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Nero Caravaggio - Rosso Barocco - Il giallo di Ponte Sisto
Nero Caravaggio - Rosso Barocco - Il giallo di Ponte Sisto
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Nero Caravaggio - Rosso Barocco - Il giallo di Ponte Sisto

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Nero Caravaggio
Rosso Barocco
Il giallo di Ponte Sisto

Ettore Misericordia è il proprietario di una storica libreria di Roma. Autodidatta coltissimo, conosce tutti i segreti della città eterna.
È anche un grande appassionato di gialli e un detective dilettante dal formidabile intuito, tanto che l’ispettore Ceratti se ne avvale spesso per i casi sui quali indaga. E sono ben tre quelli che Ettore lo aiuta a risolvere. Il primo riguarda un delitto avvenuto nella basilica di Sant’Agostino, proprio accanto a Piazza Navona. Paolo Moretti è stato pugnalato alle spalle con uno strumento per incisioni. 
Il secondo caso ha invece a che fare con un’enigmatica scritta comparsa nella cripta di San Carlino alle Quattro Fontane, a cui segue, poco dopo, il brutale omicidio di una giovane donna a piazza Navona. 
Il terzo reato su cui il libraio indagherà è la scomparsa di un giovane comico, Simone Rossmann, nel cui appartamento un vecchio disco incantato su un grammofono ripete la parola “morire”. La voce del disco è quella di Petrolini e il palazzo in cui l’appartamento si trova è proprio quello dove aveva vissuto il grande attore romano… 
Ingegno acuto e profonda conoscenza della città e della sua storia sono gli strumenti di cui Misericordia si serve per fornire un aiuto sempre prezioso all’ispettore Ceratti.

Affascinanti e ironici come Simenon
Geniali come Camilleri 

Tre indagini per il libraio Ettore Misericordia, grande conoscitore dei segreti della Città Eterna

«Un giallo, una lunga indagine che trasporta il lettore in tutti i luoghi più belli o più segreti della Capitale.»
Il Corriere della Sera

«Una lettura intrigante e coinvolgente, condita da frizzante humor che si ispira a Conan Doyle e Rex Stout.» 
La Sicilia

Max e Francesco Morini
Fratelli, autori teatrali e televisivi, dirigono la Scuola di Scrittura Pensieri e Parole di Roma. I loro romanzi nascono dalla volontà di unire due grandi passioni: quella per i romanzi polizieschi e quella per la loro città, Roma. La Newton Compton ha pubblicato Nero Caravaggio, Rosso Barocco e Il giallo di Ponte Sisto.
LanguageItaliano
Release dateFeb 12, 2020
ISBN9788822743466
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    Nero Caravaggio - Rosso Barocco - Il giallo di Ponte Sisto - Francesco Morini

    EN2571

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Nero Caravaggio

    © 2017 Newton Compton editori

    Rosso Barocco

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Il giallo di Ponte Sisto

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione ebook: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4346-6

    www.newtoncompton.com

    Max e Francesco Morini

    Nero Caravaggio

    Rosso Barocco

    Il giallo di Ponte Sisto

    Le indagini del libraio Ettore Misericordia

    Newton Compton editori

    Nero caravaggio

    Chissà se sarebbe piaciuto a Cristina

    1

    L’asso nella manica

    Non potevo crederci, avevo vinto.

    Oddio, magari non proprio vinto, ero arrivato terzo.

    Ma sempre podio è.

    Mentre salivo sul palco per ricevere il premio era scattato l’applauso della platea. Misericordia era seduto in fondo alla sala, si alzò in piedi.

    Applaudiva e sorrideva, e questa per me era un’altra vittoria: non era facile vedere un sorriso su quel volto e se compariva era ironico, o peggio sarcastico, comunque sempre tagliente (voi non lo conoscete, non è cattivo, è solo un po’ misantropo, il suo problema è che prima ancora di vedere le persone, vede le loro debolezze).

    Questa volta invece era diverso, quando scesi dal palco mi venne incontro e mi abbracciò. «Bravo Fango!».

    Fango è il mio soprannome, tutti mi chiamano così dai tempi del liceo.

    Intendiamoci, niente a che vedere con il blues, Muddy Waters e il Mississippi; diciamo invece che è una metafora di un look settantasettino leggermente improvvisato e non proprio pulitissimo, per usare un eufemismo.

    Che volete farci, per fare la Rivoluzione bisogna essere sporchi e trasandati, non si può farla in giacca e cravatta.

    Quindi inutile che mi chiediate il mio vero nome, nessuno mi chiama più così, gli unici sarebbero i miei genitori se fossero ancora vivi. O forse i miei compagni di scuola… Misericordia continuò: «E ti dirò di più, avresti meritato il primo premio! Solo a quattro pagine dalla fine del racconto, ho capito chi è l’assassino… Devo ammettere che sei riuscito a depistare anche me!».

