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Ancora accanto a me. Chaos
Ancora accanto a me. Chaos
Ancora accanto a me. Chaos
Ebook528 pages7 hours

Ancora accanto a me. Chaos

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About this ebook

Tutto è iniziato con prigionia, digiuno e sangue. Lena Morozov, costretta a diventare una spia, sente che la fine non è mai stata così vicina. È in un letto, ma non ha le manette ai polsi. È oppressa, ma non dall’oscurità che aveva imparato ad amare. La sensazione che prova è peggiore: sa di tradimento. Altra pelle si stringe sulla sua in una morsa di possesso. Sulla bocca le respirano altre labbra. Pochi secondi per capire, un battito di ciglia per inalare un odore diverso. Non è Amir. Non è il suo Maestro. Adesso Lena deve mettere in pratica l’arte della finzione, Amir la controllerà da lontano, e non intende essere il suo angelo custode: lui vuole essere la sua ombra. Per Lena, scoprire di far parte di un mondo tanto perverso quanto crudele sarà insostenibile; per Amir, inaccettabile. Al Settore Zero poco importa: Lena è solo un prodotto da disattivare quando non servirà più. A quel punto, ad Amir non basterà essere un’ombra, tantomeno un angelo. Dovrà tenerla lontano da sé, pur volendo rimanere accanto a lei, ancora.

Nell’oscurità più densa si nasconde la vera passione

«Iniziato e finito senza alcuna interruzione in un pomeriggio. Emozionante, crudo, appassionante.»

«Sono stata trascinata in un susseguirsi di colpi di scena così reale da farmi trattenere il fiato. Ho odiato Amir e poi l’ho amato!»

«Un amore oscuro che travolge sin dalle prime pagine. Questa storia ti avviluppa tra le sue spire e non ti abbandona più!»

«Amir è uno dei più spettacolari personaggi maschili di cui mi sia mai ritrovata a leggere.»
Marilena Barbagallo
È nata a Catania nel 1987. Ha studiato danza e recitazione ed è laureata in Economia e gestione delle imprese turistiche. Ha iniziato a scrivere da bambina, quando ha ricevuto in regalo il suo primo diario segreto e, da quel momento, la scrittura è diventata parte della sua vita. Ancora accanto a me è il capitolo conclusivo della dilogia Chaos, inaugurata da Uno sconosciuto accanto a me. La Newton Compton ha pubblicato anche Mai più così vicini.
LanguageItaliano
Release dateJul 25, 2018
ISBN9788822724557
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    Ancora accanto a me. Chaos - Marilena Barbagallo

    Capitolo 1

    Lena

    Estranee. Sono le sue labbra.

    Bollente. La sua lingua brucia.

    Veleno. Il suo sapore è tossina.

    Invade. Il suo corpo aggredisce.

    Mi strappo. Sento la pelle tendersi e sfilacciarsi. Dolore si cosparge sulle ferite aperte. Mi corrode, mi squarcia.

    E mi bacia, trafugando ciò che appartiene ad Amir. Prende senza alcun diritto, prende perché crede che io sia sua.

    non tradirmi

    E intanto la lingua di Farid scava la sua fossa, mi seppellisce in un abisso di vergogna.

    mai

    Avevo promesso.

    ora sai

    So.

    tu sei la mia…

    Sono sua.

    Non sono di quest’uomo.

    giurami che il tuo corpo non verrà mai più toccato da nessun altro

    Te lo giuro.

    Le sue mani scendono sul mio ventre.

    Scendono.

    Si dirigono verso ciò che appartiene al mio lui.

    Al mio lui.

    Mio.

    Io sua.

    Dio…

    Sto per urlare. Sto per piangere. Forse sto già piangendo.

    Amir. Amir. Amir. Cosa sto facendo?

    nessuno, Lena.

    Nessuno.

    ho promesso

    ho promesso

    ho promesso

    nessuno

    nessuno

    nessuno

    Nella mia mente riecheggiano le parole di Amir, le sento come un’eco, prima forti, poi lontane. Si dissolvono dentro di me e bruciano. Incendiano la mia pelle che trema sotto le mani dell’uomo che mi sta addosso, che continua a violare la mia bocca con passione, credendo di prendere ciò che gli appartiene, credendomi Sasha.

    Tu sei Sasha.

    Fingi.

    È solo la tua missione.

    Devo lasciarmi prendere? Devo sottostare al suo tocco ora prepotente, più invadente e possessivo?

    Le sue mani sono sul mio sedere, la sua bocca è precipitata sul mio collo. Ansima sulla mia pelle infuocata. E sento quel fuoco, fatto di pura rabbia e tormento.

    Non riesco a reprimere le lacrime, non riesco a pensare ad altro se non al dolore che causerò ad Amir. E nell’oscurità mi concentro nei suoi occhi cupi che si spengono non appena gli dico: hanno preso ciò che è tuo.

    Lo vedo nel buio, lo vedo fatto di buio: oscuro e meraviglioso. Costruito ad arte con la stessa sostanza del dolore, ma impreparato a ricevere lo sfregio peggiore, il tradimento.

    So che non mi perdonerebbe mai. So che io non mi perdonerei mai per aver permesso a un altro di toccare ciò che è suo.

    Adesso le lacrime offuscano anche il pensiero di lui, l’immagine che ho disegnato nel buio solo per non soccombere a questa tortura.

