Sei in ogni mio attimo
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About this ebook
Anche December ha percepito una connessione immediata con l'affascinante sconosciuto che le si è avvicinato, ma è preoccupata di correre troppo: può fidarsi del proprio istinto?
Aurora Rose Reynolds
è autrice bestseller di «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today». Ha iniziato a scrivere perché i maschi alfa che vivevano nella sua testa la lasciassero un po’ in pace. La Newton Compton ha pubblicato tutti i romanzi della serie Until.
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Book preview
Sei in ogni mio attimo - Aurora Rose Reynolds
Prologo
Sorseggio il mio quarto – o forse quinto – calice di vino, incurante di essere già un po’ brilla, consapevole che dovrò cercare un passaggio per me e April per tornare a casa stasera. Non sarà un grosso problema trovare qualcuno che ci riaccompagni, visto che i nostri familiari e amici sono tutti qui. Al momento la maggior parte di loro si sta scatenando in pista al ritmo di una musica assordante scelta dal
DJ
. Dovrei esserci anch’io, e invece sono seduta in un angolo buio della sala a bere da sola.
Okay, in realtà mi sto nascondendo.
Mi faccio vento con la mano davanti al viso accaldato, e non capisco se mi sento andare a fuoco perché fa caldo qui dentro o perché ho bevuto. Mi serve aria, acqua… e ancora aria. Mi alzo in piedi, barcollando un po’, e April mi guarda. È incollata a un pezzo d’uomo che sembra gradire molto la sua compagnia, a giudicare dalla mano che le tiene sul sedere da almeno una ventina di minuti. Interpreto la domanda implicita nel suo sguardo: mi chiede se sto bene, se ho bisogno di lei.
«È davvero una brava sorella, anche se si è scelta Gareth per prima», biascico tra me e me con la lingua impastata dall’alcol, poi sollevo goffamente i pollici nella sua direzione e punto verso l’uscita. April annuisce una sola volta, poi si riconcentra sul tizio a cui è avvinghiata. Poso il calice di vino vuoto e, da uno dei tavolini, afferro un bicchiere d’acqua che nessuno ha toccato. Ne bevo un sorso e mi dirigo verso l’insegna luminosa in fondo alla sala.
Una volta fuori, mi congratulo con me stessa per essere riuscita a non cadere di faccia, visti i trampoli che ho ai piedi. Indosso un vestitino nero attillato e non avrei mai potuto abbinarci le solite scarpe basse, quindi ho optato per un paio di sandali a punta, con il tacco a spillo. Sono sexy ma mi stanno massacrando i piedi. Sollevo una gamba per liberarmi di questi strumenti di tortura e barcollo leggermente di lato. Mi scappa una risatina.
«Sono qui». Due braccia forti mi avvolgono, risparmiandomi un capitombolo e, benché mi senta alquanto accaldata, un brivido mi percorre la schiena.
Sollevo lo sguardo e le guance avvampano ancora di più appena mi ritrovo davanti gli occhi di Gareth. «È uno scherzo? La fortuna decisamente non mi assiste».
«Cosa?», domanda divertito, e la sua risata affabile vibra sulla mia schiena e mi attraversa tutta.
«Niente». Mi volto per guardarlo in viso e faccio un passo indietro. Non mi permette di allontanarmi del tutto, mi lascia la grossa mano sul fianco come se non credesse che riesca a reggermi da sola. «Ti prego, ignora qualunque cosa dica o faccia da questo momento in poi».
Mi fissa per un attimo negli occhi, poi mi chiede: «Quindi vuoi che ti ignori come hai fatto tu con me per tutta la sera?».
L’ho ignorato. Dopo che April ci ha raggiunti al bar e gli ha detto che sono una brava ragazza, sono fuggita e l’ho evitato.
Chiudo gli occhi e rivedo, come in un film, tutto quello che è successo stasera.
Guardo la coppia felice entrare nella sala da ballo insieme agli altri e sorrido mentre mio cugino solleva la mano della moglie, felice, prima di farla volteggiare davanti a sé. Quando è rivolta verso di lui, la fa adagiare in un casquè e la bacia. Tutti applaudono e ridono, io compresa. Sono contenta per lui, ma ancora di più per Hadley. Negli ultimi mesi mi sono legata molto a lei e, conoscendo il suo passato, so che merita di essere felice più di molta altra gente.
«Chissà chi sarà il prossimo», esclama mia sorella April e io la guardo con la fronte aggrottata.
«Cosa?»
