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Guest anatomy
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Guest anatomy

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Nel ristorante L’Osteria della corte, aperto nel 2002, e nel secondo ristorante, nato nel 2017, Accanto, i titolari, marito e moglie, si dividono equamente il regno della cucina e della sala. E se la cucina è un laboratorio, la sala è un teatro in cui tutti, camerieri e clienti, sono contemporaneamente attori e spettatori. L’autore osserva le persone, cerca di immaginarne la psicologia ed esercita ogni giorno questa passione. Il libro è, se non un diario, una serie di osservazioni fatte nel ristorante: vi si alterna il comico, il tenero, il drammatico e il grottesco. Andrea Ferrero dichiara: «Spero che nessuno si senta offeso, perché io registro, ma cerco il più possibile di non giudicare: voglio davvero bene ai clienti perché sono ciò che rende il mio lavoro il più bello del mondo».
LanguageItaliano
Release dateMay 12, 2020
ISBN9788835826170
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    Guest anatomy - Andrea Ferrero

    Blob

    Prenotazioni

    «Buonasera».

    «Buonasera, siamo in tre».

    «Avete prenotato, signori?».

    «Sì».

    «A che nome?».

    «A nome mio».

    Conversazione telefonica.

    «Osteria della corte, buongiorno».

    «Pronto? Buongiorno, sono il signor XY, volevo prenotare un tavolo per due oggi a pranzo».

    «Benissimo. La aspettiamo».

    «Sì… scusi, un’informazione: siete lontani?».

    «Ma… lontani da dove, signore?».

    «Da qui dove siamo».

    «Pronto, Osteria della corte?».

    «Sì, buongiorno».

    «Ma è vero che siete in ferie?».

    «Sì».

    «E quindi non lavorate?».

    Che dire?

    «Buonasera, volevo prenotare un tavolo per undici a nome Gesù».

    Mi verrebbe da dire che ne mancano due.

    Prenotazione al telefono: «Accettate animali?».

    «Sì, certo».

    E così oggi abbiamo avuto un falco in sala.

    Sono sulla porta del ristorante e una coppia di turisti orientali (thailandesi?) mi si avvicina sorridendo; lui digita qualcosa sul cellulare e poi legge con voce chiara dal display: «È possibile di avere due colpi?» e continua a sorridere mentre aspetta la mia risposta.

    Immagino sia lo stesso traduttore automatico che usano nelle istruzioni dell’elettronica cinese.

    Entra una coppia; parla lei.

    «Ha un tavolo per due?».

    «Ora no, mi spiace. Però in mezz’ora se ne dovrebbe liberare uno».

    «Allora prenoto fra mezz’ora».

    «Perfetto. A dopo».

    Escono.

    Dopo due minuti la signora rientra e domanda, sospettosa: «Ma fra mezz’ora la cucina sarà ancora aperta?».

    È forte la tentazione di rispondere: «No, sarà chiusa, ma pensavo che volesse venire a fare quattro chiacchiere, bere un caffè».

    Secondo un’antica leggenda (vera) le anime di coloro che prenotano al ristorante e, senza neanche avvertire, non si presentano, sono dannate. Al momento di comparire ai Cancelli Celesti dinnanzi a San Pietro, il Santo consulterà il suo librone e dirà alle anime: «Mi dispiace: non risultate segnate!»; dopo di che saranno condannate a vagare per l’eternità trascinando catene di ferro e piombo cui saranno inchiavardate pesantissime agende di ristorante.

    Me ne dispiaccio, ma così è. Non c’è alcuna acrimonia da parte mia.

    È scritto.

    Entrano, guardando dall’alto in basso e non solo per l’elevata statura; la sensazione è che valutino se ogni persona che si rivolge loro sia all’altezza di farlo, dando per scontato che non sia comunque loro pari. Lui ha capelli cortissimi e biondissimi, camicia di seta bianchissima e blazer blu costosissimo. Lei è molto bella, ma quasi interamente riciclabile nel contenitore della plastica.

    L’impressione è che lo yacht, trasformatosi in hovercraft, li abbia portati fino di fronte al ristorante.

    «We do have a reservation», dice lui guardando al di là di me.

    Aspetto il nome, ma sono pronto a scommettere un miliardo su quale sia fra le venti prenotazioni. Deve essere quello.