    E così adesso sapete che avevo partecipato ad un concorso per giallisti.

    Il Capo mentre parlava mi cingeva le spalle col suo braccio lungo e magro e questo mi faceva ancora più piacere perché eravamo passati dal possibile, cioè un sorriso benevolo, all’impossibile, addirittura un contatto fisico.

    Il Capo, sì.

    Lo chiamavo così.

    Lavoravo da ormai più di dieci anni nella sua libreria a via di San Giovanni Decollato a Roma, una viuzza stretta e poco frequentata tra i rioni Campitelli e Ripa, nella zona del Velabro. E se non sapete cos’è il Velabro, allora non sapete proprio niente di Roma: è la zona, per intenderci, fra il Palatino, l’ Aventino e il Campidoglio, tre dei famosi sette colli, dove la città è nata e si è sviluppata adagiandosi sulla riva del Tevere e sfruttandolo come via commerciale.

    Qui la leggenda vuole che dai Colli Albani arrivassero in una cesta due frugoletti di nome Romolo e Remo; lo zio Amulio infatti voleva dormire sonni tranquilli e aveva dato ordine di eliminare tutta la genia del fratello Numitore, a cui aveva usurpato il trono di Albalonga.

    Ma non aveva fatto i conti con i suoi servitori che risparmiarono i gemelli dalla morte e li affidarono alla pietà del Tevere: il fiume a valle aveva straripato e la cesta si arenò proprio nel terreno paludoso del Velabro.

    Dopodiché la famosa Lupa fece il resto, li trovò sotto un fico, li allattò e diede inizio a tutta la storia (e se non credete che una lupa possa allattare due bambini fate bene, probabilmente si trattava di una prostituta).

    Tutto ciò per dirvi che è un’area antichissima, piena di tesori archeologici e artistici, ma nonostante questo neanche troppo battuta dai turisti, a parte l’assalto alla famosa, inevitabile, Bocca della Verità.

    E qui mi viene da ridere, se solo sapessero che era un tombino della Cloaca Maxima sono sicuro che per la delusione non farebbero più la fila.

    Io invece vi consiglio di andare a Santa Maria della Consolazione, sull’omonima piazza. Ricordate il film di Scola C’eravamo tanto amati? Il Re della Mezza Porzione, la trattoria dove Gassmann, Manfredi e Satta Flores vanno a mangiare era lì. La chiesa, nonostante la facciata imponente, dall’esterno vi sembrerà un po’ tristarella, così solitaria e abbandonata a se stessa, ma se entrate i dipinti manieristi di Taddeo Zuccari e Livio Agresti vi ripagheranno della visita.

    Ettore Misericordia, conosciuto da tutti come Misericordia, aveva ereditato l’attività dal padre Aldo, ovvero il Sor Aldo, romano doc da sette generazioni come vuole la tradizione, che aveva gestito il negozio dal dopoguerra finché era rimasto in vita.

    Poi era toccato a Ettore.

    La libreria ormai era diventata una specie di monumento cittadino, avvolta da un’aura quasi mitologica.

    Perché, direte voi? Perché era l’unica libreria della capitale specializzata in tutto ciò che riguarda Roma: storia antica e moderna, miti, leggende e curiosità, rioni e quartieri, urbanistica e architettura, arte, fotografia, teatro, cinema, canzoni…

    Insomma, tutto ma proprio tutto.

    Era una pacchia per i turisti e anche per i romani, ovviamente, almeno quelli che non vogliono fermarsi al Cupolone e al Colosseo, a Fontana di Trevi, Trinità dei Monti o piazza Navona.

    Che sono sempre pochi: i romani, anche quelli da sette generazioni, stravedono per la loro città ma poi provate a chiedergli chi è l’autore del colonnato di piazza San Pietro e non sapranno rispondervi (e voi lo sapete? Vi do un aiutino: è Be…).

    Ma devo essere sincero, i bei tempi se ne erano andati e ormai sopravvivevamo, grazie anche alla nicchia, come si dice oggi, di pubblico interessato. E quel sentimento di sopravvivenza orgogliosa lo leggevo tutti i giorni sul viso del Capo, che mai e poi mai avrebbe accettato di chiudere la baracca.

    Ettore aveva quarant’anni, era magro, con un naso prepotente a farla da protagonista su un viso perennemente pallido, quel classico pallore di chi sta sempre chino sui libri e preferisce la luce di una lampada per leggere o studiare a quella del sole.

    Ma lui ci scherzava.

    «Quel pallore da intellettuale tormentato piace alle donne, Fango… È al pallore che devo il mio successo!».

    Era vero, le donne subivano il suo fascino e gli cadevano ai piedi, ma non solo per quell’aria vissuta.

    Gli occhi scuri erano belli, acuti, penetranti, i capelli arruffati biondo cenere e a completare il quadro i basettoni lunghi e altrettanto arruffati; alto e dinoccolato, Misericordia somigliava a uno chansonnier francese un po’ maudit.