    Prego.

    Prego non so chi o cosa. Bisbiglio qualcosa e non mi rendo conto che sto per fare la scelta sbagliata, quella che potrebbe rovinare tutto, ma che salverebbe la mia dignità e il cuore di Amir.

    Poggio i palmi sul petto solido di Farid e lo respingo. Lui si regge sui gomiti spostando, finalmente, il peso dal mio corpo abbattuto.

    «Che ti prende, piccola?», mi sussurra chinandosi sulle mie labbra, e di riflesso io giro il capo a sinistra. «Che c’è?». I suoi sospiri vibrano sul mio orecchio.

    Serro forte gli occhi e mi si bagna il viso, che lui stringe con la mano.

    «Vuoi parlare?», chiede dolcemente.

    Il suo tocco è gentile, il tono altrettanto, ma la sua presenza mi opprime. È come una morsa che mi stritola e mi manda in asfissia.

    «Sono stanca». La voce mi trema e temo possa essere diversa da quella di Sasha.

    Farid si allunga verso il comodino, forse con l’intenzione di accendere l’abat-jour.

    «No!», lo fermo e lui si concentra ancora su di me.

    «Rischio come sempre, rischio venendo da te, rischio, Sasha!», sussurra più duro. «E tu cosa fai per me? Sono settimane che ti chiamo e non rispondi. Sono giorni che non ho tue notizie».

    «Ascoltami!», lo interrompo, recuperando il coraggio e accarezzandogli il viso.

    Percepisco un accenno di barba, ha il volto squadrato e il mento appuntito. Inizio a toccarlo delicatamente e a creare la sua immagine nella mia testa, desiderando però un altro volto.

    «Sono davvero molto stanca per via del fuso orario», mi giustifico. «Non è il momento di parlarne, ma ti prometto che…».

    «Quando?», sbotta, parlando sempre a bassa voce. «Non c’è mai tempo. Non è mai il luogo adatto. Abbiamo poco, Sasha, troppo poco».

    E le sue labbra piombano di nuovo sulle mie.

    Ancora tradimento.

    «N-no…», cerco di respingerlo di nuovo, ma la sua lingua sembra voler raggiungere la profondità della gola, come a impedirmi di respirare. «P-per favore…», provo a dar voce alle mie proteste, mentre le sue labbra voraci continuano a prendere, prendere, prendere…

    «Basta!», lo spingo ancora, i palmi ora decisi sul suo petto, nel silenzio che piomba come una condanna.

    La mia, se continuo a negarmi.

    «Sasha!». La sua voce è… disperata? «Mi sei mancata. È sbagliato dimostrarti quanto?».

    Fuori dalla finestra, un albero viene mosso da una ventata improvvisa e un bagliore perfora le vetrate, illuminando il viso di Farid.

    In un secondo, riesco a notare i suoi occhi bruni brillare di tristezza e le sue labbra schiuse per l’incredulità.

    Io per lui sono Sasha, la donna che non vede da giorni, che non ha dato notizie e che adesso lo respinge.

    La donna che lui… ama?

    In fondo mi dispiace, ma io non sono sua. Anche se interpreto la parte di Sasha, non significa che mi concederò al suo posto.

    «Lasciami riposare, ti prometto che parleremo e staremo insieme», ripeto con più dolcezza.

    La testa di Farid crolla sul mio petto, le sue braccia passano sotto la mia schiena in un abbraccio disperato come se, affamato e assetato, si stesse rifocillando con me.

    Gli concedo un abbraccio, questo posso farlo, e gli accarezzo la nuca per qualche istante.

    «Ora vai», sussurro poi, tirandogli su il capo.

    Un’altra ventata scuote i rami dell’albero fuori dalla finestra e un nuovo bagliore gli illumina il viso.

    «Sei l’unica cosa bella che ho», bisbiglia, baciandomi la fronte e regalandomi una carezza. Lascia il letto e, in silenzio, esce dalla mia camera chiudendo pianissimo la porta.

    Sono. Totalmente. Nel. Panico.

    Mi alzo velocemente, scivolando fuori dal letto scalza, prendo il cellulare e corro in bagno. Accendo la luce e lo specchio mi molla un ceffone in pieno viso.

    Le mie labbra, rosse e gonfie, rivelano cosa ho fatto. Il mio viso parla.

    traditrice.

    Evito di guardarmi, evito di prendere atto di ciò che è appena accaduto e cerco subito in rubrica il numero del mio Maestro. Ma appena lo trovo… io non… Non posso.

    Non posso chiamarlo adesso, dopo poche ore, e dirgli che un certo Farid mi ha baciata e ha provato a prendere ciò che è suo.

    Lo condannerei a una notte insonne o, peggio, gli inietterei il seme dell’odio e della vendetta e lo trasporterei in un inferno fatto di altre mani, altre labbra, mentre io voglio che ricordi solo noi due.

    Non glielo dirò adesso, almeno non per telefono. Avrò modo di parlargliene. Spero.

    Torno a letto, in quel piccolo angolo buio dove io non esisto più. Dove esiste solo finzione, il primo capitolo di un periodo orribile della mia esistenza. Se questo era l’incipit, non voglio e non oso immaginare cosa accadrà alla fine.