    «The name is: Goldfinger».

    Ho vinto la scommessa e giuro che non invento niente.

    I clienti che, alla frase: «Non abbiamo prenotato, c’è posto?», si sentono rispondere: «Mi dispiace, signori: è tutto prenotato». Si dividono in due categorie. La prima categoria, ragionevole e ampiamente maggioritaria, incassa il colpo con uno spettro di reazioni che va da un cordiale «Buon per voi!», al rammarico, dal silenzio imperscrutabile alla lite in famiglia per rinfacciarsi la mancata prenotazione.

    La seconda categoria, minoritaria ma non piccola, non accetta il rifiuto e si divide in precise sottocategorie:

    1) Il sospettoso, che allunga il collo a scannerizzare la sala e insinua: «Ma è sicuro? Io vedo dei tavoli liberi!»; la spiegazione che siano prenotati non lo convince.

    2) Il supplice: «Ma non ce la fa proprio a trovarci un tavolino? Ci facciamo piccoli piccoli; anche se è scomodo; siamo solo otto». Questo soggetto solitamente avrebbe dovuto prenotare e si è dimenticato: lo si capisce dal tono disperato e dallo sguardo schifato con cui la moglie lo osserva.

    3) Il cercatore di complicità/adulatore: «Io dico che lei è così in gamba che un tavolo ce lo trova!».

    4) Quello dei diritti acquisiti: «Ma noi siamo clienti!» (Nel senso di abituali; il più delle volte, tra l’altro, non è vero) con tono indignato.

    5) Quello di Cosa Nostra: «Ma ci manda Sgnifuz, figlio di Snorr!».

    Inanellando nomi mai sentiti.

    Il 4 e il 5 evidentemente suppongono che a quel punto io faccia alzare qualcuno per fare loro posto, magari dicendo a chi è seduto: «Lei certamente capirà: i signori sono clienti/amici di Sgnifuz!».

    6) Il mentitore (il peggiore di tutti): «Ah no, che scemo: ho prenotato. A nome XYZ, controlli».

    È il peggiore perché cerca di metterti in un vicolo cieco: afferma la prenotazione a voce distintamente udibile dai presenti, in modo da far pensare agli astanti che tu sia un incompetente se non c’è il tavolo.

    7) Il velocista: «Mangiamo solo un primo! Una cosa veloce! Qualcosa di pronto! Ce ne andiamo prima che arrivino i prenotati!».

    8) Il seminatore di dubbi, vagamente menagramo: «Ma è sicuro che poi vengano? Che magari ci manda via e poi il tavolo le rimane vuoto!».

    La domanda che mi sentirei di rivolgere a tutti costoro è: per quale ragionamento contorto un cliente può immaginare che io non voglia farlo sedere? Avversione per il lavoro? O forse suppone che potrei avere il timore di passare allo scaglione più alto di tassazione se incassassi i soldi del suo tavolo?

    Siamo chiusi, ma teniamo comunque la deviazione di chiamata sul cellulare.

    «Pronto, Osteria della corte?».

    «Sì, buonasera».

    «Volevo prenotare un tavolo per tre per questa sera».

    «Mi dispiace, stasera siamo chiusi».

    «Ah, siete chiusi?» Voce delusa.

    «Eh sì, mi dispiace».

    Pausa di silenzio, ma lo sento respirare, so che è ancora lì.

    Riprende con voce indagatrice: «È sicuro?».

    Mi guardo intorno in cerca di una possibile telecamera nascosta e lo rassicuro: «Sì, ne sono piuttosto certo».

    Una piccola pausa e poi, con il tono del detective dei film quando coglie il bandolo della matassa: «Lei però mi ha risposto!».

    Sono tentato di rispondere: «Ebbene sì, maledetto Carter: hai vinto anche stavolta!», mi limito invece a spiegare l’arcano della deviazione di chiamata.

    Però non so se l’ho convinto.

    Un attempato signore entra nel ristorante con passo marziale e mi si para davanti.

    «Vorrei prenotare per domani sera per due».

    «Certamente. Che nome devo mettere?».

    «Comandante n.n.; io sono un grande amico di suo padre, sa?».