    E poi era un pozzo di scienza: anche se non si era mai laureato, la sua cultura da autodidatta irrequieto ed enciclopedico era sconfinata, con una passione smisurata per la letteratura.

    Dalla quale era arrivato a una passione ancora più grande: i libri cosiddetti gialli.

    Proprio così, i romanzi polizieschi.

    Aveva letto tutti i grandi classici, da Conan Doyle, Chesterton e Agatha Christie a Ellery Queen, Rex Stout e Simenon, passando per Woolrich e Van Dine, fino agli italiani, Camilleri e Scerbanenco, che adorava. E poi l’hard-boiled, Hammett, Chandler, Spillane e le sue declinazioni noir-thriller più recenti.

    Lo so che sembra incredibile, ma si ricordava tutto, tutte le trame, tutti gli intrighi, tutti i colpevoli. Poi seguiva il mercato e i nuovi autori (ma non chiedetegli dei noir scandinavi o dei thriller storici, non li sopporta) per questo l’avevo conosciuto molti anni prima a un concorso per esordienti, lui era tra il pubblico: nonostante il mio Delitto tra le righe si fosse classificato ultimo su dieci finalisti lo apprezzò molto, incoraggiandomi a continuare.

    Così io e Misericordia legammo subito, grazie alla passione per la giallistica e a un’altra grande passione: Roma.

    Per tutti e due il legame con la città era forte, ma per lui era viscerale, profondo.

    Figlio di un romano de Roma, era nato nel centro storico e ne aveva assaporato fin da bambino l’atmosfera magica e la grande bellezza, crescendo praticamente nella libreria del padre. Ettore respirava Roma da sempre, ci viveva in simbiosi e la conosceva come nessun altro.

    Era un’autorità assoluta in materia.

    Quando lo conobbi, pensavo di sapere molto sulla Città Eterna, ma mi sbagliavo: Misericordia era la chiave per accedere a files riservati a pochi eletti.

    Considerato il grande guru dai Romanisti (cioè gli appassionati e gli studiosi di Roma, non confondeteli con i tifosi della Maggica, per carità), spesso corteggiato da giornalisti e media, Ettore però non amava dispensare le sue verità a tutti.

    In questo non era Narciso per niente.

    Per lui Roma era come un’amante di cui conosceva ogni pensiero, ogni segreto, ogni piega del corpo; se proprio doveva condividerla con qualcuno lo faceva solo con chi, secondo lui, lo meritava.

    Ed io a quanto pare ero tra questi pochi fortunati.

    Ricapitolando: eravamo coetanei, entrambi romani innamorati della Città Eterna e appassionati di romanzi polizieschi. Nacque subito un’amicizia fraterna, tanto che mi propose di andare a lavorare con lui in libreria.

    Figuriamoci, per me andava non bene, ma benissimo, spesso ero impegnato con le mie velleità letterarie ma non avevo mai avuto un lavoro fisso vero e proprio, cominciavo ad essere un ometto ormai, forse era arrivato il momento di darsi una mossa.

    Avevo navigato a vista per tanti anni, la Libreria Misericordia era un porto sicuro dove attraccare, finalmente.

    E che porto: lì dentro, ogni giorno, avevo a disposizione Roma.

    Vi sembra poco? A me no.

    Uscimmo dalla sala di via Nazionale dove si era svolta la premiazione che si era fatto scuro, erano all’incirca le 18.30 di un pomeriggio di fine novembre, domenica 29 novembre per la precisione. Per strada ci trovammo immersi nel caos: aveva piovuto abbondantemente e a causa dell’allagamento e della chiusura di alcune stazioni della metro gli autobus (o meglio gli auti, come dicono i romani, come se fossero un antico popolo italico: i Volsci, i Sanniti, gli Equi, i Marsi, gli Auti…) erano strapieni, una folla di persone inferocite si ammassava alle fermate.

    Metteteci in più il traffico esagerato dalla pioggia e capirete perché se amate Roma spesso arrivate altrettanto facilmente ad odiarla. D’altra parte «Odi et amo» diceva Catullo, che di Roma, romani e romane, vedi Lesbia, se ne intendeva.

    Squillò il cellulare di Misericordia.

    «Ispettore, come va?».

    Rispose sulla scia del buonumore, innescato dal mio terzo posto, ma sapevo che l’espressione del suo viso sarebbe immediatamente cambiata.

    E, infatti, cambiò.

    «Ah… Dove? Noi siamo a via Nazionale; va bene, veniamo subito…».

