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Diario di un pollo che ambiva ad essere un falco
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Ebook60 pages37 minutes

Diario di un pollo che ambiva ad essere un falco

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Qui racconto le origini della mia passione per il volo e l'avventura. Uno dei più grandi doni per l'uomo è sognare.

Ognuno insegue un proprio obbiettivo, ma se lo fa con

l'entusiasmo e la voglia di scoprire di un bambino, per quanto possa essere un itinerario periglioso, sarà sempre sostenuto da quella caparbietà e a tratti leggerezza che hanno sempre accompagnato i giochi dell'infanzia. Perché in fondo la vita è questo, un grande gioco fatto di interpretazione e di ruoli, che però, possono portare a scoprire profondissime verità. Alla fine dei conti io penso di non aver mai smesso di giocare, pur ottemperando ad importanti responsabilità. Ma forse proprio nella consapevolezza, che una passione vada seguita sino a quando muove emozioni e curiosità non decifrabili razionalmente, quindi diventando essa stessa uno straordinario strumento per approfondire la conoscenza della nostra anima e quella della intera umanità.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 18, 2020
ISBN9788831674263
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    Diario di un pollo che ambiva ad essere un falco - Guido Biagetti

    633/1941.

    Prefazione.

    Uno dei più gran­di do­ni per l'uo­mo è so­gna­re.

    Ognu­no in­se­gue un pro­prio ob­biet­ti­vo, ma se lo fa con

    l'en­tu­sia­smo e la vo­glia di sco­pri­re di un bam­bi­no, per quan­to pos­sa es­se­re un iti­ne­ra­rio pe­ri­glio­so, sa­rà sem­pre so­ste­nu­to da quel­la ca­par­bie­tà e a trat­ti leg­ge­rez­za che han­no sem­pre ac­com­pa­gna­to i gio­chi dell'in­fan­zia. Per­ché in fon­do la vi­ta è que­sto, un gran­de gio­co fat­to di in­ter­pre­ta­zio­ne e di ruo­li, che pe­rò, pos­so­no por­ta­re a sco­pri­re pro­fon­dis­si­me ve­ri­tà. Al­la fi­ne dei con­ti io pen­so di non aver mai smes­so di gio­ca­re, pur ot­tem­pe­ran­do ad im­por­tan­ti re­spon­sa­bi­li­tà. Ma for­se pro­prio nel­la con­sa­pe­vo­lez­za, che una pas­sio­ne va­da se­gui­ta si­no a quan­do muo­ve emo­zio­ni e cu­rio­si­tà non de­ci­fra­bi­li ra­zio­nal­men­te, quin­di di­ven­tan­do es­sa stes­sa uno straor­di­na­rio stru­men­to per ap­pro­fon­di­re la co­no­scen­za del­la no­stra ani­ma e quel­la del­la in­te­ra uma­ni­tà.

    Paura e volontà

    I di­cias­set­te an­ni for­se so­no sta­ti i peg­gio­ri del­la mia esi­sten­za. Un pe­rio­do buio fat­to di in­cer­tez­ze, su­bi­te nel­la at­ta­na­glian­te dif­fi­col­tà di ca­pi­re chi fos­si. Si sta­va sfal­dan­do un im­pe­ro di espe­rien­ze in cui ave­vo cre­du­to, e

    l’im­pe­ran­te ne­ces­si­tà di da­re un sen­so al­la mia vi­ta sta­va di­ven­tan­do a trat­ti do­lo­ro­sa. Tut­ta­via, man­te­ne­vo quel­lo spi­ri­to guer­rie­ro che fi­no a quei gior­ni mi ave­va ac­com­pa­gna­to at­tra­ver­so lo stu­dio del­le ar­ti mar­zia­li, e co­me un gio­va­ne sa­mu­rai in mez­zo ad una bat­ta­glia, non ave­vo al­cu­na in­ten­zio­ne di ar­ren­der­mi a que­sto sco­no­sciu­to ne­mi­co.

    Per una se­rie di for­tui­te ca­sua­li­tà, mi iscris­si ad un cor­so di pa­ra­ca­du­ti­smo. A di­re il ve­ro, più per un sen­so di sfi­da piut­to­sto che per l’at­tra­zio­ne per que­sta di­sci­pli­na.

    In real­tà ne ero ab­ba­stan­za ter­ro­riz­za­to, ma un sa­mu­rai non si ti­ra mai in­die­tro, e que­sta con­vin­zio­ne era l’uni­ca cer­tez­za al­la qua­le con­ti­nua­vo osti­na­ta­men­te ad ap­pog­giar­mi. Ero an­co­ra pe­san­te­men­te ra­zio­na­le e ag­grap­pa­to al ter­re­no, vin­co­la­to al suo­lo non tan­to dal mio cor­po, ma dal­la pe­san­tez­za dei miei pen­sie­ri e dei miei at­tac­ca­men­ti.

    Il centro addestramento di paracadutismo.

    Nel 1984 il pa­ra­ca­du­ti­smo spor­ti­vo in Ita­lia era an­co­ra piut­to­sto gio­va­ne, pra­ti­ca­to da po­chi e so­ste­nu­to più

    dall' eser­ci­to ita­lia­no piut­to­sto che da or­ga­niz­za­zio­ni pri­va­te.

    In­fat­ti, esi­ste­va una or­ga­niz­za­zio­ne pa­ra­mi­li­ta­re, che per­met­te­va ai gio­va­ni ci­vi­li di con­se­gui­re il bre­vet­to con po­ca spe­sa, al fi­ne di for­ma­re una ri­ser­va di gio­va­ni ca­det­ti, che un do­ma­ni avreb­be­ro po­tu­to av­vi­ci­nar­si a que­sto re­par­to mi­li­ta­re. Le le­zio­ni ve­ni­va­no te­nu­te da ex pa­ra­ca­du­ti­sti del­la Fol­go­re, e svol­te in una pa­le­stra

    all' in­ter­no di una ca­ser­ma.

    Non ave­vo per nien­te chia­ro do­ve quel­la stra­da mi avreb­be por­ta­to, ed ave­vo la sen­sa­zio­ne di gio­ca­re con il fuo­co. An­che se non vo­le­vo am­met­ter­lo ave­vo pau­ra, ma lo spi­ri­to d’ orien­te era or­mai ra­di­ca­to in me, e ri­nun­cia­re sa­reb­be sta­to tra­di­re me stes­so ed il sen­so del­la vi­ta.

    I ra­gaz­zi con cui con­di­vi­de­vo que­sti ad­de­stra­men­ti era­no tut­ti gio­va­ni, l’età mi­ni­ma era la mia di­cias­set­te an­ni, i più an­zia­ni non cre­do su­pe­ras­se­ro i ven­ti­cin­que an­ni. Es­sen­do mi­no­ren­ne do­vet­ti chie­de­re il con­sen­so per iscri­ver­mi ai ge­ni­to­ri, che fu ac­cor­da­to sen­za tan­ti pro­ble­mi.

    Tra i tan­ti ra­gaz­zi con cui strin­si ami­ci­zia ci fu Ric­car­do, che ne­gli an­ni a se­gui­re di­ven­ne un gran­de com­pa­gno di straor­di­na­rie av­ven­tu­re, a vol­te an­che scri­te­ria­te nel lo­ro go­liar­di­co e gio­va­ni­le con­ce­pi­men­to.

    Il giorno

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