«Mi chiedo chi sarà il prossimo. Sai, il prossimo a innamorarsi. Sembra che succeda con una frequenza considerevole». Beve un sorso di birra e si dà un’occhiata intorno. «Non che abbia alcun desiderio di finire in mezzo a una sparatoria o di essere rapita solo per trovare l’anima gemella».
«Sei così melodrammatica». Scuoto la testa.
«Dici?».
No, non lo è. Sembra esserci una trama comune quando si parla dei Mayson e dell’amore. Ma non è il caso di esagerare.
«Non bevi?», domanda, cambiando argomento e osservando il bicchiere d’acqua che ho in mano.
«Non credo». Mi sposto verso uno dei tavoli apparecchiati intorno alla pista e mi siedo, sorridendo alle persone che conosco che hanno già preso posto.
«Bene, allora sarai tu a guidare stasera», commenta sedendosi accanto a me.
«Perfetto», sospiro. Non muoio dalla voglia di farle da baby-sitter tutta la sera per controllare che non faccia nulla di stupido. Adoro mia sorella, ma tende a fare idiozie.
«Chi è quello?».
Seguo il suo sguardo e il mondo intorno a me sembra fermarsi. Dall’altra parte della stanza c’è un ragazzo che parla con mio cugino Sage e con Kenyon, il marito di Brie. Non un tipo qualsiasi, ma il tipo più bello che abbia mai visto. È alto, più di Sage e quasi quanto Kenyon, che è praticamente un gigante. Ha i capelli castani, tagliati corti ai lati e più lunghi al centro. È di profilo, quindi non riesco a vedere tutto il viso, ma la mascella, coperta da una barba che gli dà un’aria da duro, è ben definita. Dal collo della camicia fanno capolino dei tatuaggi e ne scorgo altri sul braccio, perché ha le maniche rimboccate fino al gomito. Ha dei bicipiti così grossi che non credo riuscirei a stringerli nemmeno usando due mani.
Quando si volta nella mia direzione e sorride per qualcosa che ha detto Sage, mi manca il fiato. Pensavo fosse bello di profilo, ma mi sbagliavo. Visto di fronte è affascinante e misterioso, con le sopracciglia spesse sugli occhi penetranti e le labbra carnose delineate dalla barba.
«Chiunque sia, stasera me lo porto a casa», esclama mia sorella e mi si stringe lo stomaco. «Dio, che figo. Non vedo l’ora».
Deglutisco a fatica l’improvvisa gelosia che provo e vorrei davvero non aver promesso di restare sobria, perché ora avrei bisogno non solo di un drink, ma di un’intera bottiglia di tequila.
«Non fare nulla di stupido», sibilo zittendola e incrociando il suo sguardo.
«Fare sesso non è stupido. Lo sapresti se ci provassi una volta ogni tanto».
Mi mordo la lingua per evitare di dire qualcosa di cattivo, poi cerco nella stanza una via di fuga. L’insegna luminosa dei bagni attira la mia attenzione. Mi alzo. «Torno subito», mormoro, prima di allontanarmi a testa bassa e con il cuore in gola.
Crescendo, io e le mie sorelle abbiamo sempre avuto una regola. Se a una di noi piace un ragazzo, questo diventa off limits, anche se non è interessato a quella che ha una cotta per lui. Questa regola ci ha salvate in più di un’occasione, ma adesso vorrei che non esistesse. Quando arrivo in bagno, entro in una delle toilette e rimango lì in piedi per riprendermi.
Conosco April e so che probabilmente si è già data da fare per parlare con quel ragazzo; so anche, senza dubbio, che lui sarà interessato, perché non ho mai conosciuto un ragazzo a cui lei non piacesse. È bella, simpatica ed estroversa – tre cose che io non sono. Sono carina, posso essere simpatica se sono con i miei amici o i parenti, ma ci metto un po’ ad aprirmi con le persone che non conosco. Sono anche l’esatto contrario di estroversa. Preferisco un libro e un po’ di relax a uscire e andare all’avventura. Sono sempre stata così.
Quando sono abbastanza calma da essere sicura che non prenderò mia sorella a pugni, esco dal bagno e mi avvio verso il bar, pensando che un bicchiere di vino non mi farà male. Lo ordino al barista e mi appoggio al bancone con i gomiti.
«Sei la cugina di Sage, vero?», chiede una voce profonda, e mi si drizzano i capelli mentre le farfalle prendono il volo nel mio stomaco.