    Dall’altra parte del cellulare c’era l’ispettore Ceratti della Squadra Omicidi: sessant’anni, un cristone di un metro e novanta e passa, occhi azzurro ghiaccio, temperamento collerico, toni e modi secchi e sbrigativi, se voleva poteva farti veramente paura. Ma non a noi perché sapevamo che sotto la scorza dura c’era un animo sensibile, romantico, quasi ottocentesco. Come i suoi baffi vagamente asburgici. E poi ci piaceva l’ispettore perché era un milanese che amava Roma; non quanto me e il Capo, ovvio, però non la criticava, non la sminuiva, non la rifiutava. Anzi: era stato trasferito da Milano nella capitale (ma noi sospettavamo che avesse chiesto lui il trasferimento dopo la separazione dalla moglie) e ne era rimasto completamente rapito, per questo veniva spesso in libreria.

    Voleva saperne di più, capire e conoscere meglio quella città straordinaria che, nel bene e nel male, anno dopo anno, l’aveva adottato.

    Con Ettore aveva subito legato, ne apprezzava l’acume, la cultura e sicuramente, direi, anche la misantropia, anni e anni di mestiere lo avevano disilluso sulla natura umana.

    Alla fine, anche lui come Misericordia era un solitario.

    Il libraio e l’ispettore: due animali simili che si erano fiutati, riconosciuti e alla fine piaciuti, legati a doppio filo da Roma e anche da qualcos’altro: e cosa può legare un poliziotto e un appassionato di romanzi polizieschi?

    Indovinato? Gli omicidi.

    Perché Misericordia non si accontentava più dei romanzi, voleva trovare l’assassino, quello vero, in carne e ossa.

    Non gli bastava più essere un lettore di gialli, voleva essere il protagonista del giallo.

    E qui viene il bello: Ceratti gli permetteva di partecipare ad alcune indagini in via non ufficiale in cambio di pile di libri su Roma che ormai erano il suo vanto e riempivano la biblioteca della sua bella casa all’Esquilino.

    Certo, il Capo a volte si allargava un po’con un’indagine parallela non richiesta.

    Ceratti lo lasciava fare.

    Sapeva che Misericordia poteva essere il suo asso nella manica.

    2

    La Madonna dei Pellegrini

    A causa del traffico arrivammo in piazza Sant’Agostino tre quarti d’ora più tardi. Lì ci aspettavano l’ispettore, la chiesa omonima e qualcos’altro in tono con quel pomeriggio cupo.

    La chiesa ha una bella facciata rinascimentale, elegante e sobria, progettata nientepopodimeno che da Leon Battista Alberti alla fine del Quattrocento e poi edificata con l’aiuto (diciamo così…) di enormi lastroni di travertino prelevati dal Colosseo.

    E con questo aiutino della Roma antica da allora è rimasta lì con i suoi monaci agostiniani senza esporsi troppo agli occhi del turista, quasi nascosta fra piazza Navona e San Luigi dei Francesi. Accanto alla chiesa, dove prima c’era il vecchio convento, la Biblioteca Angelica ospita un fondo antico con più di centomila volumi nel meraviglioso vaso creato da Vanvitelli, perfetto per ambientarci un poliziesco.

    Come quello che intanto noi stavamo vivendo: sulla scalinata si affollavano agenti di polizia, i primi giornalisti arrivati facevano pressione per avere dettagli, curiosi e turisti venivano tenuti a bada. Ci lasciarono passare, Ceratti aveva dato disposizione in tal senso; ancora prima di entrare in chiesa sentimmo il suo vocione basso, anzi bassissimo, rimbombare fin sul sagrato.

    Poi appena entrati lo vedemmo, stava in piedi davanti alla prima cappella a sinistra, quella della famosa Madonna di Loreto di Caravaggio, detta anche La Madonna dei Pellegrini.

    E lui vide noi.

    «Ah, siete arrivati finalmente! Guardate qui!».

    Non c’era verso, mentre lavorava il suo carattere veniva fuori in versione esagerata-esagitata. Abbassai gli occhi e vidi il cadavere di un uomo in terra, davanti alla cappella. Mentre lo vedevo una voce dentro di me cominciò automaticamente la ricognizione: sui cinquant’anni, statura media, capelli brizzolati molto radi, viso incorniciato da una barba ben curata; anche le mani, lunghe e affusolate, erano ben curate.

    L’uomo indossava un impermeabile grigio, un completo marrone, una camicia bianca e una cravatta verde scuro.

    «È stato identificato?», chiese con un sussurro Misericordia.

    «Che hai detto? Parla più forte! Parlate tutti più forte o non sento! Va bene che siamo in una chiesa, ma cerchiamo di capirci, parlate tutti con un volume normale per D…».

    Per fortuna non completò la frase: sarà stato il quadro di Caravaggio, la presenza dei monaci agostiniani o l’improvvisa consapevolezza di essere in un luogo di culto, ma ebbe un moto di autocensura. Poi dall’alto del suo metro e novanta ci rispose: «Questo era il suo portafoglio, qualche banconota, tre carte di credito, un bancomat, la carta d’identità…».

    Lo lanciò improvvisamente a Misericordia, che prese subito la carta d’identità e lesse, sempre sussurrando: «Paolo Moretti, nato a Roma nel 1960, coniugato, residente in corso Trieste, numero 52…».