    Ora, sorvolando sul fatto che il signore senta il bisogno di specificare il fatto di essere Comandante, bisogna anche dire che il suo richiamo alla ferrea amicizia che lo lega a mio padre (immagino auspicando un trattamento di favore nel servizio e nel conto) si scontra col fatto che nell’entrare nel ristorante si è frapposto, ignorandolo e venendo da lui ignorato, fra me e il mio augusto genitore con il quale stavo in quel momento parlando.

    A volte la sfortuna.

    Coppie

    Tavolo da quattro, fine pranzo.

    «Gradite il caffè?».

    Una signora: «Sì, grazie: tutti e quattro».

    Il marito si volge verso di lei, sorpreso: «Sei sicura, tesoro?».

    Lei, perplessa: «Sì, ho mangiato parecchio quindi…».

    Lui, fra il pazientemente didascalico e il leggermente irritato: «Amore, io non vorrei che poi durante la nostra siesta mi restassi tutto il tempo con gli occhi sbarrati. Ti prego di considerare questa eventualità».

    Lo stesso personaggio all’uscita: «La macchina è qui a sinistra, cara: sai bene che io la lascio in una forbice di distanza massima fra i cento e i centocinquanta metri; di più non è tollerabile!».

    La coppia al tavolo discute: «Dimmi una sola volta in cui è successo! Una sola, dai!», dice lei con sicurezza, incurante del mio arrivo al tavolo. Lui, fra il sollevato per il diversivo e l’esausto per la conversazione (mai discutere di precedenti con le donne: hanno un casellario computerizzato, ti massacrano, non c’è storia) dice: «Be’, adesso ordiniamo».

    Lei, inesorabile, riaprendo il menù: «Poi mi dici una volta che è successo».

    Ordinano. Mentre mi giro per allontanarmi, lei riprende: «Allora? Dai: dimmi almeno due volte in cui sia successo!».

    Evidentemente, mentre ordinava, le è venuta in mente una volta in cui è successo (di qualsiasi cosa si tratti).

    Marito e moglie; moglie irritata dal marito, dal ristorante, dalla sedia, dal vicino di tavolo, dalla forma del menu, commenta irritata ciascuna delle suddette cose. Marito silenzioso.

    Lei, stizzita, leggendo il nome del primo antipasto sulla carta: «Il mare nel piatto: ma cosa vorrà dire!».

    Lui, senza alzare gli occhi dal menu: «Vuol dire che dal piatto esce fuori un’onda che ti porta via».

    Due ragazzi americani, in un sabato sera piovoso. Felici e sereni e in più appagati dalla cena.

    Gli dico che sono stati sfortunati a prendere tanta pioggia nella loro unica giornata alle Cinque Terre e loro mi sorridono e mi dicono che sì, è vero: è piovuto tanto mentre camminavano fra Monterosso e Vernazza, ma a un certo punto ci sono stati venti minuti di sole ed è stato bellissimo. Loro erano già contenti e soddisfatti così.

    Magari cambieranno col tempo, ma diciamo che cominciano la loro vita con uno spirito invidiabile.

    Molti tavoli: fa piacere. Fanno piacere i clienti abituali e fa piacere chi ci scopre per la prima volta; però questa sera chi mi colpisce è una coppia di sordomuti. I loro segni, il linguaggio con cui superano il proprio handicap, hanno qualcosa di magico che mi ha sempre affascinato e questi due li padroneggiano da maestri. Non voglio banalizzare romanticamente qualcosa che costituisce sicuramente una fatica quotidiana, ma questa sera sono i due clienti più innamorati, sereni e felici della sala. Parlano fitto, si fanno battute alle quali ridono di gusto e smettono i gesti ogni tanto per tenersi la mano e guardarsi sorridendo negli occhi. In certi momenti fanno segni ad alto volume, se così si può dire, tanto non disturbano nessuno, magari criticano il vestito della vicina di tavolo o la barba del cameriere in tutta tranquillità e forse, in una serata così (dico una sciocchezza, lo so), sono felici della loro particolarità, che li mette in una condizione di condivisione unica, impenetrabile da tutto il mondo che li circonda: solo lui con lei e lei con lui a bearsi l’uno dell’altra.

    È una coppia di persone di una settantina d’anni: lei è troppo truccata e la

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