Non devo nemmeno girarmi per sapere chi sta parlando. Comunque, ruoto la testa per incrociare il suo sguardo. Dio, salvami. È alto e così bello. Pensavo di averlo apprezzato dall’altro capo della stanza, ma da vicino è ancora meglio.
«Se ho capito bene». Inarca le sopracciglia sugli occhi scuri circondati da folte ciglia mentre io lo fisso.
Mentalmente mi tiro uno schiaffo e costringo la mia bocca a funzionare. «Sì, mi chiamo December».
La sua fronte si distende e lui si appoggia con un fianco al bancone, accanto a me, incrociando le braccia sul petto. «Un altro mese». Gli brillano gli occhi per il divertimento.
«Scusa?»
«Ho conosciuto July, June, May e anche April. E ora, December».
Sentendo il nome di April mi si stringe lo stomaco. «I nostri genitori hanno voluto mantenere un tema». Prendo il vino e tracanno un sorso con fare per nulla femminile. Perché non l’ho visto prima io?
«Gareth». Mi porge la mano. Non voglio prenderla, davvero, non voglio, ma la buona educazione mi costringe a farlo. Quando sento la sua presa decisa e calda, mi manca il fiato. «Piacere di conoscerti».
Passo la lingua sulle labbra e sussurro: «Piacere mio». Tenendomi la mano, mi osserva con attenzione. Il suo sguardo intenso mi mette in imbarazzo, come se vedesse parti di me che nemmeno io conosco.
«Pensavo non bevessi». Chiudo gli occhi su Gareth mentre April, all’improvviso, mi cinge le spalle con un braccio. «Sei una vera ribelle, bevi vino quando dovresti riportarmi a casa sana e salva».
«È solo un bicchiere. Non avrò problemi a guidare più tardi». Apro gli occhi e mi volto a guardarla.
«Lo so», risponde fissandomi, poi si rivolge a Gareth e sorride. «Mia sorella è una brava ragazza, rispetta sempre le regole».
Dio, vorrei che non fosse così.
«Ember». Avverto il calore di una mano sulla guancia, scaccio i ricordi della serata e mi concentro sul meraviglioso viso di Gareth, che si è chinato verso di me.
«Mi hai chiamata Ember?». Aggrotto le sopracciglia, offesa perché si è già dimenticato il mio nome.
«Piccola, il tuo nome fa venire in mente il freddo e invece, standoti davanti, emani solo calore».
«Perché sono ubriaca».
«Cosa?»
«Il mio corpo disperde calore perché devo smaltire l’alcol ingerito», gli dico senza tanti giri di parole. Evito di informarlo che sentire i suoi muscoli possenti premuti contro di me mi inebetisce, e la mia bocca articola parole che sfuggono al mio controllo.
«Potremmo andare da qualche parte, se vuoi rinfrescarti».
«Sono già all’aria aperta», sottolineo, e mi guardo attorno.
«È vero, ma pensavo più a qualcosa tipo una doccia fredda».
È una brava ragazza.
Le parole di April mi risuonano in testa e stringo un pugno. Al diavolo. Per una volta nella vita, mi comporterò da ragazzaccia.
Uno
December
Prima ancora di aprire gli occhi, so di non essere nel mio letto. Il lenzuolo che mi copre non è soffice ma ruvido, e la stanza è inondata dal sole, mentre di solito la mia ha le tende tirate. Eppure… non sono le lenzuola né il bagliore che mi filtra attraverso le palpebre chiuse a indurmi a pensare che non sono nel mio letto. Sono il profumo muschiato e virile e il braccio muscoloso che mi avvolge. Voglio gustarmi il piacere di essere stretta così forte. Voglio godermi ogni dettaglio, ogni attimo, ma so che l’uomo che mi stringe a sé, con possessività, è lo stesso che potrebbe scatenare una guerra tra me e mia sorella. Anche se ieri sera April si stava divertendo in compagnia di un altro, le regole sono regole e adesso, alla piena luce del giorno, la mia mente, liberata dai fumi dell’alcol, me lo ricorda senza pietà.
All’improvviso questa netta consapevolezza mi pesa come un macigno sul cuore. Decido quindi di alzarmi dal letto, stando attenta a non far rumore. Grazie al cielo sono ancora completamente vestita, indosso l’abito di ieri sera, tranne le scarpe, che Gareth mi ha tolto mentre ero distesa sul suo materasso. Lo stesso su cui, pochi istanti dopo, si è sdraiato anche lui. Poi mi ha abbracciata e mi ha ordinato, con voce profonda, di mettermi a dormire, invece di fare quello che avrei voluto e che sono sicura avrebbe voluto anche lui, a giudicare dall’erezione che sentivo premere tra noi.