    Mi stendo tra le lenzuola di seta fresca, le foglie degli alberi continuano a danzare al ritmo del vento. Un tuono squarcia il silenzio e spero che il cielo pianga, che sgorghino lacrime su questa casa, perché io non ho nessuna intenzione di continuare a piangere per aver perso me stessa.

    Cielo, piangi per me.

    Amir sentirà le mie lacrime?

    Non vorrei mai che sapesse che ho lasciato il mio cuore in auto, tra le sue mani, mentre gli dicevo che lo amavo e lui voleva solo che andassi.

    Chiudo gli occhi, ma non dormo. Li chiudo e vedo il nero.

    Nero: Amir.

    E poi ricordo un dettaglio. Spalanco gli occhi, tutto resta sempre nero, ma delle parole scalfiscono il nulla dando luce a un ricordo.

    "Sono stato un bambino soldato, addestrato dalle truppe ribelli iraniane…", mi ha raccontato la notte in cui mi ha dato tutto se stesso.

    "Il mio compagno si chiamava Farid. Gli raccontai di me e mia madre".

    Che sia una coincidenza? Amir avrebbe dovuto saperlo. Lui sa sempre tutto.

    E se non mi avesse detto niente di proposito? Se non lo sapesse?

    Chiudo gli occhi e prego di avere un po’ di tregua.

    Capitolo 2

    Amir

    Quattordici anni prima.

    Ritorno al Campo

    «Qual è il tuo nome, soldato?», grida non so chi. Non l’ho mai visto, ma è la copia sputata di tutti i fottuti terroristi.

    «Amir Shakib, signore», urlo a mia volta, fissando il deserto polveroso, il nulla dorato di odio, portando il peso delle armi addosso.

    «Quanti anni hai, soldato?»

    «Quattordici, signore».

    «Come dimostri la tua fede verso la nostra organizzazione?». Mi si para davanti, la sua faccia abbronzata gronda di sudore, la barba rigorosamente lunga, il turbante, la veste che si agita al vento. Non lo guardo, ma so che è così. Fisso solo i suoi occhi che sono due pozze di odio e vendetta. Infedeli. Il mondo pullula di infedeli. E noi dobbiamo proteggere la nostra cultura. Dobbiamo imporla.

    «Ti ho fatto una domanda!», grida e reprimo un conato quando mi arriva la sua saliva sul mento.

    Urla e sputacchia. Vorrei sparargli in faccia.

    Ho assaggiato la morte, ho già ucciso mio padre. Non mi spaventa dare ancora la morte.

    «Dedizione, signore. Sono devoto. Fedele», confesso.

    «A chi?»

    «Alle mie radici».

    Rispondo ciò che vogliono sentirsi dire, così come mi è stato ordinato dai miei nuovi istruttori del Settore Zero. Sono qui, ma sono altrove. Ora non appartengo più alla Cellula. Sono un soldato vero. Un soldato che risponde a seconda di ciò che ritiene vantaggioso.

    Resto al Campo e, di certo, non per lei.

    Resto perché ho sete di sangue. Perché solo così posso portare ancora morte.

    «Ora voglio che dimostri ai tuoi fratelli la tua fede», continua a urlare.

    Il tizio ridicolo si sposta, e nel mio campo visivo compare un uomo.

    «Lui è un traditore», annuncia. Alle mie spalle i ragazzini mormorano sorpresi: riesco a distinguere le voci di bambini anche più piccoli del solito, sei, sette, otto anni.

    Io sono l’esempio. Per tutti loro sono un eroe, perché non ho scrupoli e perché da quando mi hanno rispedito qui al Campo non mi sono mai tirato indietro. Non ho mai smesso di essere distruzione.

    Il carceriere spintona il prigioniero che scivola sulla sabbia cadendo in ginocchio. È ferito e bagnato sul cavallo dei pantaloni di lino. Piscio.

    Mi viene in mente che un uomo che si piscia addosso dovrebbe essere schiaffeggiato per l’eternità. Faccio pensieri inutili, futili, superficiali. Aiuto me stesso a distaccarmi.

    A essere letale.

    «Soldato!». Il terrorista-testa-di-cazzo mi invita ad agire.

    Devo dimostrare che ho le palle. Questi coglioni credono che la forza si misuri con quello che sto per fare.

    Ma io sono del tutto disinteressato a ciò che pensano i miei compagni, a ciò che dirà il coglione che ha inscenato questo teatrino, così come sono totalmente indifferente davanti all’uomo che ha i polsi legati dietro la schiena, la veste macchiata di sangue e piscio.

    «La pena per un traditore è…?», ci interroga il capitano a gran voce.

    Non lascio completare la frase al terrorista, che subito faccio scivolare l’ak-107 dalla spalla, lo punto verso la vittima, appiccico la faccia al ferro gelido e…

    Boom!

    Un solo colpo gli trafigge lo stomaco e il suo corpo si abbatte al suolo.

    Le urla dell’uomo spaccano il silenzio che si trascina l’eco dello sparo.

    Sento mormorare i miei compagni e intercetto, con la coda dell’occhio, lo sgomento del capitano. So cosa pensa, so cosa pensano tutti, ma cozza con il mio modo di pensare.

    «È ancora vivo», ringhia il terrorista, indicando l’uomo che si contorce dal dolore in una pozza di sangue.

    Inespressivo e strafottente, faccio scivolare l’ak sul terreno, usandolo a mo’ di bastone. Ruoto lievemente il capo verso il capitano; vorrei accendermi una sigaretta, ma verrebbe ritenuto oltraggioso data la circostanza.