    Non riusciva proprio ad alzare il volume della voce, era pur sempre una chiesa e ci trovavamo davanti ad un cadavere. O forse non voleva: era legato a Ceratti, gli era riconoscente perché se lo portava dietro ma spesso si divertiva a provocarlo in tutti modi.

    È fatto così, che volete farci.

    Io, da parte mia, mi divertivo ad assistere alle loro scaramucce, erano un duo spalla-comico straordinario, sicuramente avrebbero avuto un grande successo ai tempi gloriosi del varietà. Ma quello non era il momento per uno dei loro numeri. Il cadavere di Paolo Moretti, lì per terra, ci chiedeva di scoprire chi era il suo assassino.

    «Vive con la moglie, niente figli», aggiunse l’ispettore, «abbiamo mandato due agenti ad avvertirla».

    «Cos’è questo?», chiese ancora Misericordia. Un oggetto appuntito e metallico si trovava accanto al cadavere.

    «Sicuramente l’arma del delitto! Gli ha perforato il polmone sinistro circa un’ora fa, un colpo secco sferrato alle sue spalle!».

    La vocina alta, con un’inflessione chiaramente campana, dell’agente Cammarata entrò finalmente in scena spezzando la tensione che si era accumulata. Antonio Cammarata, un trentenne di Benevento, era arrivato a Roma con Ceratti dopo il suo trasferimento; bassino, con le gambe arcuate (andava a cavallo? boh…), aveva un viso appuntito, spigoloso, una folta chioma rossiccia e grandi occhi verdi perennemente sospesi tra stupore e preoccupazione.

    Parlava velocissimo e più parlava più il suo viso si tingeva di rosso bordeaux per la concitazione. «Se posso esprimere un modestissimo parere», esordì, «è uno strumento da dentista! Ne vidi proprio uno simile qualche giorno fa dal dottor Esposito a Benevento, è un dentista che mi segue da quando ero bambino, ha sempre seguito tutta la mia famiglia, ha una certa età ormai; io non mi fido dei dentisti di Roma, quando ho qualche problema scendo a casa, d’altra parte sono solo due ore e mezza, non ci vuole tanto, però sto più tranquillo, anche perché il dentista deve ispirare fiducia, io ho sempre avuto paura dei dentisti e…».

    Aveva l’abitudine di partire in quarta e quando lo faceva solo uno sguardo fulminante di Ceratti poteva fermarlo.

    Anche quella volta andò così.

    Ettore indossò un paio di guanti in lattice della Scientifica, voleva vederlo da vicino. Cominciò a girarlo e rigirarlo.

    «Uhm… Scommetto niente impronte, vero?»

    «Sì, niente impronte. Cosa diavolo è? Veramente è un attrezzo da dentista?», borbottò Ceratti ad alta voce.

    «Non direi ispettore…».

    «Se lo sai parla, non farmi perdere tempo!».

    «Ci stavo arrivando, deve essere più paziente…».

    Meccanismo collaudato: più l’ispettore si innervosisce se Misericordia non risponde subito e più il Capo crea ad arte la suspense per tenerlo sulle spine, il bastardo.

    «Vede che c’è scritto qui?»

    «Ma dove?»

    «Qui, sull’oggetto che tengo in mano e dove se no?»

    «Ma come faccio a leggere se ce l’hai in mano tu quell’attrezzo!».

    «Ecco, qui, piccolo ma leggibile…».

    Gli mise l’oggetto sotto il naso.

    «Ma lo fai apposta? Lo sai che senza gli occhiali non leggo! Che c’è scritto?».

    Misericordia fece una pausa teatrale, poi, finalmente, svelò l’arcano: «C’è scritto Dasser, e accanto il numero di serie, il 5…».

    «E allora?»

    «Allora è una storica casa francese che produce articoli per le Belle Arti».

    «Belle Arti? Quindi? Cos’è Misericordia, avanti!».

    «Semplicissimo: è una puntasecca. Ovvero uno strumento da incisione per calcografie».

    Poi cominciò a torturarsi il basettone sinistro con l’anulare. E quando faceva così significava una cosa sola: aveva cominciato ad investigare.

    3

    Ossessione

    «Un attrezzo da dentista, ma come ti viene in mente Cammarata! Non hai letto la marca, doveva farti venire in mente qualcosa!».

    «Con tutto il rispetto ispettore, pensavo che anche un nome francese potesse essere collegato a uno studio dentistico anche perché mi ricordo che il dottor Esposito aveva una cugina francese di Parigi che gli portava spesso…».

    «Basta, cazzo!!!».

    Ceratti era nervoso più del solito perché non poteva fumare dentro alla sagrestia della chiesa che ospitava la nostra riunione. Eravamo seduti in cerchio cercando di capirci qualcosa.

    «Quindi fammi capire Misericordia, cos’è, una specie di bulino?»

