda!
Doveva lavorare Dolceremì, aveva bisogno di quel lavoro. Per quel lavoro avrebbe fatto tutto, non si sarebbe mai immaginata di dover dare addirittura il culo.
Tra dieci giorni ti scade il contratto, vuoi essere riconfermata…allora…
Allora? Cazzo allora, cazzo, cazzo, cazzo
.
Aveva una rabbia contro tutto e contro tutti…anche contro se stessa!
Non mi abbasso a queste cose io. Mai e poi mai. Ho una dignità
.
Questo pensava quella bella ragazza che non si sentiva donna. Aveva paura di essere donna. Quella donna che odiava gli uomini, tutti gli uomini dal profondo del suo animo, dal suo buco del culo che le faceva male.
Non mi abbasso a queste cose io. Mai e poi mai. Ho una dignità
.
Ho una dignità e i giorni passavano.
Ho una dignità e la scadenza si avvicinava.
Ho una dignità e le umiliazioni aumentavano.
Faceva l’impiegata Dolceremì. L’impiegata in un’azienda di servizi al Centro direzionale, dove Napoli si fa azienda. Dove Il cemento e l’acciaio si confondono con la ferrovia e i vicoli bui.
Ferrovia kasba d’occidente dove trovi di tutto, sacro e profano, amore a buon mercato e amori che partano che vanno, che arrivano.
Ferrovia crocevia di vite, di morte, di sogni passati, svaniti, arrugginiti. Ferrovia dei pacchi, doppi pacchi e contropaccotti che la vita ti consegna.
Ferrovia delle tre carte, questa vince, questa perde, ma a vincere è sempre il banco, e quel banco non sei tu.
Ferrovia delle puttane, dei travestiti, dei ragazzi Rom che si prostituiscono, di pompini fatti all’impiedi in portoni ambigui figli di quel risanamento che ha sanato un cazzo, che se ti va bene, vieni e ti prendi una malattia, se ti va male vengono e ti fottono tutto, se ti va bene.
Ferrovia: Amen!
Anna, Dolceremì dai tempi della scuola, era chiamata così per la sua tristezza. Si percepiva dagli occhi, dallo sguardo spento, penetrante, amorfo, umiliato, triste, affranto, cazzo vuoi, vaffanculomondo, che vita di merda, perché a me, proprio a me.
Spento. Sì, spento da un segreto che solo lei sapeva. Solo lei. Lei e il suo orco. Un po’ per vergogna, un po’ per peccato, un po’ per non essere giudicata.
È stata lei a provocarlo, chille è omme che doveva fare, piccerella e già è ‘na zoccola, zoccola si nasce, è chiù zoccola da mamma
.
Le femmine come la giri e come la volti sono sempre