    «Certo che è vivo», ribatto.

    Ci ripenso, tiro su l’ak e lo rimetto in spalla. Prendo il pacchetto di sigarette dalla tasca della mimetica e me ne accendo una, sotto lo sguardo sbigottito del capitano.

    «Concedere la morte a un traditore», filosofeggio, trattenendo la sigaretta in bocca, «è un dono, non una punizione».

    Il terrorista spalanca gli occhi. «Che dottrina è mai questa?»

    «La mia», sbuffo una nuvola di fumo. I lamenti della vittima colpita sembrano una musica che squarcia il sottofondo.

    «Il traditore soffrirà, si prosciugherà», continuo gelido, «conoscerà la Morte e la guarderà in faccia. Implorerà la fine, la sentirà addosso e quella sarà la sua punizione. L’attesa lenta e inesorabile di una morte certa».

    Tutti tacciono, tranne la voce della povera vittima che urla il suo dolore.

    Poi, improvvisamente, il terrorista inizia a sghignazzare, si sbellica dalle risate, batte le mani, dimostrando che la mia dottrina è apprezzata.

    «Mi piace, Shakib. Mi piace». Indica qualcuno alle mie spalle. Quel qualcuno si avvicina, mi affianca e non mi serve guardarlo perché ne riconosco la presenza.

    «Tu, finiscilo», gli ordina. E la mia dottrina va a farsi benedire.

    Getto la sigaretta sulla sabbia e la schiaccio con la suola degli anfibi. Nemmeno guardo, non mi interessa. Sento solo il colpo che Farid assesta al traditore. Poi finalmente piomba il silenzio della morte, fino a quando le voci dei miei compagni si levano in un unico grido: Allahu Akbar, Dio è il più grande.

    C’è un giardino ben curato attorno alla villetta che abbiamo affittato nel quartiere della dimora dei Conte. È una piccola base insospettabile attorniata da alberi, cespugli e fiori dalle mille sfumature. Questo tripudio di colori mi dà la nausea. Giallo, lilla, bianco, verde e ancora verde. Tanto verde.

    Per quelli come me, i colori sono d’intralcio sulla tela dell’anima. Avevo scelto di non dare tinte al mio Io più profondo, avevo scelto di non illuminare alcun angolo, di brancolare nel buio, avevo scelto di essere buio, fino a quando lei ha scelto per me. E tutto è cambiato.

    Non io, ma il mio mondo interiore.

    Io rimango al centro, una macchiolina nera in uno sfondo sfavillante e ciò che mi gira intorno muta, pronto a travolgermi.

    Ho preso una delle sigarette di Ram. Non fumo dai tempi in cui vivevo al Campo e Farid rubava intere stecche ai soldati. Porto la sigaretta sotto le narici e il profumo del tabacco mi ricorda l’Iran, il calore di un sole che schiaffeggia il deserto, la polvere che si appiccica alla pelle sudata, il peso del kalashnikov sulla spalla, le ferite ai piedi per via degli anfibi logori e piccoli.

    Intrappolo la sigaretta tra le labbra, ma attendo ad accenderla. In questo momento mi riporta a un me più lontano, a una parte di quell’Amir perso, vinto, solo.

    Ed è così che mi sento ancora una volta: perso, vinto, solo.

    L’ho persa.

    Il Settore ha vinto ancora.

    Sono rimasto solo.

    Non sei più solo, mi aveva detto mentre continuava a impossessarsi delle mie labbra.

    Se ho te non sono solo. Tu non sentirti mai sola.

    Ma lei non c’è.

    E poi si è manifestato il miracolo, il prodigio di sentire finalmente qualcosa battere nella mia cassa toracica.

    T. Tum tum. I. Tum tum. A. Tum tum. M. Tum tum. O. Tum tum.

    E ancora sento il palpitare frenetico, al ricordo di quelle parole surreali.

    Ti amo. Ha detto.

    Lei, che io ho spento come si estingue una candela con un soffio, ama me: Amir Shakib.

    Ho smesso di respirare da quando lei ha detto di amarmi.

    E ora soffoco di piacere.

    Soffoco. Non respiro. Soffoco.

    È lei l’Amore?

    Me lo sono chiesto così tante volte e continuo a interrogarmi. E insisto a mantenere buio il mio Io più profondo, perché adesso non posso permettermi di lasciarla entrare. Non posso permetterle di essere rovina. Voglio che sia quella dannata parola impronunciabile.

    Ma non sono degno. Non sono stato creato per questo. Esisto per la distruzione e invece di disintegrare ogni frammento di lei, aspirerò a una demolizione personale. Meglio sgretolare me, che lei.

    La fiamma di un accendino scatta sulla sigaretta che tengo stretta tra le labbra. Teo sospira e mi affianca in questa contemplazione del nulla, in questo silenzio che ha già rotto il cazzo.

    «Non credevo fumassi», dice, riponendo l’accendino in tasca.

    «Non fumo, infatti».

    «Se la caverà». Legge i miei pensieri e forse intercetta l’ansia che mi scorre nelle vene, visto che necessito di nicotina. È così che fanno gli uomini quando sono nervosi: fumano. Io di solito torturo qualcuno, sparo, dirigo operazioni suicide, porto a casa sangue nelle mani, ma qui c’è solo da attendere. Una lunga, snervante attesa.