    «Esatto, ma come ha visto, con una punta in acciaio più sottile; rispetto al bulino è molto più maneggevole, questo poi deve essere un pezzo da collezione, anziché in legno ha il manico in metallo, bel lavoro…».

    «Tutte a me! Ci mancava solo un assassino che uccide con uno strumento da incisione! Riepiloga Cammarata, veloce!».

    «Subito ispettore… Allora: al momento del delitto, verso le 17, è entrata a far visita alla chiesa una comitiva di dodici turisti spagnoli, tutti già identificati. Appena entrati si sono accalcati davanti al quadro di Caravaggio per fare delle foto ed ascoltare la guida, un italiano, un certo Anselmo Veronica, abbiamo verificato, è incensurato. Il Veronica sostiene che quando sono entrati Moretti era già davanti al quadro; i monaci non si ricordano di lui, il sagrestano invece sì, afferma che da qualche mese, tutte le domeniche, puntualissimo, alle 16.30 si piazzava davanti all’opera».

    «Per fare che?»

    «Per ammirarla! E sembra per parecchio tempo!».

    Mi pareva, doveva esserci qualcosa di strano.

    E quel qualcosa finalmente era arrivato.

    «Moretti veniva qua da diversi mesi tutte le domeniche alla stessa ora per ammirare il quadro?». Anche Misericordia sembrava colpito.

    «Sissignore, infatti anche oggi pomeriggio è arrivato alle 16.30 e non si è mosso di un millimetro, anche all’arrivo della comitiva».

    «Poi cosa vi ha detto la guida?»

    «Sostiene che subito dopo le 17, mentre stava illustrando ai turisti la storia del famoso capolavoro, ha udito un gemito, una specie di urlo soffocato, e ha visto accasciarsi Moretti lentamente al suolo. Infine ha sentito distintamente un rumore di oggetto che cadeva».

    «Il Dasser…».

    «Proprio così; poi alcuni turisti hanno cominciato a urlare, altri hanno cercato di soccorrerlo, altri ancora sono usciti in fretta correndo, terrorizzati. Infine sono giunti sul luogo il sagrestano, i monaci e il priore della chiesa».

    «Insomma il caos; se non ricordo male non c’è un solo ingresso alla chiesa…».

    «Infatti, sono due, quello principale in cima alla scalinata e un altro a sinistra prima del transetto, ma non è sempre aperto, solo occasionalmente qualche giorno!».

    «E naturalmente oggi era uno di quei giorni…», concluse Misericordia.

    Ceratti accavallava e scavallava le gambe con il pacchetto delle sigarette in mano. Non ce la faceva più, doveva fumare. Il Capo con lo sguardo un po’ perso continuava a lavorarsi il basettone sinistro.

    «Ma perché lasciare l’arma del delitto accanto alla vittima?», riprese Cammarata.

    Mi avventurai, prendendo la parola: «Agente, l’assassino spesso lascia l’arma del delitto sul posto, ma devo insegnarglielo io?»

    «Be’, se mi permette non sempre è così, l’assassino può anche sbarazzarsi dell’arma del delitto, per esempio anche recentemente in un caso di cronaca in provincia di Benevento, proprio vicino a casa dei miei cugini, un giovane di 22 anni ha…».

    Intanto Ceratti era esploso.

    «Cazzo!!! Devo fumare! Basta, tutti fuori!».

    L’urlo di dolore dell’ispettore sciolse il consesso.

    4

    Genio e sregolatezza

    Conoscete piazza Navona, no?

    Ecco, quello è il rione Parione, il cui nome viene da Parietone, cioè da un’antica, enorme, parete ritrovata in loco; la parete probabilmente apparteneva allo Stadio di Domiziano dove si svolgevano gare sportive e poetiche, gli agoni appunto. E da agone infatti, per corruzione, viene Navona.

    Ma forse troppa toponomastica vi annoia.

    Torniamo al quid.

    Sciolta la riunione ci congedammo da Ceratti, ci avrebbe aggiornato al più presto.

    Usciti dalla chiesa eravamo stanchi, confusi, un po’ scioccati e soprattutto molto affamati; il Parione ci aspettava con le sue trattorie e i suoi ristoranti spenna-turisti. Ma io e Ettore sappiamo dove andare: se sei al centro di Roma l’imperativo è mangiare bene senza farti fregare.

    La trattoria Da Tonino ci aspettava a via del Governo Vecchio. A tavola Misericordia rifletteva:

    «Un uomo ucciso davanti a un quadro celebre in tutto il mondo, uno dei capolavori del sublime genio scellerato, Michelangelo Merisi…».

    «Detto il Caravaggio…».

    «Come il suo paese di origine, vicino Milano… E pensare che la sua grandezza fu riscoperta solo nei primi del Novecento, lo sapevi Fango?»

    «Ah, veramente no, io sapevo che era famoso già ai suoi tempi».