Chiudo gli occhi. Adesso non posso fermarmi a pensare al suo gesto gentile, alle sue premure. Devo andarmene prima di commettere qualche sciocchezza, tipo rinfilarmi nel letto accanto a lui o, peggio, andare in cucina a preparargli la colazione. Cercando di fare meno rumore possibile, prendo le scarpe e la borsa dal pavimento e mi dirigo verso la porta. Sono pochi passi, ma mi sembra di impiegarci un’eternità a raggiungere la maniglia di metallo.
Ruoto il pomello e, quando la porta cigola, mi lancio un’occhiata alle spalle per assicurarmi di non averlo svegliato. È rimasto immobile – la testa sul cuscino, i lineamenti virili ancora distesi e il suo corpo possente e forte addormentato –, così mi concedo un secondo per memorizzare ogni dettaglio, nella speranza che questo basti per farmi andare avanti con la mia esistenza grigia e noiosa.
Mi chiudo la porta alle spalle, attraverso un piccolo corridoio e sbuco all’improvviso nel salotto con la cucina a vista. Ieri sera non ho avuto il tempo di guardarmi attorno. Gareth ha cominciato a baciarmi nell’istante in cui ho messo piede in casa sua, e ha smesso solo quando siamo arrivati in camera da letto. Osservando adesso gli ambienti con più attenzione, resto sorpresa perché è una casa vera e propria, non l’appartamento di uno scapolo. È molto bella, luminosa e funzionale, e in cucina ci sono pensili neri e piani in granito. I mobili del soggiorno sono vissuti e alle pareti sono appesi vari quadri, alcuni con scatti artistici, altri con foto di famiglia, tutti incorniciati con gusto. La libreria a giorno è piena di libri e soprammobili, mentre, disseminati per tutta la stanza, ci sono videogiochi e attrezzatura da sport, segni evidenti della presenza di un ragazzo in casa.
Vorrei studiare meglio l’abitazione e le foto in cerca di qualche indizio più preciso sulla vita di Gareth, ma mi impongo di filare via. Raggiungo la porta, la apro ed esco. Vago con lo sguardo per tentare di capire dove sono, e all’improvviso mi sento mancare. Dall’altra parte della strada vedo l’auto di Harmony parcheggiata davanti a casa sua, con la moto del marito accanto. Gareth… Chiudo gli occhi per un attimo. Non posso credere che sia lui il papà single di cui Harmony ha parlato a me e alle ragazze dopo che uno dei figli le ha distrutto il fanalino della macchina con una palla da baseball.
Nella speranza che mia cugina e suo marito siano ancora a letto a dormire e non possano vedermi, mi infilo le scarpe, attraverso la veranda e percorro il vialetto per raggiungere la strada. Mi affretto ad arrivare in fondo all’isolato e prenoto un passaggio con Uber. Mi stringo le braccia attorno alla vita e sospiro. Devo avere un aspetto ridicolo, in attesa sul marciapiede, al freddo, truccata, con l’abito elegante e i tacchi alti che indossavo ieri sera. Grazie al cielo, data l’ora, penso che siano ancora tutti a letto.
Controllo la via in attesa della Nissan che dovrebbe venire a prendermi. Con mia grande sorpresa, addirittura prima di vederla svoltare l’angolo, mi giunge alle orecchie una musica rap a tutto volume. L’auto si ferma di fronte a me in fondo alla strada e attraverso il finestrino del passeggero guardo il conducente con in testa un cappellino da baseball con la visiera rivolta sulla nuca. È un ragazzino, deve avere al massimo sedici anni, e mi viene il dubbio che forse non abbia neppure la patente.
Il finestrino si abbassa ma la musica resta alta. Anzi, sembra ancora più assordante ora che non è più confinata nell’abitacolo. «December?»
«Sì».
«Sono il suo autista», dice, e subito tira su il finestrino senza aggiungere altro.
Controllo l’app sul cellulare per essere sicura che sia effettivamente la vettura che aspettavo, poi apro lo sportello posteriore ed entro.
«Ehi», mi saluta da sopra la spalla con un sorriso mentre mi allaccio la cintura. «Bella serata?»
«Già». Abbasso lo sguardo sul cellulare e decido di ignorare le chiamate perse e i messaggi di April. Mi metto invece a controllare Instagram, così non sarò costretta a intavolare un’imbarazzante conversazione con questo ragazzino che, forse, anche se gli volessi parlare, non riuscirebbe neppure a sentirmi con la musica sparata a palla. A metà strada si scarica la batteria del telefonino, ma continuo a tenere gli occhi fissi sullo schermo nero finché non arriviamo al mio appartamento.