    «Lena se la cava sempre», commento. «È sopravvissuta a me, perciò niente potrà spaventarla più di quanto non abbia già fatto io».

    «Allora, cosa ti preoccupa?».

    Fisso gli occhi curiosi di Teo che se ne sta rigido al mio fianco, con le mani in tasca e il petto in fuori.

    «Mi preoccupano gli altri, Teo. Mi preoccupa la vita privata di Sasha, quello che Lena non conosce, quello che potrebbe scoprire».

    «Quanto la ami?». E lo chiede così, di punto in bianco.

    La mia mano si blocca a mezz’aria, la cenere rimane raccolta sull’apice della sigaretta fumante, i miei occhi lo fissano come se stesse parlando una lingua a me ignota. Le mie labbra schiuse sembrano voler rispondere, ma non sono esattamente connesse con la ragione.

    Sono spaesato, senza parole, fottuto.

    «Non la amo», sbotto.

    Teo sbuffa un sorrisetto e scuote il capo.

    «Non la ami. Certo», mi prende in giro. «Allora dovresti stare tranquillo e immaginare che questa missione la stia conducendo un’allieva qualunque».

    «Lena non è un’allieva qualunque!». Serro la mascella e getto lontano la sigaretta ancora a metà.

    «E allora cos’è? Hai fatto un casino sapendola nelle mie mani, hai disobbedito agli ordini di Olimpia, sei venuto con noi pur non avendo l’autorizzazione. L’hai portata a casa tua più volte, ci hai scopato più volte…».

    «Attento a come parli!». Non mi piace quel termine per Lena. Non lo accetto detto da altri.

    «E ti arrabbi pure in circostanze inequivocabili», continua imperterrito.

    «Circostanze inequivocabili?»

    «Mi hai preso a pugni, Amir, hai puntato una pistola in faccia a Ram perché non volevi la vedesse mentre…».

    «Non proseguire».

    «E ti alteri per questo». Ma prosegue, sbattendomi in faccia l’evidenza che, cazzo, è nota anche a me.

    Mi fissa dritto negli occhi, il nauseabondo profumo di fiori mi satura le narici. Dove siamo, in un dannato Eden? Detesto l’odore del paradiso.

    «Non posso amarla, Teo». Non sono mai stato così consapevole delle mie parole. «Perché impazzirei definitivamente. E io ho già seri problemi di mio. Amarla significherebbe mandarvi tutti a fanculo, prendere le mie pistole, fare irruzione in casa Conte, uccidere tutti, dal primo all’ultimo e portarla via. Questo significherebbe. Amarla vorrebbe dire darle la vita che merita. E non è possibile. Un uomo che lascia la propria donna in quelle condizioni è un uomo che ama, secondo te?».

    Teo incrocia le braccia muscolose al petto e riesco a intravedere le vene gonfiargli la pelle. Fissa un punto nel vuoto alle mie spalle e medita seriamente sulle mie parole.

    Se l’amassi, la porterei via subito.

    Se l’amassi, me ne fotterei altamente del Settore.

    «Hai ragione, Amir. Ti faccio solo una domanda…».

    «Spara».

    «Cos’è per te l’amore?».

    Merda! Che figlio di puttana.

    Serro la mascella, i pugni, il cuore. Vorrei serrare anche la mia dannata bocca.

    Lena.

    Sarebbe questa la cazzo di risposta.

    Ma Lena sarebbe la risposta a ogni domanda. Lena è la risposta a tutte le mie domande.

    Qual è il tuo colore preferito? Lena.

    Qual è il tuo gusto preferito? Lena.

    Qual è la cosa più bella che hai fatto? Lena.

    Qual è la cosa peggiore che hai fatto? Lena.

    Cos’è la gioia? Lena.

    Cos’è la vita? Lena.

    Lena. Lena. Sempre Lena.

    Sono fottuto.

    «Allora?». Il testa di cazzo saputello insiste.

    Mi volto e gli do le spalle. Non mi deve vedere mentre ho scritto in faccia il nome di quel demonio di donna.

    «Non mi interessa la risposta, Amir. Vedo che hai già risposto a te stesso».

    Mi dà una pacca sulla spalla e si allontana, lasciandomi più confuso di prima.

    Perso. Vinto. Solo.

    Capitolo 3

    Lena

    Il bagliore della luce mattutina ferisce il mio viso ancora assonnato. Qualcuno sta aprendo le tende e la luce si è fatta insopportabile. Mi tiro su la coperta e mi nascondo.

    Sto tremando e non sono brividi di freddo. Sono scossa dalla realtà. Fino a qualche mese fa mi risvegliavo nella mia stanza di Torino, poi al Settore Zero, sul letto di Amir e ora… qui.

    «Signorina, sono le otto e trenta minuti», la voce di Dorotea mi arriva ovattata. «Si alzi, su. Aveva detto che avrebbe fatto colazione con suo padre. È già di sotto».

    Oh signore!

    Vorrei dirle che ho la febbre, che ho un virus contagioso, che non ho la forza di scendere al piano di sotto e vedere mio padre.

    Mio padre.

    L’uomo che ha abbandonato mia madre, secondo quanto mi è sempre stato detto. L’uomo che, a quanto pare, ha portato via Sasha dalle braccia di mia madre. L’uomo che sicuramente non conosce la mia esistenza. L’uomo che potrebbe, con un solo sguardo, non riconoscere sua figlia e vedere in me un’estranea.