    «Nel Seicento certo, era famosissimo, una vera e propria star, venivano a Roma da tutta Europa per vedere le sue opere e studiarle. Ma poi, anche per la sua vita, diciamo, avventurosa e non proprio impeccabile, ha subito una sorta di damnatio memoriae, per quasi tre secoli è stato come rimosso dalla storia dell’arte».

    Misericordia aveva abbassato il tono della voce, come a rendere il racconto più intrigante.

    «Uccise un uomo in duello, un certo Ranuccio, durante una partita di pallacorda e per questo fu costretto a fuggire da Roma, no? Se non ricordo male andò prima a Napoli, poi a Malta, dove divenne cavaliere, ma anche da lì fu costretto a fuggire, e poi arrivò in Sicilia…».

    «Esatto, Fango… Poi tornò di nuovo a Napoli e quando seppe che il papa era disposto a perdonarlo, grazie alla protezione degli Orsini si imbarcò con la speranza di rientrare a Roma. Ma non ci arrivò mai, dopo varie vicissitudini morì a Porto Ercole di malaria. O forse è stato ucciso, come dicono altri: aveva qualche conto in sospeso con i cavalieri di Malta».

    «Un caratterino leggermente aggressivo, vero?»

    «Altroché: un vero e proprio attaccabrighe direi, entrava e usciva di continuo dal carcere di Tor di Nona. Era violento come l’epoca storica che viveva».

    «In più ci metteva il suo…».

    «Gli aneddoti si sprecano… Una volta sembra che stesse per uccidere un garzone dell’Osteria del Moro, a Campo Marzio, perché non sapeva dirgli se i carciofi che gli aveva portato erano stati cucinati nell’olio o nel burro…».

    «Be’, se le cose stanno così però anche questo garzone era un… carciofo!».

    «Un’altra volta ancora sfondò il tetto del posto in cui abitava perché diceva che gli serviva più luce per dipingere, con il risultato di farsi denunciare dalla padrona di casa…».

    «Questa mi mancava…».

    «E potrei continuare con gli aneddoti… Ma se parlassimo solo di questi aspetti della sua personalità gli faremmo torto, Caravaggio era una natura complessa. Innanzitutto, a suo modo, era un uomo di fede, era cresciuto nella Lombardia di Carlo Borromeo».

    «Ah, Borromeo, perciò una controriforma evangelica, vicina ai poveri, agli ultimi, come quella di Filippo Neri qui a Roma…».

    «Bravo, la sua pittura è fortemente influenzata da tutto questo e se Caravaggio sparisce dalla storia dell’arte per così tanto tempo c’è di mezzo sicuramente anche questa colpa… Poi anche se famoso e molto ben pagato, faceva una vita libera e anticonformista, lontana dai palazzi».

    «Immagino, le bettole non erano proprio posti da aristocratici…».

    «Così, da una parte era legato ai cardinali e ai nobili romani che erano i suoi mecenati e committenti, dall’altra amava il popolino, girava spesso in piena notte tra questi vicoli del Parione o in quelli di Campo Marzio completamente ubriaco in compagnia di gente semplice e di prostitute. La Madonna raffigurata nel quadro di Sant’Agostino è proprio una prostituta».

    Mi venne da ridere, stava dicendo sul serio o scherzava?

    «Ma che dici Capo, una prostituta che rappresenta la Madonna e poi in una chiesa in pieno centro di Roma!».

    «È così Fango, se osservi il quadro con attenzione ti accorgerai che la Madonna sta sull’uscio di casa, proprio come facevano le prostitute a Roma e sul vestito ha una fascia gialla che a quei tempi indicava le donne che praticavano il mestiere più antico del mondo. Ti dirò di più: quella Madonna non è altri che Maddalena Antognetti, una famosa prostituta proprio di Parione; ma attenzione non una qualsiasi, bensì una onorata puttana come si diceva a quei tempi, protetta da amicizie importanti, alti prelati e aristocratici».

    Smisi di ridere e tornai serio, la cosa si faceva interessante.

    Misericordia continuò:

    «Proprio dentro a Sant’Agostino, per esempio, era sepolta una sua collega, la celebre Fiammetta, l’amante di Cesare Borgia».

    «Ma come, nella stessa chiesa in cui è sepolta santa Monica, la madre di sant’Agostino!».

    «In fin dei conti chi meglio di Monica avrebbe potuto capire: sant’Agostino, caro Fango, prima di dedicarsi a Dio ne aveva combinate di cotte e di crude… Comunque questo ci dice che le chiese cattoliche non contengono solo misteri della fede, ma anche misteri molto più profani, basta scavare e portare alla luce…».

    «Effettivamente adesso che mi ci fai pensare anche Renatino De Pedis, il capo della Banda della Magliana, era seppellito qui vicino, a Sant’Apollinare…».