Entro e vado subito in cucina a preparare da mangiare a Melbourne, il mio gatto invisibile. Ovviamente non è davvero invisibile, ma è un po’ come se lo fosse. Non lo vedo mai, a parte quando vuole cibo o coccole – e queste ultime molto di rado.
Una volta finito, vado in camera e mi spoglio. Mi lavo i denti e nel frattempo faccio scorrere l’acqua nella doccia. Appena diventa calda a sufficienza, entro e mi rilasso sotto il getto. Cerco di non pensare a Gareth, ma istintivamente mi chiedo se si sia già accorto della mia assenza e quale sia stata la sua reazione trovandosi solo al risveglio.
Magari non gli importa nulla che una donna se la svigni come ho fatto io, ma, dentro di me, voglio credere che un po’ gli sia dispiaciuto.
Mi lavo i capelli, metto il balsamo, mi insapono per bene da capo a piedi, mi sciacquo, quindi esco dalla doccia e mi asciugo. Indossato l’accappatoio, ritorno in cucina a prepararmi una tazza di caffè e del pane tostato. Mi siedo su uno dei due sgabelli del tavolo che funge da isola e mangio in silenzio, poi rivado in camera e mi infilo i miei abiti preferiti: pantaloni della tuta e felpa con il cappuccio.
Un paio d’ore più tardi sono seduta sul divano a rilassarmi in compagnia di un nuovo libro, un pacchetto di patatine e una Coca-Cola light, quando sento squillare il cellulare in camera, dove l’avevo lasciato a ricaricare. Mi alzo controvoglia per andare a rispondere e, appena vedo che si tratta di April, ho un attimo di esitazione. Forse un tantino lungo come attimo considerato che il telefono smette di suonare e subito sullo schermo compare la notifica della chiamata persa. Un istante dopo ricomincia a squillare.
So che non si darà per vinta, quindi scorro il dito sullo schermo e, con un sospiro, mi porto il telefono all’orecchio. «Ciao».
«Ciao? Tutto qui?», sbotta. «Ma non hai visto tutte le chiamate che ti ho fatto da ieri sera, quando sei scomparsa? Ti giuro che se lo zio Trevor non mi avesse detto che qualcuno ti aveva riaccompagnata a casa, avrei chiamato la polizia e fatto partire le ricerche».
Grazie a Dio, ieri sera, mentre prendevo la borsa, ho avuto il buonsenso di dire a mio zio che mi sarei fatta riaccompagnare a casa e gli ho chiesto di avvisare gli altri che era tutto a posto.
«Scusami, ero stanca. Non vedevo l’ora di andare a letto, e in più il cellulare era morto. L’ho messo in carica solo dopo essermi svegliata, stamattina». Torno in soggiorno e mi accomodo di nuovo sul divano. «Ti sei divertita?». Voglio… no, ho bisogno di cambiare discorso.
Sogghigna. «Certo. Adesso, apri la porta. Sono qui fuori».
«Sei qui?». Guardo la porta come se avessi la vista laser.
«Proprio così, dai, fammi entrare. Ho le mani occupate».
Mi alzo e, non appena giro la maniglia e apro, April si precipita dentro. Afferro la tazza di caffè con ghiaccio che mi piazza in mano passandomi accanto, poi richiudo la porta. «È sempre troppo silenzioso, qua», mi comunica. Poi si butta a sedere sul divano e si guarda attorno.
Il mio appartamento è piccolo, un’unica camera da letto, un bagno e un bagnetto. Una parete separa la cucina abitabile dal soggiorno, nel quale c’è posto solo per il confortevole divano verde, il mio posto preferito per leggere. Ho una
TV
su una mensola di fronte al divano, ma la guardo di rado, visto che leggo sempre.
«Stavo leggendo. Mi piace il silenzio quando leggo». È la verità, anche se ogni tanto metto della musica, soprattutto se un autore che amo ha inserito una playlist nel suo libro.
«Non fai altro che leggere». Alza gli occhi al soffitto, poi li abbassa di nuovo su di me, con una strana luce nello sguardo e un sorrisetto malizioso sulle labbra. «E così ieri sera sei andata via con Gareth».
Cazzo, lo sa. Stringo così forte la tazza di caffè che i cubetti di ghiaccio tintinnano. Era