    Quando sto per lasciare il letto, mi ricordo la procedura da seguire: accertarsi di avere sempre indosso le lentine castane; cambiare nascondiglio alla mia pistola; controllare il cellulare; guardare l’orologio per trascrivere eventualmente gli eventi in un arco temporale ben preciso; entrare nella parte.

    L’ultimo punto è il più difficile, quello che, so per certo, rappresenterà il dissesto della mia missione. Qualcosa dentro di me mi dice che l’iniziativa è totalmente fallimentare. Come hanno potuto pensare di infiltrare una ragazza a queste condizioni?

    «Signorina!». Dorotea strappa via le coperte e, automaticamente, mi rannicchio e nascondo il viso.

    In questo momento non porto le lentine, non posso certo dormirci, perciò tengo gli occhi ben chiusi e continuo a fare la capricciosa, immaginando che Sasha lo sia per natura.

    «Dica a mio padre che sto arrivando», la liquido e finalmente lascia la mia camera.

    Mi alzo come un robot ed eseguo le procedure standard. Corro in bagno e indosso le lentine, nascondendo il contenitore in uno dei cassetti, dietro la pila degli asciugamani.

    Torno in camera, prendo la pistola da sotto il materasso e la guardo come se stessi ammirando il più bel dono mai ricevuto.

    Me l’ha regalata Amir e lo ha fatto per me, per la mia sicurezza, per sentirsi il mio scudo.

    Accarezzo la canna liscia e argentata, poi mi guardo intorno e decido di nasconderla dietro il termosifone. Mi accerto che non si noti, do un calcio al termosifone e verifico che la pistola resti ben incastrata, dai lati non si vede perché ci sono delle tende colorate che pendono dal soffitto, quindi la lascio lì.

    Controllo il cellulare e vedere che non ci sono chiamate mi rattrista un po’, ma so che Amir non può cercarmi, perciò mi limito a guardare l’ora e a memorizzarla nel caso accada qualcosa. Mi va di vestirmi con colori scuri e indosso un paio di leggings neri e una maglia nera e larga che lascia scoperta una spalla. Tiro un bel respiro ed entro nella parte.

    I corridoi sfoggiano gli innumerevoli dipinti di facce che mi incuriosiscono. Lo sfarzo a volte è eccessivo e di cattivo gusto, altre volte è gradevole. Nei bagni ci sono persino i rubinetti d’oro. Ed è tutto come si potrebbe facilmente immaginare, d’altronde mi trovo nell’abitazione di una famiglia di zingari abituati agli eccessi.

    Mentalmente inizio a cercare una scusa qualora mi chiedessero cosa ho fatto alla mano. Le nocche sono ancora annerite per via del colpo sferrato alla parete del Settore. Il ricordo mi fa pensare a ciò che mi ha fatto passare quello stronzo.

    Lo ami, lo stronzo.

    Faccio per uscire dal bagno e intravedo qualcuno che cammina verso il salotto. È Dorian, mio fratello minore.

    Resto immobile sulla soglia, incapace di muovere un muscolo. Il cuore mi batte all’impazzata e mi disprezzo per questa reazione: dovrei essere fredda, glaciale, come mi ha insegnato il mio Maestro.

    Ma quello che è appena passato, quel ragazzo alto e magro, era… mio fratello.

    Gli occhi si scaldano, ma non lacrimano. Deglutisco e mi obbligo a raccogliere tutta la forza di volontà che Amir mi ha cucito addosso. Se potessi chiedergli cosa fare, come comportarmi, se potessi averlo qui solo per una carezza di incoraggiamento, allora saprei come essere Sasha.

    Ma devo trarre forza solo da me stessa e da ciò che ho appreso nelle poche ore in cui sono stata con mia sorella, così respiro, respiro, respiro e butto fuori.

    Esco dal bagno e, prima di decidere di scappare una volta per tutte, mi dirigo verso la sala in cui presumo stia facendo colazione la mia famiglia.

    La mia vera famiglia.

    Percepisco il rumore di stoviglie, di acqua o caffè che scivola nelle porcellane e poi li vedo.

    Lena si annulla.

    Non esistono più il batticuore, l’ansia. Io. Sono. Una. Spia.

    «Buongiorno», trillo come farebbe Sasha.

    Seduto a capo tavola, mio padre sorseggia il suo caffè. Non alza il viso verso di me. Non risponde. Al suo fianco Dante, mio fratello maggiore, in abito elegante già di prima mattina, mi lancia un’occhiata difficile da decifrare.

    Di sicuro mi guarda male. Malissimo.

    Nemmeno lui mi saluta e si mette a leggere un quotidiano aperto sul tavolo.

    Solo Dorian si volta e si alza col sorriso sulle labbra. Ed è il sorriso più bello che abbia mai visto. Sento le gambe cedere e il cuore precipitare al suolo quando corre verso di me e mi abbraccia.

    Ora capisco perché Amir ha cercato di farmi isolare il cuore dalla ragione: per non farmi sentire il legame di sangue. Il legame fraterno.

    Sto abbracciando mio fratello. Un fratello bellissimo che adesso mi dà un bacio sulla guancia e mi regala due occhi blu come un mare calmo.