    «Esatto… E comunque, per tornare a noi, sembra che Caravaggio amasse profondamente Maddalena e ne fosse ricambiato, probabilmente l’unico, vero, rapporto importante della sua vita con una donna. Se ne servì come modella non solo per la Madonna dei Pellegrini ma anche per la Madonna dei Palafrenieri della Galleria Borghese. Come diceva la Antognetti stessa: Il Maestro diede a me che sono puttana dignità di Madonna».

    «Ma Caravaggio non era gay?»

    «Al massimo bisex; i costumi sessuali, paradossalmente, erano molto più liberi allora che oggi».

    Mentre stavo ancora rimuginando sulla vita di Caravaggio, finalmente arrivò quello che avevamo ordinato.

    «Però, mi sembra di ricordare che quando il dipinto di Sant’Agostino venne ultimato provocò un vero e proprio scandalo».

    «Ovvio, era troppo anomalo rispetto ai canoni della pittura controriformista dell’epoca: realismo nudo e crudo, un Bambin Gesù sproporzionato (probabilmente il figlio della Antognetti stessa), i pellegrini inginocchiati con le vesti logore e i piedi gonfi e sporchi».

    «Sì, questo lo sapevo…».

    «E poi una Madonna molto, molto speciale: lei, Maddalena, l’onorata puttana che tutti conoscevano nel rione».

    «Questo invece non lo sapevo! Allora il mistero è come Caravaggio riuscisse a farsi perdonare tutto questo…».

    «Be’, diciamo che voleva provocare Clemente viii, il papa moralizzatore che aveva mandato al patibolo Beatrice Cenci e condannato al rogo Giordano Bruno, e per sua fortuna aveva protezioni in alto, molto in alto…».

    «Per sua fortuna, ma queste protezioni non funzionavano sempre, no? Anche perché il committente poteva dire la sua, La Morte della Vergine che adesso sta al Louvre mi sembra che fu rifiutata dai Carmelitani di Santa Maria della Scala…».

    «Lì, effettivamente, Merisi aveva un po’ esagerato: Maria era ritratta morta, a piedi nudi, spettrale e gonfia, sembra che per modella avesse preso una ragazza annegata nel Tevere. Era un’altra prostituta».

    «Ancora? Ma quante ne conosceva? Ragazzaccio!».

    «Alla fine il committente e gli Agostiniani accettarono la Madonna dei Pellegrini anche per il favore del pubblico, che, a prescindere dallo scandalo, adorava quel realismo quasi fotografico. Chi avrebbe rinunciato a un capolavoro così popolare? La bellezza non è mai un mistero».

    Rimasi spiazzato per un attimo, come sempre quando Ettore arrivava a quel tipo di conclusioni filosofico-esistenziali. Ma ormai ci ero abituato; incassai la sentenza e poi ripresi le fila del discorso, ci avrei riflettuto in un altro momento.

    «Ma perché Moretti era così impressionato, quasi ossessionato proprio da quel quadro? Ogni domenica, per tutto quel tempo, in piedi, in silenzio, lì davanti!».

    «Be’, magari questa potrebbe darci una mano a capirlo…».

    Misericordia calò sulla tovaglia una cartolina che riproduceva la Madonna dei Pellegrini, una di quelle che si possono prendere all’interno di Sant’Agostino in cambio di un’offerta; era piegata in due e dietro c’era scritto a penna Arte.

    «Oh mamma! Capo, non dirmi che l’hai presa da…».

    «Dal portafoglio di Moretti quando me l’ha passato Ceratti… Mi sembrava che dicesse Prendimi, prendimi!, che dovevo fare?».

    5

    La bella vedova

    A proposito di Banda della Magliana: «Non mi piacciono, c’hanno ’na faccia da corso Trieste», dice a un certo punto il Libanese in Romanzo criminale (il film, non la serie) con un certo disprezzo.

    Perché, vi chiederete voi, che facce hanno gli abitanti di corso Trieste e dell’omonimo quartiere?

    Be’, se all’inizio del Novecento, quando venne costruito, il primo nome del quartiere era Savoia, sicuramente facce poco proletarie. Era una zona residenziale e tale e quale è rimasta. Quindi ancora oggi vuol dire soprattutto due cose: bei villini (tra cui i famosi, eccentrici, insuperabili villini Coppedè, che è stato un po’ il nostro Gaudí) e bella e buona borghesia romana.

    Come la famiglia Moretti.

    Ceratti aveva chiamato e noi, l’indomani mattina, di lunedì, eravamo andati.

    Un po’ in ritardo (il Capo mal sopportava la mattina, andava a letto tardi e quindi di conseguenza si svegliava tardi; diceva che il suo metabolismo era serotino, ma io direi nottambulo), ma alla fine avevamo raggiunto il luogo dell’appuntamento.

    L’ispettore con il fido Cammarata accanto era già immerso nell’interrogatorio della moglie della vittima, Alba De Santis.

    Donna affascinante: quarantacinque anni, alta più o meno un metro e settanta, magra, mora, un incarnato ammirabile, occhi scuri

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