    Ha i capelli neri, le labbra come le mie, piene, ed è l’unico felice di vedermi. Felice di rivedere Sasha.

    «Come stai, bella?».

    Il mio cuore mi indirizza e poggio una mano sulla guancia sbarbata di Dorian. Lo accarezzo. Mio fratello è un raggio di luce in questo buio ed è la cosa più bella che mi sia capitata da quando sono qui.

    «Sto bene, tu?»

    «Di merda, come al solito. Cosa hai fatto alla mano?».

    Ecco!

    «Oh…», gesticolo, «è rimasta accidentalmente chiusa in un cassetto», sorrido. «A scuola come va?»

    «E chi ci va?», replica Dorian. Certo, perché dovrebbe andare a scuola! Che stupida.

    Secondo le mie informazioni è stato espulso da tre istituti e continua a frequentare di tanto in tanto la scuola pubblica solo per qualche ovvia raccomandazione.

    Fingo di non essere stupita e mi muovo verso il tavolo, giostrando la mia parte al meglio, immaginando di comportarmi come farebbe Sasha.

    Dorian torna a sedersi e io, educatamente, vado a baciare sulla guancia l’uomo per cui non provo assolutamente nulla.

    I miei fratelli mi scombussolano molto più di mio padre che continua a ignorarmi.

    Il mio è un bacio di Giuda, il bacio di una figlia traditrice. Mi allontano da lui e ironizzo sulla situazione, andandomi a sedere per versarmi del caffè.

    «Che accoglienza».

    Gli occhi di Dante non smettono di fulminarmi.

    «Com’è andato il viaggio?», mio padre mi degna della sua considerazione e, adesso, come se si fosse risvegliato improvvisamente, mi rivolge addirittura un mezzo sorriso.

    «Bene, devo ancora riprendermi per via del fuso orario», rispondo.

    «Spero che le tue esigenze di isolamento siano finite, Sasha». Ed è un rimprovero, questo che esce aspro dalle sue labbra che masticano un muffin.

    «Sono tutta vostra adesso», replico guardando Dante, ma lui, se potesse, mi trafiggerebbe con un’occhiata.

    Sasha deve avergli fatto qualcosa.

    Lo osservo meglio, giusto per fargli intendere che per me, qualsiasi cosa Sasha gli abbia fatto rappresenta il passato. Anche Dante ha gli occhi blu, il viso incorniciato da una barba incolta, i capelli un po’ lunghi e mossi, l’aria sofisticata e lo sguardo glaciale. Come quello di papà. Dante, secondo le mie informazioni, è l’uomo di casa, il razionale, la mente della famiglia.

    Mangio una fetta di torta di mele ed è la torta più buona che abbia mai mangiato. Sorseggio un po’ di caffè e osservo il posto vuoto vicino a Dante.

    «Dov’è Russell?», chiedo, perché Sasha lo farebbe.

    «Sarà in qualche bettola di Roma stordito dalla droga », risponde Dorian. Non riesco a capire se stia scherzando o meno.

    «Se così fosse, sarebbe la volta buona che lo butto fuori di casa». L’affermazione di Alberto, mio padre, rimuove ogni dubbio.

    Russell è davvero la pecora nera della famiglia Conte. Io invece sono quella che li sta tradendo miseramente.

    Per la prima volta, il concetto di tradimento mi si presenta in un modo del tutto nuovo che non intendo approfondire. Mi concentro a gustare la torta di mele, ripensando a quante volte io e mamma abbiamo provato a farla: non veniva mai bene, era sempre troppo cruda o troppo cotta.

    Mamma, se sapessi… se solo immaginassi… se potessi trovarti e riabbracciarti, anche dicendoti che sono Sasha.

    Chissà come reagirebbe mia madre se mi vedesse qui, seduta allo stesso tavolo di Alberto Conte, l’uomo che le ha portato via una figlia. Lei sapeva di Sasha, sapeva dove trovarla e potrebbe saperlo anche ora. Perché non l’ha mai cercata? Perché non mi ha detto di lei?

    «Dobbiamo parlare, Sasha», la voce di Alberto interrompe i miei pensieri.

    Con la coda dell’occhio noto Dorian abbassare lo sguardo sul suo piatto e Dante fissarmi come se volesse studiarmi.

    Non avrà mica capito?

    «Certo, dimmi pure», lo esorto, fissandolo oltre il bordo della tazzina da cui sorseggio il caffè.

    «Non adesso», si alza e mi guarda dall’alto della sua statura.

    È di certo un bell’uomo, ma a me non piace per niente. Non capisco perché non riesco a considerarlo come una figura paterna. Mi è totalmente indifferente.

    «Dimmi tu quando». Rimango ferma, non appena lo sento chinarsi alle mie spalle e raggiungere il mio orecchio in modo poco convenevole.

    «Ti faccio chiamare io. Goditi il rientro». E quando la sua mano si poggia sulla mia guancia, non è più indifferenza quella che provo, ma disgusto.

    «Buongiorno». La mia testa scatta verso l’apertura che affaccia sul salone e la figura di un ragazzo alto, con le spalle larghe, un paio di jeans scuri e una camicia bianca, riempie lo spazio e l’aria, dato il forte odore di colonia che emana.

    «È tutto pronto, Farid?», gli chiede mio padre.

    Lui è Farid.

    Mi incanto su di lui che non mi degna di uno sguardo, presumo che nessuno dei presenti sia al corrente della tresca con Sasha, quindi siamo tenuti a fingere.

    Smetto di guardarlo e scopro che altri occhi, quelli di Dante, mi fissano ancora con quell’aria di rimprovero che intendo approfondire.

    Che diavolo gli hai fatto, Sasha?

    Devo informare Aisha e chiederle di indagare. Non è normale che Dante guardi la propria sorella in quel modo. A meno che… Dio! A meno che non mi abbia già scoperta.

    «La macchina è pronta, signor Conte», lo informa Farid. «Possiamo andare».

    Farid si tradisce e mi guarda per un misero secondo. Io ricambio, e tra me e lui ci sono Amir e la sua rabbia.

    Mio padre e Farid si allontanano e Dorian si alza strizzandomi l’occhio.

    «Io esco», dice.

    «Dove diavolo vai a quest’ora?», lo rimbecca Dante.

    «Cazzi miei!». Si avvicina a me, mi stampa un bacio sulla guancia, uno di quelli che fanno bollire la pelle, e se ne va.

    «Dorian! Dorian!». Dante continua a chiamarlo gridando alle sue spalle, ma lui va via. Sicuri che la pecora nera sia Russell?

    Dante torna a mettersi comodo e si passa una mano sul viso, massaggiandosi gli occhi, poi accarezzandosi la barba e infine tirando indietro i capelli. È pensieroso e preoccupato.

    «Ce l’hai con me?». Azzardo.

    Non conosco Dante, non ho idea di cosa sia successo tra lui e Sasha, ma corro il rischio. E faccio bene.

    «Sì, Sasha. E ora lasciami in pace, quando ne avrò voglia tornerò a parlarti». Si alza e se ne va.

    Sono finita in una gabbia di matti.

    Mio padre è uscito con Farid, che potrebbe essere lo stesso Farid di cui mi ha parlato Amir. Dorian si fa i cazzi suoi alle nove del mattino, Russell non rientra in casa la notte e Sasha? Cosa fa Sasha?

    Mi guardo intorno e decido di esplorare la casa. Ram mi ha consigliato di conoscere bene il raggio d’azione. Imparare il senso di quell’espressione tecnica mi ha fatto sorridere, d’altronde è solo una casa.

    Le stanze sono tutte più o meno uguali: pacchiane.

    Quando mi rendo conto di essere sola, perché tutti sono usciti, corro in camera mia, prendo il cellulare e informo Amir.

    Lena: Farid?

    maestro: Dobbiamo vederci.

    Lena: Dimmi chi diavolo è Farid!

    maestro: Tra un’ora in fondo alla strada, c’è un bivio, svolta a destra.

    Lena: Farid e Sasha sono amanti.

    E lui non risponde più.

    So che Sasha ha l’abitudine di correre tutte le mattine, perciò così faccio dopo un’ora, informando Dorotea. Esco e corro lungo la strada contornata dalle villette a schiera, raggiungo il bivio e svolto a destra, correndo verso Amir.

    Capitolo 4

    Amir

    Fisso il display del mio smartphone. Rimango immobile a centellinare le parole. Le sto mangiando e ora vorrei vomitarle. Se si potesse essere bulimici col dolore, se si potesse espellerlo dal corpo.

    Mai nella vita avrei potuto immaginare di provare questo.

    La odio.

    Odio questa strega che riesce a distruggere tutto ciò che ho faticosamente costruito negli anni.

    Avevo una corazza e lei l’ha rotta, si è insinuata in mezzo al ferro e mi ha rammollito.

    È un diavolo camuffato nelle vesti di un’avvenente donna che ha il potere di uccidermi.

    Mi. Ha. Ucciso.

    Rileggo, perché forse è la mia fantasia ad aver immaginato la situazione. Non sono sicuro, non sono per niente sicuro e rileggo, rileggo ancora.

    Lena: Farid e Sasha sono amanti.

    E non mi sbaglio, cazzo. Non mi sbaglio. Farid e Sasha sono amanti. Amanti. Sono un uomo intelligente, e la logica mi dice chiaramente che se Lena sa che Farid e Sasha sono amanti, è perché lei è stata la sua amante.

    Blackout.

    Mi spengo.

    Reset.

    Non esiste più un cazzo. Non. Esiste. Più. Un. Cazzo di un cazzo di un cazzo!

    Lancio il telefono contro il muro e lo schermo si frantuma piombando in schegge a terra. Me la prendo col materasso di questa stanza di merda e lo ribalto, aggrovigliando le lenzuola e ciò che stava sopra.

    Io sono aggrovigliato.

    Prendo a calci l’anta dell’armadio che si sgancia e pende. Le do un altro calcio e il legno si spacca.

    Muro.

    Devo frantumare il muro.

    E mi scaglio contro la parete, prendendola a pugni, frenandomi dal darle testate. No, niente testate, devo essere lucido quando arriverà Lena. Le farò un interrogatorio, le chiederò dove, come e quando ha scoperto questa notizia di merda.

    È una donna finita.

    I botti al muro si susseguono ritmati, avverto il solito insano piacere di vedere il sangue sulla parete, il mio sangue, che sgorga dalle nocche che si spaccano.

    Odio Lena Morozov e tutto quello che mi fa provare. Odio la sensazione di impotenza. Odio non poterla avere con

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